Demna Gvasalia, il profeta di Vêtements

Demna Gvasalia, il profeta di Vêtements

Vêtements in pochi anni ha generato un terremoto nella moda. Nel nome di Gvasalia, il suo profeta, una moltitudine di soggetti sta incamminandosi verso una svolta radicale nel modo di interpretare le apparenze.

 

I visionari della moda

Martin Margiela nel 2009 fece trapelare nel suo stile sobrio e lapidario, ostile ai modi della comunicazione spettacolo della moda, il suo ritiro dalla professione di couturier e art director. Di passaggio informo il lettore poco attento al contesto nel quale emergono le forme moda, che lo stilista, aveva ceduto la proprietà del suo brand fin dal 2002 a Renzo Rosso, continuando tuttavia a controllarne gli sviluppi creativi. A partire dal momento dell’annuncio della definitiva uscita, le nuove collezioni sarebbero state orchestrate dal team con il quale da sempre condivideva le scelte creative. Renzo Rosso dichiarò inoltre che la maison avrebbe proseguito la sua attività nel rispetto e in coerenza con i valori promossi da Martin Margiela. Nessuno o quasi ci credette. All’inizio del 2010, esattamente l’11 febbraio, arrivò la notizia del suicidio di Alexander McQueen. Lo shock tra gli addetti ai lavori e fans della moda estrema fu evidentemente più drammatico rispetto all’annuncio del ritiro del grande stilista belga. Si leggeva che il geniale creativo scozzese non avesse retto la morte della madre avvenuta qualche giorno prima. Circolava la voce che il funerale della madre fosse stato ritardato di qualche giorno affinché si potesse seppellirli insieme. La fatale impossibilità di elaborare il lutto da parte dello stilista, fu messa in correlazione con gli immancabili sussurri su sintomatici eccessi, droghe, messaggi cifrati di morte che da tempo si pensava fossero imbricati nelle sue collezioni. Nel febbraio del 2011, John Galliano si fece pescare ubriaco e strafatto al Café de Flore (Parigi), impegnato ad insultare passanti e clienti inneggiando a Hitler, al nazismo, ai campi di sterminio. Per sua sfortuna, un turista riprese la divertente e scorrettissima performace (avrei pagato il biglietto per essere in prima fila, anche a rischio di beccarmi una bottigliata). Dopo poche ore, le immagini di un Galliano nevrastenico e dal linguaggio degno del Céline dei controversi pamphlet,  facevano il giro del mondo. La Maison Dior lo licenziò in tronco. Galliano fu costretto a prendersi due anni sabbatici trascorsi, dicevano le malelingue sempre presenti e particolarmente creative nei momenti di caduta delle star, in un Castello vicino a Parigi a meditare sulle conseguenze dei suoi errori, insieme al suo fidanzato (più probabile che si sia sottoposto ad una dolorosa riabilitazione da eccessi di droghe). Poi verso il 2014 Oscar de la Renta, per sei mesi, gli permise di riannodare i suoi neuroni ben spazzolati dalla cura, alle cose della moda, offrendogli uno stage. Quando arrivò il momento di parlare di soldi lo stilista americano cominciò a tergiversare. Per fortuna di Galliano arrivò Renzo Rosso con una proposta allettante: la direzione artistica della Maison Margiela cioè un brand che era esattamente il rovescio della cifra creativa dell’inglese, il quale prontamente si dichiarò un estimatore del collega belga, felice di interpretarne lo spirito. Tra i fans di Martin Margiela perlopiù indignati, a qualcuno riuscì anche qualche risata.

In poco più di un paio d’anni dei tre creativi che negli anni novanta, sulla scia di Vivienne Westwood, Kawakubo/Yamamoto, J.P. Gaultier, avevano contribuito ad affossare la moda novecentesca, spingendola di forza in territori creativi inesplorati, due erano fuori gioco e uno sembrava aver perso la beata incoscienza che anni prima aveva trasferito al marchio più classico che si potesse pensare ovvero in Dior, trasformando le sue collezioni in applauditissime performance.

In ciascuna delle drammatiche circostanze che ho brevemente elencato, molti addetti ai lavori, si chiesero chi ne avrebbe preso il posto, non solo nella conduzione dei rispettivi brand o nelle altre marche presso le quali operavano, ma la domanda investiva anche il ruolo esorbitante che essi avevano rivestito nello sviluppo della moda, concepita sia come abbigliamento e sia come dispositivo simbolico e passionale fuori dall’ordinario.

Naturalmente la risposta più sensata alla comprensibile questione era: nessuno! Martin Margiela, John Galliano, Alexander McQueen durante il periodo nel quale costrinsero i teorici della moda a stressare il vocabolario per imbrigliare gli effetti della loro creatività in teorie o visioni estetiche convincenti, furono delle singolarità. Non importava a nessuno se, grazie al loro coraggio, nelle scuole di moda di tutto il mondo, un esercito di stilisti erano maturati nel loro mito. La loro esperienza, pensavano molti addetti ai lavori, non sarebbe stata riproducibile. I brand che portavano il loro nome e quelli che avevano così bene reinterpretato, avrebbero potuto continuare ad avere successo. Ma solo attraverso un processo di discontinuità. Per dirla con una fortunata formula di Karl Marx, l’esperienza storica dei tre geniali stilisti non avrebbe potuto replicarsi se non nelle sembianze della farsa.

Tuttavia questo modo di pensare mette in ombra un fenomeno che ha uno spessore storico dalla valenza più rilevante rispetto il mito della grande singolarità. Dalla modernità in poi, la moda ha sempre collocato lungo i confini del suo potere sulle apparenze, dei creativi che hanno avuto la funzione di far evaporare le traballanti certezze dei codici estetici che sembrava voler imporre. Definirei visionari il ristretto gruppo di couturier/designer che hanno svolto questa funzione rigeneratrice. La Schiapparelli negli anni trenta ha interpretato questo ruolo. Balenciaga, con uno stile molto diverso dalla collega, lo ha fatto subito dopo. Indubbiamente Paco Rabanne nei sessanta ha avuto un impatto da visionario. Yves Saint Laurent, nei suoi anni più creativi (e tossici) ha sicuramente forzato il visibile e il portabile della moda. Capucci è divenuto un visionario al costo di uscire dal sistema moda. E poi i già citati Vivienne Westwood, Miyake, Gaultier, Margiela, Galliano, McQueen…ciascuno di essi a suo modo, aveva concepito forme e oggetti-moda che visti all’interno delle strutture di senso ordinarie, apparivano insensati quanto intrusivi, ovvero capaci di incunearsi nell’immaginario della gente per stravolgerne i valori (non solo delle apparenze).

Seguendo gli appassionati studi che Henry Focillon dedicò ai grandi visionari dell’arte (1), potremmo caratterizzare il modus operandi di questo ristretto numero di creativi, attraverso un approccio semantico al problema dello stile basato sulla forte percezione che abbiamo della loro radicale differenza. Ovvero potremmo distinguere due modi dell’uso del concetto di stile: a. Spesso attraverso una analisi sincronica/diacronica ci sembra di poter osservare insiemi coerenti di forme unite da un rapporto reciproco, la cui armonia però si cerca, si fa e si disfa in modi diversi; in questi casi la propensione a mettere ordine nel mondo ci spinge a classificare forme e artisti attraverso etichette che hanno il compito di raggrupparne i valori che ci sembrano dominanti; b. Esistono tuttavia casi nei quali alcune forme della creatività ci sembrano sia degli arresti che dei ricominciamenti; sottoposti emotivamente alla loro forza espressiva abbiamo il sentimento di trovarci di fronte allo stile unico, inimitabile, differente. È come se i creativi coinvolti, fossero dentro la storia è nello stesso tempo fuori di essa. Ebbene, la moda sia nelle fasi in cui si trova in territori del business che mi piace definire Normalistan (ovvero quando l’andamento del mercato risulta prevedibile) sia in quelli Estremistan (quando confini, procedure e tutti i modelli standard saltano o risultano addirittura dannosi), ha sempre espresso un ristretto numero di creativi capaci di re-visionarne forme, volumi, sintassi, alterandone la semantica. Evidentemente è in un mondo Estremistan che il visionario esalta al massimo gli effetti di una creatività capace di sfruttare l’instabilità, il disordine del settore in cui opera, generando svolte radicali. Domanda al lettore: dove ci troviamo oggi? In Normalistan o in Estremistan? Per quanto mi riguarda non ho dubbi, globalizzazione, internet, crisi finanziaria, terrorismi, ci hanno fatto precipitare in un mondo caratterizzato da uno stressante disequilibrio. La moda è frivola solo in apparenza. In realtà, essendo caratterizzata da una dualità irriducibile, rituale elitario e narrazione collettiva, troviamo spesso nelle sue forme le tracce o i sintomi che discendono dalle ferite inflitte dalla contingenza problematica che stiamo attraversando. In Estremistan, i valori in conflitto l’uno con l’altro, permettono al visionario di distruggere intere tradizioni e al tempo stesso di presentarsi come il profeta di nuovi valori che inducono tra il pubblico sensibile, decisivi mutamenti di prospettiva.

Ebbene, e chiedo scusa al lettore per averla presa per le lunghe, Demna Gvasalia, agli occhi dei più quotati opinion leader, sembra essere oggi il creativo il grado di perpetuare l’efficacia simbolica del mito del grande visionario, costruttore di nuovi mondi moda, profeta di inedite visioni sul significato delle apparenze.

Radical fashion, Terrific fashion, fashion at the edge

L’impatto dei creativi che ho proposto di definire visionari, tra i quali colloco Gvasalia, nella cultura della moda è stato affrontato da numerosi punti di vista.

Claire Wilcox, sulla scorta di una importante mostra organizzata dal Victoria & Albert Museum (Londra) nel 2001, definì lo stile della generazione di stilisti che meglio avevano rappresentato la post modernità “Radical Fashion” e metteva in correlazione la visionarietà degli undici creativi selezionati (Azzedine Alaia, Hussein Chalayan, Kawakubo, J.P. Gaultier, Helmut Lang, Alexander McQueen, Martin Margiela, Issey Miyake, Junya Watanabe, Vivienne Westwood, Yohji Yamamoto) con una sorta di sesto senso che consentiva ad essi di intercettare le energie che stavano cambiando la struttura del sociale. Diamo la parola alla curatrice/saggista: “Radical Fashion is not only about an expressive or visionary individualism but also, in the nature of fashion, it is a barometer of a changing world and changing ways of thinking” (2).

Secondo Claire Wilcox, gli stilisti che chiamo visionari, avrebbero la capacitazione di intercettare segni particolari che tradotti nelle forme della moda, in seconda battuta si trasformerebbero in catalizzatori del cambiamento del gusto. Quindi più che essere pensati come singolarità il loro specifico valore dipenderebbe dall’empatia che li porterebbe a fondersi con gli aspetti dinamici del processo di socializzazione.

Secondo Judith Clark (3), sarebbe stato il movimento futurista, prima del surrealismo, a far emergere con decisione e intransigenza la necessità di pensare l’abito in funzione del cambiamento continuo, orientato a sintonizzarsi con i valori decisivi della modernità: velocità, brusche accelerazioni, rifiuto della tradizione. Anche se gli abiti futuristi non ebbero il successo contaminante che ebbero quelli ispirati dal surrealismo, credo che l’autrice sia nel vero quando ne segnala l’importanza teorica: per la prima volta le forme della moda erano chiamate ad incorporare e a fondersi con qualcosa che trascendeva la loro codifica tradizionale, trasformandosi in vettori di un mutamento senza soluzioni di continuità. Radicalitá, contaminazioni con artisti d’avanguardia e sdoganamento di passioni estreme, divennero i tratti distintivi del gruppo ristretto di stilisti che funzionavano sfruttando la negazione della programmata variazione delle forme, considerata il motore della moda normale.

Cristina Morozzi nel libro Terrific Fashion (3), osserva da un punto di vista diverso la proliferazione di oggetti-moda bizzarri. Il punto di partenza della sua ricerca è il riconoscimento del fatto che la post modernità ha trasformato il Radical Fashion, rinominato effetto Terrific, in qualcosa di ordinario. Scrive l’autrice: “La moda terrific ha una logica estranea alle tendenze e agli stili e, paradossalmente non segue le mode. Ha un suo percorso autonomo, legato, più che al sistema moda e alle leggi stagionali che lo governano, alla fantasia deviante, al ghiribizzo artistico, alla sperimentazione spericolata, alla spudoratezza e all’istinto dissacratorio di alcuni creativi”.

