Argenti senesi, storie e peripezie di orafi dal 1781 all’Unità d’Italia

Argenti senesi, storie e peripezie di orafi dal 1781 all’Unità d’Italia

SIENA – Una ben documentata ed elegante ricerca storica, realizzata da Paolo Torriti e pubblicata col titolo “Argenti senesi” (edifir 2019), racconta le vicissitudini delle generazioni di orafi che operarono dal 1781 fino all’unità d’Italia nella vasta porzione di territorio toscano sotto l’influsso di Siena.

Nella simbologia delle materie preziose utilizzate dall’uomo per proiettarvi il bisogno di dare senso e concretezza alle proprie passioni, l’argento ha da sempre avuto le sue specifiche narrazioni.

Gli antichi l’associavano alla luna e alla verginità femminile per poi senza una logica apparente farne anche un simbolo di prosperità. Nell’Islam era un metallo sacro. Nella tradizione popolare europea rappresentava una sorta di protezione dai demoni e forse questo aiuta a comprendere perché, nella letteratura che definiamo fanta-horror, divenne l’arma letale contro cattivissimi lupi mannari, vampiri e altre bestie transgender. Un tempo, nelle campagne, contro terribili nuovoloni, per dissiparne il potenziale distruttivo immagino, si sparavano, a cannonate o a fucilate, proiettili che contenevano argento.

Insomma, questo metallo monovalente molto duttile e malleabile, grande conduttore di elettricità, ha da sempre eccitato la fantasia di stregoni, alchimisti, profeti, ciarlatani e, ovviamente della gente.

Tuttavia, se passiamo dall’ordine simbolico imposto dalle narrazioni alla valenza formale degli oggetti estetici che da sempre artigiani orafi hanno configurato, donandoci spesso ornamenti, decorazioni di rara raffinatezza, possiamo dire che le qualità percettive dell’argento incapsulate in forme ben stilizzate, fanno risuonare in noi tratti specifici del bello di sublime intensità.

Gli oggetti, meglio delle parole, ci fanno comprendere quanto in passato l’argento abbia plasmato una parte importante della nostra cultura visiva, deplorevolmente segregata tra gli effetti prodotti dal sistema di artefatti definiti frettolosamente “arti minori”.

ARGENTI SENESI

L’ultimo libro di Paolo Torriti, a tal riguardo è indubbiamente un contributo importante per riequilibrare le presunte gerarchie tra arte tout court e quella decorativa; oltre, naturalmente, ad essere una encomiabile ricostruzione storico-critica del come e quanto l’argento abbia motivato generazioni di artisti-artigiani a sperimentare con picchi di virtuosismo creativo, l’impatto emotivo di forme che da questo metallo distillano una appagante, silenziosa bellezza.

Nel suo “Argenti senesi”, l’autore, con dettagliata precisione e accuratezza, ci restituisce le vicissitudini storiche, professionali, esistenziali, degli orafi che dal 1781 sino all’unità d’Italia,  hanno agito nel territorio che oggi grossomodo corrisponde alle province di Siena e Grosseto. La ricostruzione del contesto storico è molto coinvolgente, suffragata da documenti che ci fanno capire quanto fosse importante non solo la cultura aggregata all’attività degli orefici, ma anche l’economia del lusso attivata dagli stupendi oggetti che essi creavano.

Vale la pena di ricordare che l’ossatura cognitiva del libro e della estenuante ricerca sul campo, resasi necessaria per inventariare ciò che era rimasto nel territorio citato dopo le vicissitudini narrate dall’autore (furti, saccheggi, prelievi forzati da crisi economiche), la fonte di stimolo più importante per la ricerca, dicevo, è stato l’importante archivio di Costantino Bulgari (1889-1973), infaticabile studioso del settore, al quale Paolo Torriti ha dedicato un prezioso capitolo. Il lavoro su questo immenso repertorio di informazioni basilari ha di fatto stimolato la ricerca culminata nel documentatissimo libro sugli argenti senesi. Le ulteriori integrazioni hanno consentito non solo di inventariare gli oggetti catalogati nella pubblicazione con una ricchezza di dati che segnala la serietà e il rigore scientifico dell’approccio, ma anche di avere un affresco olistico dei problemi, delle congiunture storiche, dei rapporti con la committenza, delle leggi che demarcavano l’operatività della corporazione degli orefici e delle vicissitudini personali dei maggiori protagonisti tra gli artigiani documentati.

Devo dire che il godibilissimo saggio di Paolo Torriti tiene insieme in modo ammirevole il costante e preciso riferimento a fonti documentate, con l’attenzione a uno stile narrativo cattivante che permette al lettore di avere ben chiari i mutevoli scenari, le peculiarità di un mestiere raffinato che aveva nella corporazione senese artisti/artigiani capaci di raggiungere insospettabili livelli di qualità realizzativa.

