American Hustle

American Hustle

Lustrini e scollature profonde, cene alcoliche ed epica della disco dance. Ma anche maghi della truffa, politici corrotti a fin di bene, mafiosi che s’innamorano e agenti FBI coi bigodini. Questo e molto altro è American Hustle, ultima fatica di David O. Russel, regista de Il lato positivo e The fighter. Dagli ultimi due film prende il meglio del cast (Bradley Cooper, Bob De Niro e il premio Oscar Jennifer Lawrence dal primo, Christian Bale e Amy Adams dal secondo), li agita, cotona e miscela creando un cast succulento, che è sicuramente il meglio di questo film flamboyant e divertito, che omaggia gli anni ’70 e il loro cinema, gioca con il montaggio e i flashback ma soprattutto rende giustizia ai corpi dei bravissimi attori.
Qualche dettaglio anatomico: la pancia di Christian Bale, virtuoso del trasformismo fisico; il seno di Amy Adams, piccolo, bianco, perfetto e generosamente offerto agli scolli  e al nude look del costume designing, firmato Michael Wilkinson; i capelli di Bradley Cooper, reso bruno, italiano e boccolutissimo nel suo ruolo di agente un po’ frustrato; gli occhi di Jennifer Lawrence, truccatissimi e perfetti nel comunicare di volta in volta ansia, malizia, disagio, dispetto, tristezza, paura; il naso di Jeremy Renner, così importante e scolpito da dare carattere alla sua aria apparentemente anonima.

American Hustle

935381 - AMERICAN HUSTLE

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«Some of this actually happened», recita una scritta a inizio film, un attimo prima che Bale, nel ruolo del con man Irving Rosenfeld, si sistemi il parrucchino davanti allo specchio. La storia di partenza è reale: negli anni ’70 un agente FBI assolda un artista del raggiro e la sua abile compagna per incastrare un politico del New Jersey in una storia di mazzette (il confronto tra la fiction e come andò veramente lo trovate qui). È il canovaccio classico che potrebbe essere diretto anche da uno Scorsese (più sanguinoso), un Soderbergh (più pop), uno Spike Lee (più sassy) o un Fincher (più Fincher).
O. Russel sembra occupato soprattutto a divertirsi, e non lo diciamo affatto come nota di demerito: la camera danza attorno alle vicende dei nostri eroi – tutti impegnati a reinventarsi dopo un passato di frustrazioni – con evidente piacere, lo stesso che prova lo spettatore intossicato di luci, colori, lacca e musiche. E che musiche: la colonna sonora spazia da Live and let die di Paul McCartney a I feel love di Donna Summer, dagli America a Duke Ellington, da Tom Jones a Sinatra. Se ne vanno oltre due ore senza che siamo mai saltati sulla sedia per qualche colpo di scena, ma dopo averci regalato un walzer molto glam, girato con abilità e impreziosito d’interpretazioni che rivelano lampi umani e intensi. Come quelle canzoni disco che ti lasciano addosso una sensazione di romanticismo.

Marina Nasi
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