Mentre Claire Wilcox e Judith Clark tentano di connettere il Radical fashion all’increspatura storica che il gruppo citato di stilisti contribuisce a far emergere (e alla quale appartengono), la ricerca sul significato delle forme dell’oggetto coordinata da Cristina Morozzi, sembra privilegiare le scelte individuali dei creativi: la moda terrific è dunque il frutto di un capriccio, la ricerca dell’effetto iperbolico. In altre parole rappresenta la negazione di tutto ciò che in un determinato momento si presenta come dichiarata tendenza o promessa di un’ordine nel cambiamento. Chiaramente il Terrific Fashion non può che esibire una costante inclinazione alla provocazione e alla sfida. Tuttavia il disordine che provoca riesce spesso a farsi percepire come seducente, rendendo accettabile il sacrificio della bellezza che in qualche modo impone. Di passaggio è bene ricordare quanto sia paludosa l’area semantica dell’aggettivo Terrific. Potremmo in prima approssimazione tradurlo con eccezionale, magnifico, grande; a patto però di usarlo in espressioni che rimandano anche a qualcosa di esagerato, di eccessivo.

Come mai atti di moda finalizzati a produrre qualcosa di sorprendente e inquietante sono divenuti la normalità? Secondo l’autrice l’accelerazione del mutamento nella moda avrebbe trasformato il Terrific da eccezione a regola. Il clamore degli effetti scandalosi suscitati da scelte espressive estreme, in un contesto sociale e tecnologico che rende possibili emulazioni sempre più veloci, si trasformano rapidamente in nuovi standard. L’ipotesi forte che emerge da questo ragionamento è che la negatività del radical fashion si stia trasformando in una sorta di gioco il cui fine ultimo è il cambiamento continuo che prescinde dalla valenza dei valori che diffonde. Quali sono i sintomi sociali che ci costringono a prendere sul serio la congettura presentata sopra? Sembra a molti una evidenza il fatto che nel nostro tempo l’appagamento dell’oggetto moda non sia più legato al piacere estetico, quanto piuttosto alla frenesia di un consumo dell’oggetto, effetto/causa di un mutamento cieco rispetto le sue conseguenze sulla soggettivizzazione. Alcuni psicoanalisti contemporanei, tra i quali è doveroso citare Massimo Recalcati da parecchi anni correlano il programma della civiltà moderna la cui escrescenza spettacolare facciamo coincidere con la moda, con un aumento esponenziale di fenomeni di intossicazione a loro volta responsabili di una nuova sintomatologia nella quale patologie come bulimia, anoressia, panico, risultano dominanti.

Secondo lo psicoanalista la liquidazione del piacere estetico dell’oggetto, avrebbe lasciato via libera ad un godimento incontrollato. Riallacciandosi a quanto J.Lacan sosteneva all’inizio dei ’70 del novecento, per Massimo Recalcati il modo del godimento prevalente nella società contemporanea avrebbe i caratteri del godimento smarrito (5).

Se il Radical Fashion di Claire Wilcox e Judith Clark ci spingeva a immaginare la creatività degli stilisti visionari non solo come espressione di una romantica rivolta individuale ma soprattutto nei termini di risposta simbolica al cambiamento degli assetti economici e sociali; se il Terrific Fashion di Cristina Marozzi induce a pensare la normalizzazione degli esiti di atti moda radicali come proliferazione di forme moda bizzarre che segnalano l’evaporazione della bellezza e della seduzione come sentimenti dominanti nei processi di modazione, è Caroline Evans, a mio avviso, ad aver presentato la sintesi teorica più convincente per spiegare l’impatto della moda visionaria.

In Fashion at the Edge, pubblicato nel 2003, l’autrice rileva nella estrema spettacolarità di abiti e performance la parte oscura del Radical Fashion ovvero le tracce del trauma della civilizzazione. L’autrice sembra suggerire che gli stilisti radicali, funzionerebbero un po’ come psicoanalisti del nostro tempo, indagandone l’incoerenza, la discontinuità, disruption and disintegration. In un certo senso, forzando di poco la visione di Caroline Evans, leggendo le sue parole siamo indotti a congetturare che la creatività più acclamata dal giornalismo modaiolo metterebbe a nudo il tratto isterico della moda, finendo con l’evocare la preoccupante diffusione tra i soggetti di sintomatologie legate all’alimentazione, a paure irrazionali, a immagini mortifere. Quindi, è legittimo sostenere che una parte della moda ovvero gli stilisti sperimentatori di nuovi mondi, funzioni contro la società e/o la civilizzazione. La loro ostilità diretta contro il processo di costruzione di una identità ( tipica della moda normal ) e le conseguenti sperimentazioni gender,  genera la diffusione endemica di ansietà, una passione fondamentale per comprendere il collasso emotivo al quale si lega l’istanza del potere immaginario dei visionari del nostro tempo. Di passaggio segnalo che Caroline Evans perfeziona le idee contenute in un altro testo importante scritto da Rebecca Arnold, pubblicato nel 2001, intitolato Fashion, Desire and Anxiety (6), nel quale l’autrice decostruisce il mondo onirico della moda mettendone in luce le tendenze auto-distruttive e la brutale sovversione dei valori morali.

Ora, tutti i testi e gli autori citati, in qualche modo suggeriscono che il tratto comune dei visionari del nostro tempo è una pratica creativa basata sul negativo della moda corrente. Saremmo passati dunque dalla società contro la moda (quando quest’ultima prende la strada dell’eccesso) alla moda contro la società. Dopo la crisi della couture, dai sessanta fino alla fine degli anni ’70 erano i processi sociali a condizionare le scelte degli stilisti. Dagli anni ottanta in poi è emersa prepotentemente ai bordi della moda una generazione di creativi capaci di imporre la loro visione contro il mainstream. Io li chiamo visionari, e la loro specificità la trovo nella trasfigurazione che in qualche modo impongono ai fenomeni sociali implicati nel gioco delle apparenze. Demna Dvasalia appartiene a questo gruppo e i suoi atti creativi sono collocabili in un momento nel quale i visionari partiti dai bordi stanno occupando il centro della moda. Azzardo l’ipotesi dunque, che lo stilista sia uno dei protagonisti di una svolta che inaugura ciò che chiamo la seconda post modernità (nella moda). Naturalmente si deve immaginare, dietro le sue forme, altri sovvertimenti che sconfinando dai paludosi territori delle certezze dei modelli precostituiti, implicano un nuovo modo di fare mercato, un nuovo marketing, nuove modalità di ingaggio con i pubblici della moda, mai in passato così eterogenei e problematici come nel nostro presente.

Brevi note biografiche

Demna Gvasalia, a partire dal 2014, è rapidamente divenuto uno dei visionari del momento. Le adesioni delle più influenti giornaliste della moda al suo stile radicale sono state pressoché unanimi. Anche se riesce difficile capire veramente come mai magliette e felpe con sopra riportati messaggi che sembravano scritti da disadattati sociali, vendute a centinaia di euro, siano state vissute come “rivoluzionarie”, non c’è dubbio che Vetements sia divenuto subito un punto di riferimento per un pubblico giovane, probabilmente gay e fluido come orientamento sessuale. Un sapiente uso dei social spiega solo in parte l’esplosione di notorietà che il brand ebbe soprattutto nei primi anni. Le serie limitate di oggetti prodotti, prassi mutuata dalle strategie delle Marche del lusso, certamente aiutano a capire perché il prezzo alto di capi d’abbigliamento Street abbia funzionato, mantenendo a livelli altissimi la vischiosità della marca in relazione al desiderio. Possiamo aggiungere alla lista anche il clamore mediatico prodotto dalle strategie evenemenziali di presentazione delle collezioni sicuramente fuori dal coro. Insomma, di Vetements, fin dall’inizio, si parlava tantissimo e la sensazione era di avere davanti agli occhi un brand perfettamente in sincronia con gli Spiriti del tempo della moda, la cui pregnanza era perfettamente auto evidente.

Per contro, le notizie di carattere biografico relative a Demna Gvasalia, al fratello e al gruppo di creativi coinvolti nel progetto, risultano striminzite e risentono forse della strategia dissimulativa spesso presente tra i protagonisti della moda presa a rovescio, interpretata però in modo meno rigido rispetto a Martin Margiela, lo stilista che probabilmente lo ha più influenzato. Sappiamo che da bambino crebbe nella Georgia sovietica, in un contesto dove povertà e forzata autarchia potevano facilmente far emergere il fantasma del desiderio della moda (occidentale?). Alcune giornaliste fanno discendere la vocazione per vestiti di Demna adolescente, da una comprensibile reazione alla burocratizzazione delle apparenze, tipica di un comunismo straccione, come tratto estetico dominante della sua infanzia. Congettura apparentemente sensata, ma mi chiedo: è proprio vero che povertà e burocratizzazione significano sempre annichilamento degli spiriti animali della moda? Ho il sospetto che spesso, là dove lo sguardo distratto occidentale trova uniformità invece possa esservi una insospettabile eterogeneità. Chi è stato nei Paesi dell’ex blocco sovietico negli anni ottanta conosce bene i mille modi della bruttezza (delle apparenze) causati dal disordine provocato dalla scarsità cronica di merci. Se questa ipotesi regge, allora l’orientamento verso la moda di Demna Gvasalia andrebbe reinterpretato. Non sarebbe solo una reazione alla povertà burocratizzata attraverso un fenomeno di compensazione immaginaria, ma anche il ricettacolo di una struggente nostalgia verso un disordine estetico che, sfruttando i fantasmi generati dalla mancanza, agli occhi di un adolescente talentuoso, provocava una desiderante curiosità verso forme delle apparenze deviate da personalissime fantasie ma al tempo stesso reali, vere perché intimamente vissute. Voglio dire che probabilmente la povertà può certamente costringere un bambino o un adolescente ad apparire presso gli altri suoi coetanei come un ridicolo disadattato. Ma al tempo stesso può imprimere in un soggetto talentuoso una segnatura profonda di tratti configurativi (oversize, elementi dell’abbigliamento brutti e anonimi…) che in seguito, potranno riemergere in un contesto diverso come valori. Se il soggetto talentuoso, dopo una seria formazione, ovvero dopo aver conseguito una maestria tecnica, si trasformerà in un creativo dello stile di primo livello, allora, potremo assistere alla rivincita del disadattato sulle pseudo regole del mainstream, dal momento che i suoi look trasfigurati dai tratti configurativi della povertà delle origini, verranno acclamati come un prodigio di creatività. Lo so sembra un romanzo, e non voglio certo convincervi di avervi raccontato qualcosa di essenziale per comprendere Gvasalia. Ma tuttavia, a volte la vita di alcuni soggetti, sembra essere veramente un romanzo. Comunque lo stilista, divenuto famoso, quando parlava della sua moda incalzato dalle domande dei giornalisti, ricordava spesso la presenza inconscia di una silhouette dell’Altro (ovviamente oversize e decostruire) che lo inseguiva fin dall’infanzia. 

Ritorniamo alle notizie biografiche, per quanto ne so, certe. Con il crollo del regime e la guerra civile la famiglia Gvasalia fuggì in Germania. Sembra che in un primo tempo il nostro eroe si sia laureato in Economia e Commercio. Poi l’interesse per la moda portò Demna alla Royal Academy di Anversa, sede di una Università statale della moda famosa per aver formato alcuni degli stilisti controcorrente degli anni ottanta/novanta.

In seguito, le scarne informazioni a mia disposizione lo segnalano fare pratica da Walter Van Beirendonck, poi presso Martin Margiela per tre anni. Successivamente viene chiamato alla Vuitton, uno dei brand capaci di mantenere una certa disinvoltura tra l’ingombrante héritage e lo spazio offerto a team di creativi che potremmo definire, ammesso che la parola abbia ancora senso, d’avanguardia.

