Carlo Chionna al Visionnaire di Milano

Carlo Chionna al Visionnaire di Milano

Siamo andati al Visionnaire di Milano per seguire la sfilata di Carlo Chionna in chiusura della settimana della moda milanese uomo.
Linee pulite per l’uomo casual, arricchite da una variegata tavolozza di colore. Chionna predilige da sempre per i suoi capi la vestibilità e la praticità anche per un fisico non scolpito come quello dei modelli che stiamo ammirando. Lo stilista imprenditore e ideatore del marchio 9.2, azienda ricordiamo nata da meno di dieci anni a Bologna, è nato con il disegno che caratterizza il modello del suo jeans. Il core business aziendale è basato sul casual maschile dal quale è partito, per poi estendere le sue linee anche agli accessori e all’abbigliamento femminile. In occasione di quest’ultima sfilata abbiamo visto opporre alla vivacità di un uomo elegantemente sexy nel suo casual colorato, una donna più costretta in un classicismo statico, dove il grigiore della tavolozza si ravvivava solo in qualche sporadica idea di design, o nei coreografici piumaggi per delle serate fuori dall’ordinario.
Ci ha colpito invece in chiusura l’abito da sposa in tessuto jeans uscito sulle note di un Michael Jackson dark dai guanti bianchi luccicanti.
Personalmente seguo lo stilista Carlo Chionna da diversi anni, sin dalla sua prima comparsa eccentrica alla 63° edizione del Festival del Cinema di Venezia, e sono consapevole del suo modo “originale” di comunicare ma non nego lo stupore che ha provocato in me l’ultima campagna pubblicitaria dell’azienda a difesa del Made in Italy.
La campagna di comunicazione è volutamente provocatoria, con l’intento di combattere l’ipocrisia dei noti marchi del lusso, portabandiera del brand “Made in Italy”. I manifesti pubblicitari che campeggiano in alcune città italiane, da Firenze (durante la 79esima edizione di Pitti Immagine Uomo) a Milano, raffigurano lo stilista crocifisso. Accanto al crocifisso si legge la frase: ”Perdona loro perche’ non sanno quello che indossano”, e la didascalia ”Dio salvi il made in Italy”.
Accusato di blasfemia lo stilista dichiara: ”Il nostro intento non era di offendere nessuno ma di attirare l’attenzione sulla difesa del Made in Italy, affossato da leggi che consentono alle aziende di fregiarsi di questo marchio dopo aver prodotto l’80% dei capi all’estero: basta realizzare le ultime due fasi della lavorazione in Italia, e si può appiccicare l’etichetta ‘Made in Italy”. E aggiunge: “Quello che io, in modo provocatorio voglio suscitare nell’opinione pubblica è l’invito a domandarsi che cosa induce un imprenditore a spingersi a tanto”.

Chionna


Chionna punta il dito contro la legge per la quale “è sufficiente eseguire due fasi della lavorazione in territorio italiano, per far passare il prodotto come -100% Made in Italy-“, così fa ricorso a una metafora creativa, come la definisce lui stesso, “che meglio racconta la sua situazione di imprenditore, fermamente convinto di mantenere l’intera filiera produttiva in Italia ma strangolato da tasse altissime e per nulla tutelato a livello legale: la metafora di chi è disposto ad immolarsi pur di tutelare l’artigianalità completamente italiana e salvaguardare numerosi posti di lavoro”. E ancora: “Made in Italy dovrebbe essere garanzia di qualità, ma anche garanzia per le imprese e per i lavoratori che operano in Italia. Peccato che questa etichettatura sia spesso legalmente -fasulla-, a danno della nostra moda, delle nostre aziende, dei nostri artigiani, della nostra tradizione, di un intero settore di cui andavamo fieri e che ha i giorni contati, e ovviamente a danno dei consumatori”. Chiude con enfasi nell’intento di stimolare il coinvolgimento tra imprenditori.
Conclude dicendo: “Stiamo uccidendo giorno dopo giorno qualcosa che il mondo intero ci invidiava, ma che purtroppo ultimamente è stato drammaticamente screditato”.
Lascia comunque intravedere, attraverso l’energia esclamativa del marchio DSMY, acronimo che sta per “Dio salvi il Made in Italy”, una nota di ottimismo.

Fabiola Cinque

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