L’idea che mi sono fatto grazie al libro è che, aldilà dei riferimenti ad etichette stilistiche standard come barocco, neo classicismo, stile impero…e così via, guardando con attenzione gli oggetti documentati, ciò che caratterizza l’artista/artigiano di qualità  (e lo separa da chi semplicemente ha buona manualità) è un sentimento stilizzante che lo pone assolutamente dentro al suo tempo ma al tempo stesso lo proietta fuori dal suo tempo. È chiaro che, le categorie estetiche di solito utilizzate dagli studiosi per inquadrare e contestualizzarne l’esito formale, corrono il rischio di risultare spuntate se messe frontalmente a confronto con lavoro di immaginazione dell’artista/artigiano che fonde il vecchio col nuovo, uno stile con l’altro, il repertorio tematico standard con l’interpretazione fantasiosa. Per molti degli artigiani presentati dalla ricerca non sarebbe certo un gran azzardo l’uso della parola creatività. So benissimo che per quelle generazioni era un concetto sconosciuto o quasi; a definirli “creativi” poteva finire a ceffoni o con un duello. Ma se penso a Giuseppe Coppini (1765-1824), forse il più bravo della sua generazione, mi risulta ostico pensarlo come un semplice artigiano oppure un decoratore.

Prendete, solo per fare un esempio, il suo busto reliquiario di Santa Caterina da Siena fatto per la Contrada dell’Oca e paragonatelo a quello di Antonio Bonechi (1766-1808).

Il secondo, anch’esso autorevole artigiano di bottega senese, nella sua interpretazione segue l’iconografia tradizionale. La veste delle terziarie domenicane arriva fino a coprire parte del volto triste, ingentilito nei tratti e reso struggente dalla insensata bellezza dell’argento.

La Santa Caterina di Coppini è di ben altro livello. Non ha l’atteggiamento mesto e sottomesso divulgato dalla tradizione visiva. Il volto, di una bellezza sconvolgente, direi molto moderna, sembra raffigurare Santa Caterina in un momento di severa estasi. La stilizzazione dell’oggetto rientra senz’altro nei criteri che normalmente ancoriamo al gusto neoclassico. Ma osservate l’altezza del collo, l’ampio copricapo che sembra reagire, come fosse una estensione della pelle, allo stato di desiderio della protagonista. Sì certo, non c’è l’enfasi barocca che Bernini scolpì nell’estasi di Santa Teresa. Ma in compenso la silhouette lumeggiante (per via dell’argento, of course!) del Coppini è incredibilmente in anticipo sui suoi tempi. Per vedere una figura femminile altrettanto aggraziata bisognerà attendere Boldini. Cosa frullava nella testa del Coppini? Non poteva non conoscere le innumerevoli immagini della Santa che già formavano una tradizione visiva. E probabilmente sapeva benissimo che non poteva essere così, si fa per dire, fotogenica dal momento che, non avendo una dote sufficiente, potè entrare nel tanto agognato convento solo dopo che il suo volto si trovò misteriosamente  orrendamente sfigurato da pustole, bubboni e altre schifezze. Si certo, con tutta quella bellezza intendeva alludere alla purezza del mondo interiore della Santa. Si dice anche che la sua fonte d’ispirazione fosse stato un calco da una statua che a sua volta riproduceva la maschera funeraria della Santa. Non so voi, ma io non ci credo. Preferisco seguire il mio ragionamento, ovvero ci troviamo di fronte a una ondata di follia creativa che unitamente al controllo esercitato dalla maestria professionale, ci restituisce una forma che si separa dai contenuti e configura qualcosa di autonomo, autoreferenziale.

ARGENTI SENESI

Il libro di Paolo Torriti mi ha fatto capire che spesso nell’artigiano ci sono dimensioni che trascendono il semplice saperci fare, il mestiere, la precisione tecnica. Sono dimensioni che coinvolgono fantasia e immaginazione in modo più robusto rispetto i presunti artisti. Come mai? Probabilmente perché gli artigiani devono costantemente lottare con una soglia di efficacia tecnica e precisione realizzativa che ha la funzione di vigilare l’estensione dello scarto dalla norma prodotto dalla fantasia, soglia che l’arte conclamata, dal romanticismo in poi, ha progressivamente abbandonato. Ma i frutti di questa lotta possono essere sorprendenti e innalzare la tecnica a livelli di virtuosismo sopraffino, come dimostrano molte delle opere degli orafi documentati nel bel libro di Paolo Torriti.

Non mi sorprendono dunque le parole, contenute nella prefazione del libro, di Giovanni Raspini, imprenditore, uomo di raffinata cultura ma, in questa sede, soprattutto vero e appassionato pazzo per l’argento, ispiratore, istigatore, motivatore, torturatore, sostenitore della ricerca diretta da Torriti:

Sono argentiere e la materia in termini di esecuzione e tecnica mi appartiene. Riconosco nelle opere di due secoli fa le tracce e i segni delle lavorazioni che nel mio laboratorio si compiono e si eseguono tutti i santi giorni e questo mi fa sentire e riconoscere nel rapporto con gli antichi artigiani senesi un discorso tra colleghi”.

Lamberto Cantoni
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One Response to "Argenti senesi, storie e peripezie di orafi dal 1781 all’Unità d’Italia"

  1. ann   10 Marzo 2019 at 08:18

    Il libro del prof. Paolo Torriti è la sintesi perfetta del lavoro di ricerca di un eccellente studioso del gioiello. Mi permetto una sola osservazione: avrei gradito un capitolo sulle ” Tecniche di lavorazione”. L’argenteria antica ci affascina non solo per la bellezza delle opere o per la qualità artistica degli oggetti, ma anche per la lavorazione manuale che rendono unici tutti i manufatti. La conoscenza degli antichi metodi di lavorazione è dunque importante perché ci permette di capire in profondità il valore del virtuosismo dell’artigiano.

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