In questi primi anni di lavoro Demna e il suo team, come tutti i creativi nella fase in cui sfruttano i vantaggi che il radicalismo estetico può offrire a chi non può permettersi di adeguarsi alle regole della moda ordinaria, maturano l’idea che la loro visione estetica possa esprimersi in modo compiuto solo fondando un marchio libero e indipendente. Nasce quindi Vêtements ( Lotta Vulkova è la stilista, Gouran, il fratello, è l’A.D.). Le prime collezioni sfilano a Parigi in location minimaliste e stravaganti. Le giornaliste trendsetter, sempre pronte a gettarsi ai piedi del giovane stilista esagerato del momento, quindi fuori dal coro, si innamorano immediatamente del suo intransigente radicalismo, del suo coraggio, dei suoi azzardi formali che in modo sprezzante ridicolizzano le tendenze del mercato. Alcuni capi delle collezioni bucano l’immaginario modaiolo e appassionano fashion victims di tutto il mondo. I fatturati di Vêtements non disturbano certo le potenti holding della moda, ma l’esuberanza simbolica del nuovo brand è travolgente e il target di clienti più corteggiati dalle grandi marche ne apprezza l’irriverenza. Il mercato si vendicherà un po’ più avanti, cercando di assorbirlo tra i suoi guru creativi. Infatti nel 2016 Balenciaga (brand controllato dalla holding Kering) lo arruola come Art Director delle sue collezioni. Come quasi tutti gli stilisti radicali prima di lui, Demna Gvasalia, si guarda bene dal rifiutare le offerte economiche di alto profilo di un brand apparentemente distante dalla sua visione della moda. In un paio di collezioni demolisce praticamente tutto o quasi era stato configurato nel nome di Balenciaga prima e di Ghespiere dopo, incassando ancora una volta, adesioni strategiche per il successo. Le sue forme pur incorniciate da un Altro Significante maitre, incamerano un successo mediatico difficile da comprendere guardando semplicemente ciò che propone. Qualcuno dice che in queste prime esperienze si respiri troppo il feeling freddo e drammatizzante di Vetements. Posso capire che tutto ciò susciti qualche dubbio sia all’interno suo team e sia tra i manager di Balenciaga. Demna è senz’altro intelligente e non privo di auto critica, quindi si corregge, affina le contaminazioni Street, e forse per la prima volta esplora, a suo modo, un concetto di eleganza più attento alla tradizione..
Probabilmente comincia a rendersi conto che l’esperienza di Vetements all’inizio fondamentale per la sua crescita, rischia velocemente di divenire una prigione. Il confronto con l’eredità di Cristobal Balenciaga lo costringe ad affinarsi ma al tempo stesso lo allontana dal radicalismo ripetitivo di Vetements.

Il ruolo esorbitante del giornalismo di moda radicale

Bisognerà prima o poi dedicare uno studio serio alla stravagante psicologia delle redattrici di moda, molte delle quali, nel recente passato, si sono dimostrate radicali quanto i creativi visionari. Senza di esse molti protagonisti della moda avrebbero impiegato decenni per veder riconosciuta la loro creatività. Probabilmente qualcuno di loro dopo un po’ avrebbe cambiato mestiere. Cosa ci guadagnano giornaliste affermate a esaltare lo stilista sconosciuto che per uscire dall’invisibilità rompe tutte le regole? In prima approssimazione potremmo metterla così: in generale la comunicazione della Moda, ben più della moda tout court, non tollera canoni estetici fortemente strutturati; il regolare cambiamento programmato dalle aziende ha il compito di rinnovare costantemente la possibilità che l’asse metonimico delle collezioni preservi il desiderio di abiti nuovi. La comunicazione aggregata alla presentazione dei nuovi frame di moda ha il compito di rinforzare un diffuso sentimento di partecipazione tra i modanti, utile per iscrivere il soggetto della moda nella dialettica tra mancanza-desiderio necessaria per dare senso agli atti di acquisto che rinnoveranno il guardaroba. Quindi, è nella logica della situazione brevemente accennata il fatto che la moda contemporanea configuri codifiche fragili e/o fasulle favorevoli al cambiamento programmato. Tuttavia, gruppi di autorevoli influencers ( giornaliste di grandi testate, opinion leader, star bloggers..), si muovono all’interno di un paradigma simbolico che esaspera la percezione del cambiamento e che potremmo definire l’eccesso ad opzioni: il gioco variazioni formali nel mutamento delle collezioni a loro avviso non iscriverebbe nell’ordine simbolico della moda differenze autentiche dal momento che la loro presunta novità si trova completamente asservita al business. L’essenza della Moda, a loro avviso, esigerebbe trasfigurazioni ovvero cambiamenti radicali. A questo punto il perché a molti giornalisti, blogger e influencer risulti ovvia la preferenza per i visionari è facile da comprendere: nelle trasfigurazioni viene esaltato il ruolo di ciò che chiamo gli scomunicatori, cioè di loro stessi, la cui missione sarebbe forzare il pubblico a riconoscere la vera novità. Naturalmente anche la nebulosa di enunciazioni polarizzate sulla magnificazione delle mode radicali rimane sempre un canone estremamente debole (dal punto di vista critico), il quale tuttavia, sottoposto a forti investimenti passionali e simbolici da parte dei citati influencers, proietterebbe la singolarità in gioco, trasformata in mito contemporaneo, ai vertici del cuneo con il quale si scolpisce sulla superficie molle della moda ordinaria le tracce di una differenza che funge da apertura per contenuti estetici ed etici ad essa estranei (opponendosi dunque alla deriva di variazioni formali a bassa intensità semantica tipica dei ritmi della moda standard).

Come mai tra i tanti creativi in circolazione l’interesse degli opinion leader della moda attualmente si è concentrato su Demna Gvasalia? Negli anni ottanta del novecento gli influencers di primo livello, esercitavano il proprio ruolo attraverso il gioco del In e Out. In breve, classificavano creativi, marche e collezioni come se la moda fosse un evento agonistico; in tal modo trasmettevano al pubblico le indicazioni per rimanere sintonizzati con il nuovo che avanza. Facciamo un salto in avanti. Oggi questo gioco suona un po’ ridicolo. La radicalizzazione della moda che avuto come probabile origine la scena londinese e le contaminazione del punk, ha velocemente travolto il meccanismo delle tendenze (delle quali il gioco In e Out era la messa in valore), proiettando gli stilisti visionari lungo una linea di confine dalla quale esplorare e sperimentare soluzioni dall’impatto bivalente: da lato contribuivano a dare nuova linfa agli apparati della moda fatalmente correlati al mercato ma nello stesso tempo, sempre più ancorati al mito della “novità”; dall’altro lato, il loro successo mediatico, distruggeva presso il pubblico l’autorevolezza e la leggitimazione di chi rifiutava di partecipare al gioco dell’avanguardia. In poco tempo, i visionari con la complicità di un giornalismo radicale, trasformarono il gioco dell’avanguardia in una coinvolgente trappola: ogni marca che ambiva a raggiungere una soglia di notorietà rassicurante presso il pubblico primario non poteva evitarla. In tal modo la moda post-moderna, nella quale il marketing aveva cominciato a dominare e a condizionare la critica, ha finito con inflazionare l’Avant-Garde, trasformandola in tecnica di regolazione e sfruttamento dell’eccesso (di creatività, apparentemente ostile al mercato). Nel corso del tempo l’annullamento del valore marginale di ciò che veniva immaginato essere l’essenza della contemporaneità ha fatto nascere la necessità o la possibilità di un fashion d’avanguardia senza avanguardia. Di questa moda senza l’orientamento verso il futuro programmato dal gioco delle tendenze, tutta giocata sul presente, e su di una temporalità devastata dall’immediatezza del web, Gvasalia, è oggi il profeta più acclamato. Certo, nei suoi look a noi pare di scorgere scenari estetici con la freccia del tempo rivolta al futuro. Ma non è il futuro al quale ci ha preparato la moda dominata dal gioco delle “novità”. È un futuro nel quale ci pare di intravvedere cambiamenti radicali della nostra forma di vita.

Gvasalia
Balenciaga collezione primavera/estate 2017

 

Effetto “Vêtements”

Osservate i look della fig.2 (collezione autunno-inverno 2016). Quale potrebbe essere la struttura di senso che li connette? Colpiscono immediatamente le bizzarre proporzioni degli abiti, il travolgente street style e, aggiungerei, gli audaci accostamenti di colore. Numerosi commenti giornalistici ci hanno presentato le ossessioni dei creativi di Vêtements, come se di colpo Demna Gvasalia e il suo team fossero stati catturati da una dispotica ispirazione dominata dall’uso di taglie eccessive. Bisogna ricordare che le taglie oversize non sono certo una novità nella moda. Di passaggio ricordo ai lettori che il pret a porter sovradimensionato rappresenta uno dei tratti più significativi della prima post modernità. Nei tardi ottanta e novanta Comme des Garson, Yamamoto, Viktor & Rolf, lo stesso Margiela disegnarono famose collezioni e/o parti di esse, caratterizzate dalle forme amplificate. Devo aggiungere che la mia impressione è che Kawakubo e Yamamoto, cercassero nelle sproporzioni citate più che altro figure o look coerenti con l’estetica dell’imperfezione da essi maturata come reazione al glamour erotizzato in quei giorni dominante in occidente. La silhouette deformata, spesso in punti eccentrici rispetto le zone erogene del corpo, facevano pensare a un’altra bellezza, facevano pensare ad una più sottile regolazione del desiderio. Viktor & Rolf hanno creato spesso abiti dai dettagli strampalati ma la loro visione era dichiaratamente orientata a esplorare con coraggio l’abito come esperienza artistica. Il modo in cui Gvasalia & team stravolgono il rapporto tra la forma dell’abito e il corpo fa pensare invece, ad una moda senza desiderio. L’oversize è un concetto che scivola via dalle forme utilizzate in questa fase di costruzione del suo stile. Definirei provvisoriamente Monster Fashion gli abiti paradossali grazie ai quali Gvasalia sottrae desiderio all’oggetto moda. Si tratta di una ipotesi forte che richiede un supplemento di analisi. Desiderio significa prima di tutto mancanza. Gli psicoanalisti ce lo ricordano continuamente: è la mancanza ad essere (del soggetto) a produrre il desiderio. Solo se accetto un sacrificio di godimento immediato posso orientarmi verso l’esperienza del desiderio che nel caso della moda significa trovare nell’immagine dell’altro i tratti simbolici con i quali costruire la pellicola esterna di una identità che evidentemente non basta a se stessa. Un tempo l’adeguazione al discorso della moda richiedeva una certa sublimazione ( dovuta al rispetto per la bellezza ) e la sedimentazione del tempo (il timing della moda standard, anche se oggi appare sempre più precario, da più di mezzo secolo è semestrale) . La mia impressione è che la moda globalizzata abbia stravolto l’esperienza del desiderio, favorendo il godimento immediato dell’oggetto e la distruzione del tempo di sedimentazione. Se prendiamo sul serio le dichiarazioni fatte alla stampa si può notare che Demna Gvasalia è estremamente determinato nel rimuovere la scansione temporale che da sempre prepara la simbolizzazione delle collezioni, prima della loro messa in vendita tra il pubblico allargato. Attraverso internet sue collezioni sono vendute mentre ancora gli abiti sono sulla passerella. Viene inoltre abolita la distinzione di genere (i suoi abiti sembrano puntare all’indistinzione tra femmine e maschi ) sia nelle forme che nelle presentazioni. I suoi abiti, scrivono le giornaliste fans, risultano clamorosamente orrendi e brutali e quindi viene da pensare, immediatamente desiderabili ovvero, non sono veri oggetti del desiderio bensì oggetti del godimento. Guardate le immagini della fig.3. Sono look che sconfinano arrogantemente nell’abbruttimento del corpo. L’ossessione per forme deviate che ostentano, stranamente non permette di liquidarle con una risata o un moto di ribrezzo. Guardate la mostruosità delle maniche dei capi della collezione che sto commentando. Non vi vedete l’impronta di una maniacale, studiatissima applicazione? Si percepisce la maestria tecnica seppur piegata a un disegno perverso. Stupisce la solidità della loro presenza, generatrice di una deriva sentimentale che fragilizza i soggetti che l’indossano.  Sono oggetti moda che se interpretati all’interno della struttura di senso ordinaria, appaiono come insensati. Ma osservateli meglio: non c’è trasgressione, non c’è quel movimento dialettico che fa da sfondo alla logica del desiderio. Sono forme che come un cuneo forzano le fragili leggi della moda ordinaria, creando uno spazio semantico nel quale concetti come contemporaneità, avant-garde sembrano disintegrarsi di fronte ad una volontà di presenza aldilà del bello e del brutto. Forse per questo le fashion victims di tutto il mondo si sono mobilitate nel creare intorno a Vêtements investimenti passionali che fanno pensare al feticismo e all’idolatria (come spiegare diversamente il successo della insignificante e costosissima T-shirt DHL?).

A questo punto forse posso rispondere alla domanda iniziale: definirei dunque la struttura di senso che connette i look della collezione citata, presentificazione della moda. Cosa significa presentificare? Agire come se il passato e il futuro non avessero più valore o senso. In una intervista rilasciata a Serena Tibaldi di Repubblica, Gvasalia sembra confermare la mia ipotesi. Io parto da ciò che vedo – dichiarò lo stilista – né dal passato né dal futuro, dal presente. Il mio scopo è creare abiti che la gente voglia indossare, e la strada con la sua immediatezza è il migliore osservatorio”(8).

Sono parole che, a mio avviso, non vanno interpretate in modo ordinario. Infatti come e cosa vede Gvasalia? La mia impressione è che lo stilista non veda dei corpi bensi li re-visioni. Gvasalia guarda la gente per trasfigurarla. Comprenderete allora, le ragioni della mia lunga digressione iniziale, dedicata ai creativi della moda che ho definito visionari. Lo stilista georgiano appartiene a questa famiglia di distruttori che, come scriveva Isahia Berlin, appaiono per la prima volta nella nostra cultura nelle innocenti pagine di Rousseau e Kant dedicate alle responsabilità individuali, alle libertà espresse con la voce delle emozioni, a valori creati e non scoperti (9). L’idea che gli aspetti della vita irrinunciabili per la soggettività, dalla morale all’estetica, siano legati a eruzioni creative nasce col romanticismo. Gli stilisti visionari hanno portato quel fuoco nel centro della moda. Gvasalia lo sta riavviando nel tempo della seconda post modernità, nel tempo cioè in cui assistiamo al passaggio dalle forme eclettiche, anti-ideologiche, spettacolari, fusionali, decostruite, a forme che negano ogni tradizione attraverso trasfigurazioni radicali. Con la collezione che ho brevemente commentato, Gvasalia ci dà il benvenuto nel tempo della Monster Fashion.

Gvasalia
Foto 3 collezione autunno/inverno 2015-2016


Sbalenciagamenti

 Come tanti colleghi stilisti divenuti famosi per la radicalitá dello stile, approdati alla corte di marche storiche, anche Gvasalia, nel periodo che precedette la presentazione delle prime collezioni create per Balenciaga, si prodigò in narrazioni dedicate alla stampa credulona, dichiarazioni ossequiose verso il Nome del Padre (il significante primo della marca) per meglio forcluderlo dalla collezione reale, sbriciolandone la significazione storica liberando così dal retaggio del passato la deriva dei look, liberi di esplorare nuovi territori creativi.

Per esempio, nella sua prima collezione per l’uomo, dichiarò che l’ispirazione per il look inaugurale gli era venuta da un cappotto non finito, visionato nell’archivio del grande couturier. Siete liberi di crederci. Ma prima vi invito a guardare attentamente la figura 4. Forse il cappotto raffigurato potrà in qualche misura citare il disegno originario, ma cosa dire del look? Come ho già scritto in precedenza, Demna Gvasalia come tutti i visionari non può che trasfigurare ciò che il suo “Io” visivo/discorsivo elegge come punto di capitonaggio nella catena del simbolico della moda che in quel momento attira la sua sensibilità. In realtà lo stilista georgiano è un creatore di nuovi mondi (per la moda). La consistenza degli oggetti-moda che ci presenta dipende certo dal design o dalle forme che imprime al nucleo originario di percezioni o concetti che, dal punto di vista logico, siamo abituati a collocare all’origine del processo creativo. Tuttavia non sottovaluterei la sua magistrale orchestrazione dei segni eterogenei che fanno dell’abbigliamento una delle significazioni più intrusive e manipolatrici della soggettività. Le sue sfilate, il suoi modelli, le immagini fotografiche ufficiali che accompagnano le collezioni lungo la stretta via che trasforma gli abiti in passionali simboli, dobbiamo considerarle parte importante della trasfigurazione. Ecco perché sostengo che i visionari sacrificano bellezza, ordine, eleganza alla pulsione di creare un nuovo mondo (di stile). Non si limitano a disegnare capi di abbigliamento partendo da quel punto inerziale che è il corpo vivente ( il quale, lo sappiamo bene, senza trucchi non può cambiare così in fretta ). Per i visionari il corpo è un significante che rinvia ad un altro significante (l’abito) tale per cui il secondo classifica il primo configurandosi come una seconda pelle. La dimensione significate è sottoposta alla ripetizione (ecco perché spesso, guardando le sfilate, abbiamo la perturbante impressione che le modelle o i modelli abbiano una identità precaria ovvero siano simili). La felice espressione di Mario Perniola, sex appeal dell’inorganico (10), traduce bene il fascino perverso che i visionari della moda sfruttano per rovesciare l’asse immaginario tra chi guarda una sfilata e la forma significante, tale per cui non sono più io che guardo ma sono ripetutamente sguardato dall’Altro.

Gvasalia
Balenciaga collezione primavera/estate 2017
Gvasalia
Balenciaga collezione primavera/estate 2017

Devo aggiungere che Cristobal Balenciaga fu uno dei couturier maggiormente consapevoli della de-vitalizzazione necessaria per forzare lo sguardo delle clienti in direzione del chiasmo che ho segnalato. A tal riguardo scrisse Maria Pezzi, una delle più brave intellettuali e giornaliste italiane della moda negli anni ’40 e ’50 del novecento: “…le mannequin…non potevano parlare a voce alta nei camerini e non dovevano avere la benché minima espressione durante le sfilate. Erano anche le più brutte mannequin di Parigi, ma arrivavano ad avere grande stile senza la minima concessione…La famosa Colette, con la sua camminata alla Dracula, il largo viso atteggiato alla ferocia di un bulldog in azione e lo sguardo di odio, riusciva a vendere più modelli di tutte le altre messe insieme” (11). Ora guardate la foto 5. Le parole di Maria Pezzi in parte sembrerebbero adattarsi ai modelli scelti da Demna Dvasalia. Ma possiamo ragionevolmente parlare di interazione tra il giovane stilista e il grande stile del Padre della marca? Io credo di no. Corpi e facce sofferti, anoressici, resi ancora più strambi dalle calzature con un tacco altissimo. La sensazione di una moda intossicata da interferenze di senso ambigue, viene enfatizzata dalla duplice soluzione formale a livello di strutturazione: capi strettissimi, aderentissimi, alternati con capi spalla e cappotti oversize (tuttavia più portabili ed eleganti rispetto a quelli della collezione Vêtements). Demna Gvasalia è riuscito a sfruttare una tradizionale sfilata (le location stravaganti non fanno testo dal momento che da anni tutti o quasi fanno a gara per sorprendere giornalisti, buyer, invitati con de-localizzazioni o non/luoghi-non/moda sempre più strambi), per superarne il concetto: i modelli/modelle non vogliono riproporre una imago dell’immagine ideale in divenire, da sempre una delle strutture di senso fondamentali generate dal fashion show classico, bensì definirei il loro impatto ansiogeno; io le vedo come delle Appearance che sembrano comparizioni in giudizio la cui posta in gioco è un cambiamento radicale della percezione che il pubblico pensa di avere di cos’è la moda.

Ci troviamo di fronte a performativi visivi molto distanti dagli atti-moda di Cristobal Balenciaga, per non parlare dei suoi abiti sempre rispettosi di una bellezza dal sapore evidentemente romantico (a suo modo era un visionario), ma anche sempre riconoscibile, freddamente seducente e drammaticamente glamour.

L’astuto abbruttimento delle fashion Appearances del quale Gvasalia è maestro, può permettere di trasmettere via ansietà, inquietudine e mal-essere, una identificazione più solida rispetto alla liquiditá dei look glamorosi (dal momento che la cultura, la storia, il passato così come il futuro, in barba alle dichiarazioni dei comunicati stampa aziendali, in realtà non contano più nulla); e al tempo stesso consentono di immaginare di vivere l’alidilá del bello (o del seducente) senza vergogna, con la determinazione senza desiderio che sappiamo dagli psicoanalisti, caratterizzare il dominio (e le devastazioni) degli oggetti di godimento.

Naturalmente l’ambivalenza strategica che è implicita in quanto ho scritto, non è una invenzione di Demna Gvasalia. I manager della moda, da decenni giocano con l’heritage delle marche alternando fasi “umanistiche” (presunti ritorni alle origini, enfatizzazione di tratti ispirati a collezioni storiche etc.) con altre fasi di totale rottura. Per quanto riguarda Balenciaga, è utile ricordare che la resurrezione della marca dopo una lunga latenza, avvenne tra la fine del novecento e l’inizio del terzo millennio, grazie al talento di Nicholas Ghesquière. Anche in questo caso i guru del settore, astutamente orientati dalle pubbliche relazioni furono in prima linea nel sottolineare il presunto recupero delle linee moda del grande padre fondatore. Mi permetto solo di segnalare una incongruenza: le collezioni più acclamate disegnate da Ghesquière si ricollegavano ai concetti spaziali e futuristici degli stilisti che negli anni sessanta rottamarono lo stile Cristobal Balenciaga, suscitandone una struggente indignazione, culminata nella drammatica decisione di chiudere la sua maison. Uno dei tradimenti che sicuramente fecero soffrire Cristobal Balenciaga fu perpetrato da André Courreges, per lunghi anni tagliatore di tessuti presso la sua maison. Per farla breve, le collezioni più stravaganti ed eccentriche di Ghesquière si ricollegavano platealmente ai giovani creativi che dichiaravano morti i valori tradizionali dell’alta moda (della quale Cristobal Balenciaga era uno strenuo difensore);  giovani talentuosi come il già citato Courrèges, Cardin, Paco Rabanne, furono tra i protagonisti di una una rivoluzione stilistica radicale e divennero, grazie al clamore mediatico, immediatamente famosissimi (fatto incomprensibile e inaccettabile per il severo e riservatissimo maestro). Quindi, e ritorno al problema adombrato sopra, quasi sempre le dichiarazioni di coerenza storica sono poco più di utili menzogne dimostratesi efficaci nell’era della post-verità, dal momento che il modo di produzione global capitalistico ha accelerato i processi di presentificazione ad ogni livello, puntando decisamente sulla dimensione del godimento immediato dell’oggetto.

Tuttavia dobbiamo aggiungere una considerazione decisiva per classificare le performance di Demna Gvasalia (sia come leader del gruppo di creativi di Vêtements e sia come art director di Balenciaga). La visione di Ghesquière era improntata a posizionare la marca in oggetto, lungo la linea di confine tra ciò che è moda e ciò che non lo è ancora, comunemente definita Avant-Garde. La sfida era essere il più contemporaneo tra i contemporanei. Nella logica delle forme post-moderne infatti, il contemporaneo si dispiega lungo un asse temporale che non scorre solo dal passato al presente, ma in tutte le direzioni. Di conseguenza il postmoderno è un termine che possiamo considerare contiguo a contemporaneo, a patto di trasformarlo in una finzione o in una narrazione. La fiction più ambita tra le Marche della moda aveva come protagonista figure dell’Avant-Garde, fatalmente sottoposte ad uno stressante gioco emulativo che non poteva generare altro dall’inflazione di look pretenziosi e sempre più dipendenti da dosi crescenti di doping comunicazionali.

Io credo che il punto di forza di Demna Gvasalia sia stato il suo essere contro la moda postmoderna, contro la contemporaneità fasulla, contro la moda fiction. Le sue forme scioccanti, il suo personalissimo street style, lo hanno collocato immediatamente fuori dal tempo della moda. Infatti l’uscita dalla fiction ha tolto spazio al futuro evocato dalle tendenze, assolutizzando un presente anti-narrativo. In questo senso, per me, Gvasalia sta interpretando e forse imponendo una svolta nel post modernismo nella moda che provvisoriamente definisco secondo post modernismo, caratterizzata da un ritorno alla verità che tutti sappiamo essere fasulla ma che nonostante ciò induce la credenza tipica degli atti di fede. Una post verità dunque, come la definiscono e criticano i filosofi, anti narrativa ma emozionalmente performante.

Di conseguenza, ha innescato presso i soggetti più sensibili alle significazioni delle forme moda, l’eccitamento nei confronti di look futuribili ovvero la percezione di atti di moda nei quali l’hasard, l’audacia e il potenziale distruttivo generano il sentimento di una entusiasmante ( o terrorizzante ) discontinuità. Le creazioni di Demna Gvasalia non sono nel tempo (come le tendenze), bensì sono il tempo (visto ovviamente con gli occhi della moda) e quindi evocano una percezione del futuro che non possiamo paragonare a quello della fantascienza. Si tratta di un futuro presentificato e non di una fiction.

A questo punto vale la pena di sottolineare un ulteriore aspetto della modazione contemporanea, connesso con l’effetto Gvasalia. Per le marche dotate di un eccezionale potenziale di notorietà e provviste di una enorme potenza di fuoco, l’esaurimento di un paradigma creativo e la mancata crescita dei fatturati che fatalmente comporta, rappresentano uno degli esercizi di raffinato management più controversi degli ultimi decenni. Per limitarci al caso Balenciaga, come ho ricordato sopra, la rinascita della marca era avvenuta grazie al magistrale talento di Nicholas Ghesquière, a partire dal 1997, autore di applauditissime collezioni, protagonista del lancio di accessori (borse soprattutto) di straordinario successo commerciale e abile nell’interpretare le specificità del marketing del lusso. Nel 2009 la Kering, superpotenza del lusso, divenne proprietaria del marchio attraverso Gucci, una sua controllata. I nuovi manager, responsabili presso gli azionisti di investimenti, crescita dei fatturati e profitti, cercarono di imporre la loro visione sullo sviluppo commerciale della marca. Ghesquière che fino a quel momento oltre alla direzione artistica aveva controllato personalmente l’espansione delle boutiques, decidendone location e format, entrò in dissidio con i manager. Con il proverbiale tatto che oramai tutti riconosciamo ai soggetti che lavorano nel campo del management finanziario, essi si sbarazzarono in fretta di Nicholas Ghesquière e fidandosi forse troppo di una sopravvalutata Anne Wintour e di Vogue America, nominarono direttore creativo Alexander Wang. Oggi lo possiamo dire: se non fu un totale flop economico non si rivelò nemmeno una scelta azzeccata per il posizionamento di Balenciaga nel conflittuale mondo simbolico delle grandi marche. Intendiamoci, Wang è un bravissimo creativo, ma se guardate le collezioni disegnate per Balenciaga, vi troverete troppa eleganza, troppo american-glamour-post modern; e l’onnipresente street style che tutti hanno imparato a utilizzare per dare energia ai look, per come io leggo l’abito/segno, nel suo caso risulta declinato in modo deplorevolmente perbene, impossibilitato a garantire il differenziale creativo che i manager immaginavano utile per diversificare Balenciaga dagli altri marchi della squadra Kering e tantomeno per funzionare come avanguardia dello stile. Ve la faccio breve: con la rimozione di Nicholas Ghesquière il top management di Balenciaga, detta come vuol detta, pestò una merda. Non solo dimostrava di non aver capito cosa eventualmente andava corretto ma si illuse di poter risolvere un conflitto di competenze tra il côté creativo e quello manageriale attraverso la rimozione dell’ingombrante stilista e l’arruolamento di un nuovo designer forzato a concentrarsi solo sul rinnovamento delle linee. In altre parole, imposero a Wang una operatività limitata a creare abiti che dovevano ripristinare sia un posizionamento da avanguardia dello stile e sia una concreta evocazione del Nome del Padre.  Naturalmente, avendo investito pesantemente in nuovi punti vendita, le collezioni dovevano risultare subito vendibili. Tra l’altro lo stilista non indovinò una linea di accessori dirompente come aveva fatto a suo tempo Ghesquière, quindi la risoluzione del contratto parve a tutti una scelta sensata. Ma eccoci di nuovo al punto di partenza, con la sensazione che il management avesse gettato al vento tre anni di lavoro. Che fare? La soluzione che ben conosciamo fu di rompere in modo drammatico il paradigma estetico, nominando direttore creativo Demna Gvasalia, interprete con il suo marchio Vêtements di una moda letale, induttrice di una bruttezza contagiosa, apparentata alla visionarietà tipica dell’asse creativo che dalla metà degli anni ottanta del novecento è venuto a strutturarsi tra Londra e Anversa, in contrapposizione ai modi più armoniosi dell’eleganza italiana.

Mi piace avvicinare la strategia di marca messa in campo dal management Balenciaga (anticipata da Gucci con la scelta di Alessandro Michele) alla tattica militare definita da Harlan K. Ullman e James P. Wade, Shock and Awe (12). I due autori, nel libro citato, teorizzarono l’uso di una tattica militare conosciuta anche come dominio rapido. Detta in poche parole, in cosa consiste questa strategia? Da quello che abbiamo capito con la guerra contro l’Iraq scatenata da Bush e Blair, la cui conduzione era dichiaratamente ispirata alla citata teoria, l’idea è di mettere da parte ogni gradualismo umanistico e scatenare contro il nemico tutta la potenza militare a disposizione. L’obiettivo non è vincere ma travolgere, sovraccaricando la percezione e la comprensione degli eventi.

Mi rendo conto che il parallelismo tra strategie di guerra e scelte del marketing della moda, più che congetture possono sembrare affermazioni temerarie. Ma provate a seguire il mio ragionamento. Avete dubbi riguardo la potenza di fuoco di una marca appartenente ad una holding del lusso, Kering, che fattura da sola più di tutti i grandi marchi del Made in Italy messi assieme? Come giudichereste le reazioni degli opinion leader del settore? L’attesa sovraccarica di eccitazione non si è forse risolta in una radicale polarizzazione? Un critico della moda del calibro di Quirino Conti, autore di un ancora attualissimo, eruditissimo e coinvolgente libro di poetica teoria della moda che vi raccomando (13), subito dopo le prime sfilate Gvasalia/Balenciaga scrisse, citando Picasso: “Più li faccio brutti, più piacciono” (14). Se alcune giornaliste ( italiane) parlarono di moda repellente, furono molte di più quelle (soprattutto di lingua inglese) che manifestarono nei confronti di forme aberranti un atteggiamento critico che sconfinava nell’idiolatria (soprattutto per Vêtements).

Forse è esagerato affermare che gli strateghi di Balenciaga, con una tattica estrema hanno hanno sovraccaricato percezioni e comprensioni degli eventi, tuttavia l’impressione che ho tratto va nella direzione adombrata dalla teoria Shock and Awe, che evidentemente interpreto come un termine di paragone per sottolineare non solo il cinismo strategico, ma anche una propensione al rischio, fino a quel momento insolita tra le marche del lusso.

Devo aggiungere una ulteriore considerazione. Se la prima collezione Gvasalia/Balenciaga che ho commentato sopra (primavera-estate 2017) presentava una estetica visionaria vicina alla cifra creativa di Vêtements, dopo pochi mesi nella collezione autunno-inverno 2017/18, la distanza sembra più marcata, come se l’art director (o chi per lui) avesse preso atto di una eccessiva durezza delle linee della prima collezione citata, utili all’operazione di presentificazione, ma non così dirompenti sul mercato. Osservate le immagini della recente sfilata di Parigi (fig.: il twist che lo spostamento del bottone sulla spalla, conferisce al cappotto o ai giacconi in pelle, un disordine di linee che si prendono gioco delle significazioni aggregate ai concetti dei capi secondo l’etichetta del bon ton, senza però rinunciare ad una sorprendente quanto evidente eleganza. Trovo le silhouette che sto descrivendo, portatrici di una bellezza che non ha niente a che fare con l’abbellimento armonioso o con ciò che in lingua inglese corrisponde al beauty (bellezza che suscita desiderio). Ovviamente le forme di Gvasalia, penso soprattutto a ciò che crea per Vêtements, non credo possano essere associate al Tò Kalòn degli antichi greci (una bellezza ideale che trova sempre un ordine al caos del mondo, e che possiede valenze morali). La definirei semplicemente una bellezza anomala che sfrutta la propensione (o l’abitudine acquisita) del soggetto zero della moda di oggi a godere del fascino della mostruosità. Per soggetto zero, intendo semplicemente le persone che, a titolo diverso, sono più sensibili di altre al cambiamento del paradigma vestimentario: giornalisti/e dell’élite editoriale, influencers, bloggers radicali, fashion victims, star system.  Ora, e ritorno alla collezione autunno-inverno 2017/18, il colpo creativo del bottone sulla spalla, non genera un mostro, bensì io la vedo come una geniale e precisissima ricerca dell’imperfezione che scombina le nostre attese di ordine (relativamente alle linee del cappotto bon ton) suscitando tuttavia ammirazione, benevolenza critica, incremento di notorietà direttamente spendibile in termini di crescita del mercato.

Questa nuova alleanza tra management e creativi, nel nome della visionarietà autopoietica (capace cioè di ridefinire continuamente la misura della propria efficacia), in questo momento rappresenta la risposta più efficace delle grandi marche costrette dalla crisi simbolica della globalizzazione a trovare nuovi bilanciamenti tra gli spiriti animali della moda (neo tribalismo ad opzioni; totemismo anti narrativo etc.) e la necessità di presenziare con le proprie boutique una geografia della moda in espansione continua, una geografia per determinati aspetti (sociologici, antropologici, culturali) inedita.

Gvasalia
Balenciaga autunno/inverno 2017-18
IMG_1848 (1)
Balenciaga autunno/inverno 2017-18
Gvstada
Balenciaga collezione 2017-2018

Conclusione provvisoria

 L’interpretazione del fenomeno Demna Gvasalia condivisa dagli opinion leader è linearizzabile con una narrazione che potremmo articolare in quattro enunciati:

  1. Rottura radicale con l’estetica Avant-Garde che guarda o si ispira all’arte;
  2. Ritorno alla strada come luogo di naturalezza, spontaneità e passioni;
  3. Rifiuto dell’immaginario onirico glamoroso della moda attraverso esagerazioni ed eccessi;
  4. Riconfigurazione del lato androgino della moda e gender fluidity.

La metafora della strada, dagli anni sessanta in poi sempre presente per razionalizzare post quem. le mode radicali, richiede tuttavia una ulteriore analisi. Più che uno scontato e diffuso riferimento allo street style, Gvasalia sembra presentarci la moda come sintomo e come intrusione del reale. L’uscita dalla fiction della moda attraverso l’esagerazione delle dimensioni dei capi, l’alterazione delle forme e l’abbruttimento dei look, rappresentano un rifiuto del concetto di avanguardia dello stile che rimette in circolo, nei quartieri alti della moda, il fascino di un’estetica del repellente, privata tuttavia degli eccessi di volgarità e del kitsch spontaneo, spesso presenti nelle fasi di rottura o sovversione dei codici dell’abbigliamento. Il riferimento all’abusata metafora della strada vuole significare che, secondo alcuni, Gvasalia si interesserebbe più di come vestono realmente individui colti nel sociale piuttosto che la rassegna di imago sperimentali attraverso le quali la moda legittima le programmate variazioni di paradigma. La sua capacità di avvistare nell’ordinario lo straordinario, probabilmente uno dei massimi privilegi dei creativi visionari, è fuori discussione. Senza essere un realista, infatti come ho scritto sopra lo sguardo di Gvasalia re-visiona l’oggetto stravolgendone la semantica, si propone come un profeta del reale della moda, e quindi come creatore di mondi di moda alternativi a quelli raffigurati dalle altre marche. Cosa significa profeta del reale? Gvasalia, come tutta la famiglia degli stilisti visionari, non si appoggia a libere fantasie, oppure a pseudo tendenze personalizzate con leggere incoerenze; e nemmeno sembra indugiare in stravaganti invenzioni. Piuttosto, agli occhi dei suoi estimatori, sembra che vada alla ricerca di un senso nascosto dietro agli oggetti moda ordinari, ovvero fa subire alle forme deformazioni che pur apparendo a volte aberranti, stimolano l’emersione di ulteriori strati di significanza che percepiamo come nuovi e al tempo stesso presenti nelle configurazioni d’abbigliamento spontanee collocabili dal punto di vista logico a livello dei fenomeni di socializzazione primaria.

Gvasalia più che trasformare le forme ( la trasformazione è un processo che si snoda nel tempo) le trasfigura (cioè induce a percepirle come se fossero prese da un mutamento radicale che cancella il passato).

In un momento storico come l’attuale in cui la moda globalizzandosi tende a variapetizioni (leggere variazioni formali che in realtà ripetono la gestalt di partenza) subito intercettate e amplificate dal web, quindi velocemente imitabili, emulabili, le marche che ambiscono a funzionare come punto di riferimento per i nuovi consumatori disancorati da ogni narrazione storicista sui valori (dell’abbigliamento) non possono che radicalizzarsi sul versante visionario, scommettendo sull’eccesso, sulla distruzione dei parametri ordinari della modazione. La visionarietà diviene quindi il valore marginale che i frame d’abbigliamento devono esibire per ambire a diventare globali. A tal riguardo lo stilista georgiano sembra avere l’indipendenza dal mercato, lo spirito libero e il gusto dell’azzardo utili per essere uno dei protagonisti di ciò che in prima battuta ho definito scherzosamente Monster Fashion, ma che è più corretto interpretare come indizio di una svolta che prefigura nuovi mondi moda.

Note:

  • Henri Focillon, Estetica dei visionari, Pendragon, 1998;
  • Claire Wilcox, I Try Not to Fear Radical Things, in Radical Fashion, V&A Pubblications, 2001, pag.15;
  • Judith Clark, Looking Foreward Historical Futurism, in Radical Fashion, V/A Pubblications 2001;
  • Terrific Fashion, a cura di Cristina Marozzi, 24ore Cultura, 2015;
  • Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina Editore, 2010;
  • Caroline Evans, Fashion at the Edge, Yale University Pres, 2003;
  • Rebecca Arnold, Fashion, Desire and Anxiety, Rutgers University Press, 2001;
  • La Repubblica, 2 luglio 2016, pag.37;
  • Isahia Berlin, La rivoluzione romantica, in Il senso della realtà, Adelphi, 1996;
  • Mario Perniola, Sex appeal dell’inorganico, Castelvecchio;
  • Maria Pezzi, Una vita dentro la moda, Skira, 1998;
  • Harlan K.Ullman and James P.Wade, Shock and Awe: Achieving Rapid Dominance”, National Defense University, 1996;
  • Quirino Conti, Mai il mondo saprà, Feltrinelli, 2005;
  • Quirino Conti, Più li faccio brutti, più piacciono, in La Repubblica, 2 luglio 2016, pag.37. Vale la pena di citare per esteso le laconiche parole dell’autore: “Iniziò così, nel rimpianto, l’ascesa dei nuovi modelli concettuali nel mondo dello Stile: ossuti, senza un muscolo addosso, l’occhio vitreo e immusoniti. Intorpiditi e assenti. Quando lo Stile decise una nuova corporeità per le sue leadership fisiognomiche è un certo ingobbimento divenne un buon punto di partenza per una carriera di successo. Comunque, mai come si è visto recentemente a Parigi. Con citazioni letterali da Frankenstein e volti e arti quali neppure il crudelissimo Schiele avrebbe potuto immaginare così Spaventosi è come selezionati da un atlante di fisionomie lombrosiane. E per meglio sottolineare la stortura segalina di quelle gambe, qualcuno le ha persino strizzate in leggings al ginocchio. Confidando forse in una celebre confessione di Picasso: ” Più li faccio brutti, più piacciono”.

   

Lamberto Cantoni
Latest posts by Lamberto Cantoni (see all)

74 Responses to "Demna Gvasalia, il profeta di Vêtements"

  1. Antonio Bramclet
    antonio bramclet   2 Aprile 2017 at 17:47

    Vista la compattezza del testo sarebbe stato utile maggiore precisione tra le immagini citate dall’autore e il rimando alle foto con didascalie più chiare. Comunque basta guardare i look delle sfilate per farsi una idea della correttezza dell’interpretazione proposta. GVASALIA è certamente un visionario però con i piedi per terra. Però a me pare sopravvalutato.

    Rispondi
    • Luigi   5 Aprile 2017 at 19:01

      Gli articoli complessi andrebbero impaginati meglio. La lettura verrebbe favorita. In un articolo come questo ci vorrebbero anche dei link che riportassero alle sfilate di Gvasalia e molte più immagini.

      Rispondi
  2. francesco   2 Aprile 2017 at 19:02

    La moda vive di miti. Non deve sorprendere se uno stilista radicale come Gvasalia viene adorato da chi detesta la moda commerciale. Ė un visionario? Ebbene si, per fortuna. Fa abiti che possono sembrare orrendi? Forse si. Però si fanno amare. Definire mostri i suoi look per me è sbagliato. Sono provocazione per svegliarci dalla moda sonnifero che ci circonda. I veri mostri sono le troppe banalità della moda che l’autore chiama normal. Vorrei aggiungere che non ho capito da che parte sta chi ha scritto l’articolo. Sta con i visionari oppure no?

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   5 Aprile 2017 at 18:55

      Ho usato il termine inglese non nel senso di orribile o bruttissimo, bensì di “fenomeno” dal quale scaturisce stupore e spavento. In realtà pensavo al “monstrum” latino il quale ha riferimenti al divino: nel monstrum riconosco segni che fanno pensare a qualcosa di prodigioso e terrificante.
      Tra l’altro derivando da “monere” (avvisare, ammonire), il monstrum può evocare un presagio che suscita ansietà.

      Rispondi
  3. luciano   4 Aprile 2017 at 07:02

    La moda usa spesso la provocazione per risvegliare i consumatori. La strategia shock And awe di cui si parla nell’articolo alla fine significa scioccare la stampa e il pubblico. Tanto poi nelle boutique arrivano solo gli abiti vendibili.

    Rispondi
  4. Anna G   5 Aprile 2017 at 09:26

    Demna Gvasalia come Alessandro Michele ha il dono di vedere la moda giusta per il presente. Ma chi l’ha detto che la moda deve essere ossessionata dal futuro? E poi dal momento che la generazione che ci ha preceduto ci ha lasciato solo rovine, perché mai dovremmo santificare il passato? Io sto con i distruttori e non ho nessuna nostalgia di bellezze sterili e soporifere.

    Rispondi
  5. Lucia   5 Aprile 2017 at 19:09

    Ogni atto veramente creativo distrugge il passato. È il prezzo da pagare se vogliamo cambiare veramente e non fare finta. Quindi Gvasalia sarà pure il profeta della Monster Fashion come scrive l’autore ma è anche portatore di verità, autenticità e libertà.

    Rispondi
  6. Giulia P   5 Aprile 2017 at 19:23

    L’articolo critica il giornalismo di moda accusandolo di mitizzare personaggi come Gvasalia. Ma poi l’autore ci scrive dietro un papiro. Chi mitizza di più? Il giornalismo di moda o chi vede in un giovane stilista tutto ancora da scoprire un visionario radicale?

    Rispondi
  7. Franco C   6 Aprile 2017 at 14:36

    A me i look di Gvasalia non provocano alcuna ansietà, anzi li trovo divertenti. Non si possono definire belli o eleganti, ma hanno carattere e personalità. Indubbiamente portano una ventata di adrenalina nella moda che non si deve sopravvalutare ma nemmeno sminuire.

    Rispondi
  8. Marco P   7 Aprile 2017 at 17:45

    Gli abiti portati in taglie superiori al normale li utilizzavano già i zazu a Los Angeles durante la guerra. Anche la cultura hip hop utilizza i jeans molto più ampi e dalla vita bassissima. Il Grunge diffuse maglioni enormi, spesso portati uno sopra l’atto. Voglio dire che le novità di Vêtements sono novità per modo di dire. Diciamoci la verità: i miti della moda oggi sono creati dal giornalismo di moda e da Internet. Ci sarà anche un pizzico di creatività ma senza le esagerazioni della stampa Gvasalia sarebbe solo uno stilista un po’ più pazzo di altri.

    Rispondi
    • Lucia B   7 Aprile 2017 at 17:56

      Caro Marco ti consiglio di guardare meglio le immagini e se hai tempo vai a vederti il sito di Vêtements. Non è che quello che scrivi sia completamente sbagliato ma di sicuro Gvasalia non è un citazionista o un imitatore. Ha ragione l’autore quando parla di distruzione del passato e di trasfigurazione.

      Rispondi
      • Marco P   8 Aprile 2017 at 09:59

        Cara Anna, de gustibus… A me sembra una moda grottesca. E non sono sicuro di aver capito la trasfigurazione che cazzo significhi realmente. Per non parlare del nome del padre: l’autore ha avuto una crisi mistica?

        Rispondi
  9. Sergio R   8 Aprile 2017 at 18:48

    Secondo me Gvasalia non disprezza il passato della moda, ma cerca di assimilarlo secondo la propria coscienza creativa. E non ignora il futuro ma gli antepone il piacere del presente.

    Rispondi
  10. Martina   9 Aprile 2017 at 17:42

    Mi piacerebbe sapere quanti abiti vende Vêtements. Trovo che fare apologia di uno stilista che finora abbiamo visto solo in fotografia sia esagerato. Però ammetto che i suoi abiti si distinguono da tutti gli altri.

    Rispondi
    • Vincenzo   9 Aprile 2017 at 18:22

      Chi se ne frega di quanti abiti vende Gvasalia. Esistono un sacco di stilisti che hanno scelto di seguire il proprio stile a prescindere dai calcoli sulle tendenze. Gvasalia è un grande perché segue le sue idee fino in fondo. Voglio dire anche che l’impatto sui colleghi è importante. Con Alessandro Michele e Gvasalia sta cambiando tutta la moda che conta. E non solo la moda, anche la fotografia,la comunicazione e persino il business.

      Rispondi
  11. franck   10 Aprile 2017 at 19:07

    io credo che Vetements non ambisca a scimmiottare né l’arte e nemmeno le tendenze. propone un percorso creativo autonomo e questo ne fa un punto di riferimento per chi vuole una moda che parta dagli abiti che dobbiamo indossare oggi.

    Rispondi
  12. Marina   11 Aprile 2017 at 10:23

    Ho visto altre immagini visitando i siti web di Balenciaga e Vetements e secondo me, prima collezione a parte, con Balenciaga Gvasalia rispetta il marchio. Non credo che si prenda tutte le libertà da visionario che scrive l’autore del testo.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   11 Aprile 2017 at 12:23

      Pensavo di aver accennato al fatto che tra la prima collezione e la seconda c’erano state variazioni. Forse avrei dovuto segnalare con maggiore enfasi il ruolo di visionario di Marco Bizzarri, il manager che ha scelto Alessandro Michele imponendo a Gucci una nuova narrazione anti-storicista, che io ritengo sia paragonabile a quello che è successo in Balenciaga. Ma attenzione: sia le storytelling che accompagnano le collezioni dello stilista geogiano e sia quelle di Alessandro Michele sono state pensate per valorizzare il loro stile radicale. Se si sceglie un art director estremo bisogna emanciparsi dalla propria storia e avere il coraggio di inventarne altre. D’altronde se si vuole crescere anche con il web non si può prescindere da ingenti investimenti in video-narrazioni che per forza devono puntare ad un entertainment collegato ai social media, e agli stili cinematografici dominanti.

      Rispondi
  13. Federico   12 Aprile 2017 at 12:36

    Non sapevo che la strategia dello shock avesse una storia così importante. Addirittura militare. Cosa facevano le avanguardie artistiche nei primi del novecento? Épater les bourgeois per poi rifilargli ogni cosa. È interessante il fatto che oggi siano i grandi brand della moda ad utilizzare queste tecniche. Non sono d’accordo con l’autore quando scrive che l’avanguardia è finita. Infatti è più viva che mai ma non funziona tanto a livello di oggetti o forme, quanto a livello di emozioni.

    Rispondi
  14. Emma   13 Aprile 2017 at 14:39

    ho letto interviste fatte a Gvasalia e credo che sia troppo interessato al business per essere un autentico creativo come dice il prof. Martin Margiela era molto meglio.

    Rispondi
  15. FrancescaPiraniIed   26 Aprile 2017 at 16:19

    Volendo partire da un presupposto che può sembrare banale, ma che a parer mio non lo è poi così tanto, è necessario sottolineare che, quando si parla di moda, oggi, bisogna tener presente che in realtà si sta facendo riferimento ad un sistema moda articolato e composto non solo da meccanismi di realizzazione dell’oggetto moda in sé, ma anche da una serie di meccanismi di reazione (più o meno variabili) e di proiezione identitaria che possono venirsi ad instaurare tra il “pubblico” e gli oggetti in questione.
    Questa breve introduzione per dire che, negli anni Novanta, la moda ha ricevuto una spinta verso nuovi territori ancora inesplorati o poco esplorati grazie ai Creativi dell’epoca, in particolar modo quelli che sono stati definiti dalla critica mondiale i “Sei di Anversa”; designer belgi che assieme ai protagonisti della moda inglese (appunto come Galliano e McQueen), hanno lasciato le nuove generazioni “sole” nel doversi confrontare con il loro retaggio culturale e con ciò che hanno lasciato nel campo artistico della moda contemporanea.
    Inoltre, con l’avvento della globalizzazione, la moda si è dovuta adeguare ad un mercato di dimensioni mondiali appunto, nel quale la figura dello stilista è come se avesse ceduto sempre maggiore spazio a quella figura tecnica e, forse meno creativa, dei ricercatori di tendenze (cool hunter). È quindi in questo contesto che spesso il compito dello stilista è divenuto quello di provare a pianificare i mutamenti del gusto cercando di adeguarsi anche alle esigenze e richieste del mercato.
    Parallelamente, come spesso accade, riescono a farsi strada le cosiddette eccezioni che confermano la regola, perché è vero che oggi Demna Gvasalia fa parte di questo strano e controverso meccanismo che è la moda, ma allo stesso tempo si può considerare come un’entità che è riuscita a rimanere indipendente nella creazione dei suoi “mondi-moda”. Questo perché non solo riesce ad esprimersi attraverso la trasfigurazione delle forme riuscendo ad imporre una propria cadenza personale che va oltre l’ordinario, ma anche perché è riuscito a farsi strada scommettendo su quello che avrebbe potuto essere il suo pubblico-moda, indagando la naturalezza della strada e cercando di far emergere attraverso le sue “stravaganze” significati nuovi o non ancora percepibili negli oggetti moda.
    Insomma, è come se avesse trovato delle parole che compongono il suo discorso estetico così giuste, da venire subliminate dalla magia del momento, gettando le basi per la creazione di una leggenda, la sua leggenda di visionario. Da questa considerazione emerge come, al giorno d’oggi, la comunicazione (e tutte le nuove strategie che essa impone) abbia contribuito nella creazione del mito attuale Gvasalia/Balenciaga. Infatti, come riportato nell’articolo soprastante, si evidenzia come la comunicazione della moda tolleri ancor meno della moda stessa canoni estetici fortemente strutturati e che i cambiamenti radicali vengono maggiormente apprezzati dagli Influencer del momento, talvolta fino ad arrivare allo sviluppo di atteggiamenti di idolatria nei confronti di questi personaggi. Sicuramente Gvasalia può essere considerato un visionario della moda, ma altrettanto sicuramente la critica e i giornalisti moda giocano un ruolo che sta avendo un grandissimo effetto.
    In un mondo come quello attuale in cui l’essere umano sente il bisogno più che mai di appartenere e di far parte di un nucleo di persone, di trovare delle sicurezze in questo mondo così veloce e, a mio parere, privo di qualsiasi solido equilibrio, forse Gvasalia è riuscito a dimostrarsi empatico con i processi sociali e di trasformazione che l’uomo contemporaneo sta attraversando. Concordo con la teoria di Carolin Evans espressa in Fashion at the Edge, secondo la quale il Radical Fashion riesca a rimandare le tracce di un trauma che la civilizzazione ha subito. È come se gli uomini del nostro tempo trovino maggior vicinanza con delle figure che, come gli stilisti, siano riusciti ad andare oltre ai canoni che solitamente vengono considerati degli standard, o che le persone di potere vorrebbero fossero applicati. In questo modo gli stilisti sono riusciti a mettere in luce senza alcun tipo di riserva, degli aspetti che effettivamente rappresentano il mondo di oggi e che spesso si cerca di occultare. Con questo non intendo di certo che la società sia divenuta masochista, ma che in quello che viene considerato Radical e/o Terrific fashion, l’uomo contemporaneo ha cercato di trovare delle spiegazioni a ciò che sta succedendo attorno a lui.
    Ecco che allora l’imbruttimento, i canoni oltre la bellezza classica ecc, risultano giustificabili, senza dimenticare però che spesso chi riesce ad andare oltre certi canoni più o meno storici o chi riesce a riproporli in maniera innovativa, ne rivela una profonda conoscenza.
    Concordo quindi con l’autore dell’articolo nell’affermare che oggi ci troviamo al centro di un mondo moda estremistan, ma secondo il mio punto di vista ciò è stato possibile grazie ad una sapiente orchestrazione e rielaborazione di una serie di forme/volumi/spazi tipici del passato, facendo esplodere il dis-equilibrio contemporaneo in quella che può essere definita la Monster Fashion e i suoi nuovi mondi, pronti ad entrare in gioco non appena saranno compresi fino a fondo.
    Tornando nello specifico a Demna Gvasalia, con le sue linee e forme attuali, è innegabile che ci stia guidando attraverso un’idea di moda che, se non si è disposti a percepire cosa comunichi al di là dell’abito e dei modelli, è difficile da apprezzare e da comprendere.
    In conclusione penso che nella moda stia accadendo quello che in altre forme d’arte sia già accaduto da tempo: se nella moda è la visionarietà che oggi rappresenta il valore marginale da esibire per ottenere un’approvazione globale, nell’arte contemporanea, ad esempio, è l’abbattimento delle barriere e delle distinzioni all’interno dell’arte stessa che si possono considerare parte di quel valore aggiunto che ha contribuito al successo globale di queste forme d’arte. In poche parole credo che nell’epoca attuale, un’epoca di crisi economica ma soprattutto umana/sociale, le forme d’arte e della moda nello specifico, si siano dirette verso una strada di ricerca e sperimentazione in modo da poter attribuire dei significati alle proprie opere che richiedono alle persone che cercano di approcciarvisi una sensibilità maggiore, o forse, proprio diversa.
    Una strada che ripercorrendo la situazione dell’attualità è riuscita a dare nuovi equilibri sfruttando i disequilibri del presente, sfociando quindi in qualcosa di distante dai canoni di normalità. Cercando di rispondere alla domanda che si interroga su come sia stato possibile che atti moda finalizzati a produrre qualcosa di sorprendente ed inquietante allo stesso tempo siano divenuti la normalità, penso che la “normalità” in questo preciso momento storico è destinata ad evolversi o a cambiare, perché se c’è una cosa che la storia insegna è che dopo un momento di disequilibrio, inevitabilmente ci sarà qualcosa o qualcuno, che riporterà ad una nuova e successiva fase di equilibrio.
    In che modo e in che tempo, questo è solo da vedere, forse continuando la strada e la linea intrapresa da Demna Gvasalia (come effettivamente può sembrare), forse stravolgendola completamente con un nuovo inizio.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   29 Aprile 2017 at 08:37

      Molto, molto bene. Sono d’accordo con quasi tutto quello che hai scritto. Ho l’atroce sospetto che a questo punto potrei cancellare quello che ho scritto io e lasciare ai lettori la tua interpretazione. Mi hai reso infelice.

      Rispondi
  16. Giulia Mazziotta ID   28 Aprile 2017 at 11:13

    Al giorno d’oggi ci sono innumerevoli creativi che per scavalcare l’altro hanno bisogno di eccedere, di creare sempre qualcosa di “strano” rispetto all’altro. Ebbene si, io credo che il mondo della moda oggi è in Estremistan. Sicuramente quello che permette il susseguirsi di queste azioni è il pubblico. Un pubblico che ormai vuole mettersi in gioco e in mostra. Basta pensare al pubblico di instagram in lotta per i like e l’accrescita di followers, hanno bisogno di mettersi in mostra e quindi perchè no con qualche capo stravagante.
    Quindi senza l’approvazione del pubblico tutto ciò non potrebbe essere possibile. Io credo fortemente che la moda cambi, non perché gli stilisti hanno deciso di cambiarla, ma perché il pubblico ha deciso di volerla cambiare.
    Sono crollate tutte le regole, i capi possono essere realizzati con qualsiasi forma e materiale anche nel pret à porter. Gvasalia è bravissimo in questo. Il suo stile potremmo definirlo streetwear ed oversize. La sua caratteristica sta proprio nel prendere qualsiasi tipologia di capo e renderlo oversize. Nell’ultima collezione di Balenciaga questo è fortemente visibile in tutti i capispalla. Li ha resi “esagerati”. Quello che salta subito all’occhio è come i capi siano versatili sia per donna che per uomo. La creazione degli abiti dipende dal pubblico a cui si ci vuole rivolgere. Potrebbe essere un inno al mondo di oggi dove la sessualità non è più un taboo? Quindi una libertà anche nel modo di vestire che appartenga al proprio genere o no?
    Sicuramente è vero che Gvasalia va contro la moda fiction, e quindi viene collocato fuori dai suoi colleghi, che pur volendo avvicinarsi alla post modernità non sempre ci riescono. È anche un voler prendere in giro tutte le regole che ci sono nella moda, che al giorno d’oggi dovrebbero essere eliminate per distaccarci dalle prime due svolte. E perché no magari è anche una provocazione ai giornalisti e ai blogger ancora troppo legati alla moda classica.
    Infine io definirei Gvasalia più che post modernista, lui vede oltre e vuole avvicinarsi alla gente per capire quello che ricercano nella moda spiazzando i suoi colleghi.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   29 Aprile 2017 at 08:50

      Una precisazione Giulia: io non parlo di postmodernismo bensì di post-post moderno. Questo non esclude il rischio da parte mia di una cazzata al quadrato. Ma nel testo ho specificato una “differenza” tra le due categorie.

      Rispondi
  17. Romina ID   28 Aprile 2017 at 11:17

    Cosa è bello e cosa è brutto? Per secoli artisti e filosofi hanno tentato ognuno di dare la propria definizione. Guardando a posteriori a queste definizioni, ci si rende conto che, per dirla con le streghe del Macbeth, «il bello è brutto e il brutto è bello». Nel senso che entrambi i termini hanno cambiato significato nel corso del tempo, dimostrando di essere concetti relativi al periodo storico o alla cultura di riferimento. E non sempre c’entrano i criteri estetici: spesso una cosa (o un fatto) era (è) brutta o bella in base a criteri politici, sociali, economici, etici. Quella che (forse) non cambia mai è la reazione che suscita una cosa (ritenuta) bella o brutta: apprezzamento nel primo caso; orrore, repulsione o spavento nel secondo. Questa potrebbe essere la ragione per la quale la distinzione tra bello e brutto nell’arte è ancora un tema assai dibattuto: già nel Medioevo si diceva, per esempio, che il diavolo (che per definizione è brutto) diventa bello se la sua rappresentazione è bella, cioè ben fatta, proporzionata ecc. Di contro, il volto di donna di Picasso era giudicato brutto (dai detrattori) non in sé ma perché disegnato “strano”. Quando il “brutto”, nel senso di bizzarro e stravagante, non diventa esso stesso elemento espressivo del genio dell’artista (le figure dell’Arcimboldo, per esempio). Ecco: la deformazione manieristica cinque-seicentesca – espressione del rifiuto delle regole e dell’imitazione tout court della Natura – mi viene in mente guardando il lavoro di Gvasalia. E non è forse vero che le avanguardie cosiddette storiche furono una sorta di “trionfo del brutto” e di esaltazione dell’”antigrazioso”? Provocazioni contro la borghesia, la buona educazione, il conformismo e la denuncia di una società niente affatto bella, da parte di una generazione di artisti (pittori, scrittori, poeti) inquieti, tormentati, consapevoli di vivere in un’epoca buia e piena di orrori (siamo tra le due Guerre). Chissà che Gvasalia (e altri designer come lui, spinti dal desiderio di percorrere altre vie, di andare oltre i riferimenti tradizionali del passato nella ricerca di un gusto alternativo) non avverta quella stessa inquietudine. Che è anche la nostra inquietudine: tra fine delle ideologie e fine-della-storia-che-non-è-finita, decisamente no, non viviamo in Normalistan. Quando – dopo la fine dell’Impero Romano, con il declino dell’agricoltura, lo spopolamento delle città, il crollo di acquedotti e strade – l’Europa sembra vivere in un clima di imbarbarimento generale, il gigantesco, lo smisurato, il contorto pullulano nei testi miniati, nei racconti, nei dipinti: figure mostruose che sono lo specchio di un’epoca in decadenza, percepita come una selva oscura, nel quale l’uomo è alla mercé di forze sconosciute e ingovernabili. In questo senso, credo, l’autore dell’articolo parla di “monster fashion”, a indicare qualcosa di “fantastico” che stupisce e spiazza. Forse un termine più calzante potrebbe essere perturbante, che evoca lo straniamento di fronte a qualcosa che appare incomprensibile e inspiegabile, perché sovverte le nostre certezze di persone “moderne”, che non credono ai “miracoli” o al “soprannaturale”, e dunque ci obbliga a riflettere, a capire, ad approfondire e ad interrogarci: chi sono? Dove vado?
    C’è stato un tempo in cui la diversità era un valore negativo in sé. La vita quotidiana era scandita da rigidi codici sociali, politici, economici. Violarli poteva significare, nel migliore dei casi, il biasimo e l’ostracismo (ovvero la morte sociale), nel peggiore il rogo, la tortura, la morte fisica, insomma. Non che oggi, nel mondo, non accada più così: il sistema delle caste in India è ancora molto diffuso, per non parlare dell’emergere di un nuovo integralismo islamico. Anche in Italia, specie nelle regioni del Sud, la liberazione dei costumi è cosa relativamente recente. Però si può dire che, nell’epoca contemporanea, sembra di essere nella condizione opposta: la diversità, nel senso di “uscire dal gruppo”, risulta essere spesso la chiave del successo. Come fosse una sorta di antidoto alla omologazione nella quale siamo immersi. Paradossalmente, mai come in questa era globalizzata comanda il pensiero unico: nell’economia, nella politica, nella cultura è difficile trovare punti di vista alternativi e… nelle strade di tutte le città del mondo si trovano gli stessi, identici negozi. Con la globalizzazione uno si sarebbe aspettato l’incontro di culture; invece, in ossequio al detto “pesce grande mangia pesce piccolo” una cultura, un punto di vista, un pensiero ha prevalso su tutti gli altri. Per cui ci vestiamo tutti allo stesso modo, mangiamo gli stessi cibi e soprattutto desideriamo le stesse cose. In una società fortemente individualistica come la nostra, le persone, senza più riferimenti e modelli sociali e culturali, il proprio “stile” (in senso lato) devono andarselo a cercare e lo fanno in modo affannoso e qualche volta nevrotico (sarà anche per questo che si parla di mode?) e chi riesce a trovarlo emerge una spanna sopra gli altri. In questo senso, sì, lo street style (quello vero, però, non quello delle immagini postate su Instagram) diventa «intrusione del reale», perché è lì, sulla strada, nella vita quotidiana e senza filtri, che le persone possono essere colte per come realmente sono. «I miei riferimenti della moda non vengono dalla storia delle grandi Maison ma dalla strada. La mia idea di moda deriva dalla vita normale, non dalla declinazione delle mode dell’establishment» (queste sono parole di Alessandro Michele, ma siamo lì). E in questo senso non c’è dubbio che la decisione di Balenciaga di scegliere Gvasalia sia stata non solo lecita ma persino opportuna. C’è però anche il rovescio della medaglia. Con il marketing a permeare ogni attimo della nostra vita e che sembra voler soppiantare anche l’informazione (se già non l’ha fatto), anche la diversità rischia di diventare essa stessa una moda per generare altro business. Una diversità finta, fine a se stessa; lo “stupire per il stupire” e “sotto il vestito niente”, per così di dire. La domanda da farsi, forse, se così stanno le cose, è come si fa a riconoscere la diversità vera da una fasulla. Credo che il discrimine possa trovarsi nella propensione al rischio e quindi nella indipendenza dalle (ferree) leggi del mercato, oltre che nel saper suscitare aspettative per il futuro: quel «potenziale distruttivo» e quella «audacia» che «generano il sentimento di una entusiasmante (o terrorizzante) discontinuità» per dirla con l’autore dell’articolo. E che, fatalmente, portano con sé nuovi modi di fare marketing e comunicazione, come dimostra anche l’ultima (per me geniale) campagna “Gucci and beyond”, i video-anteprima nei quali vengono intervistati degli extraterrestri. Ma poi gli alieni sono loro o siamo noi? Dalla strada siamo già passati alla galassia? Ai posteri l’ardua sentenza.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   29 Aprile 2017 at 09:07

      Hai ragione, il video che citi è una genialata. Ottimo commento.

      Rispondi
  18. Elisa Luca' Id   28 Aprile 2017 at 18:58

    In un momento storico-sociale, come quello che stiamo vivendo, io credo che l’impatto mediatico di Demna Gvasalia sia da giustificare come una vera e propria “ventata di aria fresca”.
    Sono lontani i tempi del couturier, e della moda come arte e ammirazione. Sono lontani i tempi di nobildonne, duchesse e regine che arrivavano negli atelier in cerca dell’abito dall’eleganza immortale. Così era per Balenciaga, che fece dell’eleganza il suo riconoscimento, e allo stesso modo il rigore, così che fu definito il più grande “tecnico” della moda. Balenciaga fu colui che si ritirò nel ’68, poiché non si riconosceva più nei valori e nello stile del periodo, colui che si ritirò per lasciare come unica immagine di se l’eleganza del suo stile.
    Sembrerebbe assurdo che, a distanza di quasi 50 anni dal ritiro dello stilista dal mondo della moda, colui che oggi è a capo della sua maison sia la sua antitesi, perlomeno come valori. Demna Gvasalia, a mio avviso, è tutto ciò che è stato pensato per garantire la resurrezione della maison Balenciaga, poiché sarebbe stato difficile, se non impossibile, oggi, trovare un direttore creativo che minimamente si potesse avvicinare a Balenciaga “stlista”.
    Gvasalia è colui che oggi sembra stravolgere i canoni della moda, ma non è poi così scioccante la sua ideologia. In questo momento in cui la crisi economica-finanziara, e anche di valori, ha stravolto la nostra società, è inevitabile, di riflesso, un cambiamento anche nelle logiche della moda. Un cambiamento e uno stravolgimento dei canoni estetici e stilistici non è poi così nuovo, se si pensa al passaggio, durato più di un centenario, dal sarto al direttore creativo. Se si pensa alla moda come arte e rigore; alla moda della minigonna; alla moda di hippie, punk e grunge; all’alta moda e ai marchi del lusso; al fenomeno del fast fashion; non è poi così stravolgente che oggi ci siano personalità come Gvasalia.
    Colui che porta in passerella personalità normali, colui che porta in passerella la strada, colui che deride in un certo senso la moda, giocandoci, è colui che attira attorno a se l’attenzione dei giovani. Gvasalia è così geniale che, in modo astuto e consapevole, porta energia, freschezza, originalità al suo marchio e alla maison Balenciaga, perché percepisce tutto ciò a cui i millennials, in un certo senso, aspirano. E’ un po’ come se lui volesse abbattere i muri tra il consumatore e la moda, vista meno come desiderio effettivamente; io lo giustificherei come un adeguamento al presente, ad un mondo senza capisaldi e ad un futuro più incerto, un po’ per tutti. Credo che la gente abbia bisogno di meno barriere, e Gvasalia è uno straordinario interprete, più che dei desideri, dei bisogni della gente e dei giovani in particolar modo.
    Gvasalia, a mio avviso, risulta stravolgente, sorprendente, e anche rivoluzionario; ma al tempo stesso, la sua moda basic, irriverente e il suo street style, sono frutto di una visione strategica, ben studiata per produrre tutto ciò che possa essere a pari passo con la gente comune, al punto tale che lui stesso ammette di esserne ispirato. Pertanto, più che visionario, lo definirei astuto, autentico, mai banale e sempre sorprendente. Al di là del suo stile che può piacere oppure no, che si voglia o meno, è colui (non l’unico) che sta contribuendo a segnare un nuovo passaggio nel continuo, e sempre rinnovato, ciclo della moda.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   29 Aprile 2017 at 09:41

      Si può essere astuti tatticamente e nello stesso tempo visionari come scelta espressiva. L’idea del ciclo non mi convice: sembra più una “ripetizione” dell’identico. Nel processo della moda possiamo osservare anche discontinuità, cioè qualcosa di più radicale rispetto i normali rinnovamenti. Su tutto il resto sono d’accordo con te.

      Rispondi
  19. Annamaria Gargani ID   29 Aprile 2017 at 10:59

    Profeta del reale e rottura radicale con quelle che sono le tendenze e la perfezione della moda di oggi: concordo pienamente. Lo stile oversize il “cosidetto Monster” di Gvasalia nasce per rompere tutto ciò che noi siamo, che siamo diventati nel tempo, che abbiamo trasmesso attraverso la moda, gli abiti che indossiamo e le tendenze che si sono alternate nel tempo. In poche parole ci vuole mettere in discussione e/o soprattutto vuole mettere in discussione quello che è diventato ormai il sistema moda. Un sistema moda dove sia il brand che il cliente cerca la perfezione e l’unicità. Ma in questo momento riusciamo ad essere unici con quello che indossiamo? Probabilmente riusciamo a raggiungere la perfezione, ma questa nostra ossessione di essere prefetti con il riuscire ad abbinare scarpe e borse, abiti degli stessi colori, non è altro che un modo per sentirsi parte integrante della nostra società che al primo sbaglio e alla prima imperfezione diventa con noi crudele, ci butta fuori facendoci sentire degli alieni. Ma secondo me con la perfezione che noi raggiungiamo riusciamo solamente ad essere un nucleo di persone simili a se stesse senza identità che a poco a poco elimina la proprio naturalezza, la proprio spontaneità e le proprie passioni. Proprio con la mancanza di naturalezza, spontaneità e passioni che Daniel Gvasalia si pone una domanda cruciale, che il più delle volte mi sono posta anche io soprattutto dopo aver letto questo articolo. Possiamo dire di essere davvero unici nel nostro modo di vestire? Soprattutto chi decide cosa è bello e brutto nella moda?
    Per la prima domanda lo stilista georgiano si è guardato in giro e ha analizzato il modo come oggi noi ci vestiamo. Secondo me ha visto tanta noia e tanta passività nel consumatore di oggi.
    Noi non siamo più unici nel vestire e soprattutto siamo diventate persone che vengono portate a vestirsi in un determinato modo. Ci compriamo quel capo, solo perché ormai tutte le ragazze del quartiere lo indossano o perché qual capo sta benissimo addosso a quella modella. Questo diventa oggi il nostro piacere ad omologarsi al bello che la società decide di essere bello senza lasciarci il modo di pensare se sia aggettivamente bello o no.
    Se il detto dice “non è bello ciò che bello ma è bello ciò che piace” allora non siamo nemmeno giustificati a definire che la moda di Gvasalia sia un Monster? Da qui che scatta la seconda domanda: chi decide cosa è bello e brutto nella moda? Più che rispondere a questa domanda Gvasalia con le sue taglie oversize ci vuole ridare ciò che negli anni abbiamo perso o stiamo perdendo: la nostra personalità e la libertà di scegliere, ma soprattutto la libertà di andare al di là del concetto di bello della moda. Forse la domanda più adatta probabilmente è questa: Il consumatore sa ancora decidere cosa è bello e cosa è brutto? Ma soprattutto il brutto può diventare anche bello? Penso che con la sua moda Gvasalia risponde perfettamente a queste due domande ed è per questo che viene definito il profeta del moda post-post moderna. Rompe gli schemi con i suoi cappotti oversize, che probabilmente, poche persone potrebbero indossare, rendendoci alieni agli occhi della società, ma che sicuramente ci rende liberi, ci stimola, ci fa sentire in qualche fuori dalla tempo in cui viviamo per ridarci quella passione che secondo lui e secondo me abbiamo perso. Con lui e con la sua moda possiamo osare, possiamo provare ad essere diversi dagli altri scegliendo abiti trasandati, e riusciamo così a contestare quelle che ormai sono le leggi del sistema moda. La sua moda Monster quindi ci rende vivi più che mai rinchiusi nella perfezione in cui siamo bloccati. Sicuramente in un futuro saremmo grati a Gvasalia, che con la sua visione e la sua rottura probabilmente restituisce noi a noi stessi. E se ci pensiamo ritorneremo ad essere quella generazione nata con la minigonna dell’inglese Mary Quant.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   29 Aprile 2017 at 12:13

      Io non vedo tanta perfezione nella moda di oggi come dici tu. E non vedo nemmeno tanta voglia di essere perfetti. Forse il concetto di perfezione dovevi spiegarlo meglio.

      Rispondi
  20. Joanne Saavedra ID   29 Aprile 2017 at 16:23

    E ‘difficile parlare dil uomo di cui tutti parlano, ma che in due anni, Demna Gvasalia è diventato l’uomo più seguito e influente della moda. Il loro marchio collettivo Vetements, ha inventato un streetwear diverso, ispirato in negozi di abbigliamento di seconda mano, il Carrefour, in hip-hop e heavy metal, la cui radicalità degli anni ’90 ha avuto lo stesso effetto di shock elettrico.Tutto ciò che fa è diverso. I posti in cui fa le sue sfilate, che vanno da un club gay nel quartiere Marais di Parigi, un ristorante cinese a Belleville o una Chiesa, anche suoi commenti e opinioni. Quando un giornalista da The Telegraph gli rinfaccia dei prezzi troppo elevati delle sue felpe XXL (650€) senza discutere il lavoro di cucito, lui ha risposto “Non sono abbastanza dipendente della moda, da spendere tutti quei soldi, preferisco andare in vacanza, le vacanze sono piú importanti.”
    Ciò che sembra normale per Gvasalia, per il altri sembra modernissimo, ma il caso è ora di moda, tutti vogliono essere come lui. E ‘stato nominato direttore artistico di Balenciaga. La distanza tra Balenciaga e lui non è solo fisica, ma anche ideologica. Cristóbal Balenciaga che lavorava nel silenzio più assoluto, si è rifiutato di essere fotografato o di concedere interviste. Non ha mai voluto far uscire una linea secondaria de prêt-à-porter. La sua spiegazione è stata: “Non prostituiro la mia arte.” I vestiti si tagliavano con il numero minimo di cucitura, erano prodotti con molta fantasia e il suo finiti era splendido. In Vetements i tessuti preferiti sono costituiti da materiali sintetici che scricchiolavano a causa dell’elettricità statica le quale emanano a sfilare in passerella.
    Gvasalia é arrivato alla cima in manera incredibilmente veloce, Vetements ha cominciato a essere usato come aggettivo nello stesso modo che è spesso usato i nomi di Prada o Gucci. Forse la caratteristica veramente rivoluzionario di Gvasalia non é la volontà di ridefinire quella nell’alta moda, ma anche la loro intenzione di convincere alla gente a indossare. Lui crede che la moda non dovrebbe farti sognare, lo considera obsoleto, basta che la vestite.Quello che Gvasalia propone e un specie di stile “normcore” e parla della sua maniera pragmatica di vedere la moda, non come un arte, ma come un prodotto. Al sovrapporsi lo commerciale e lo creativo é lí che succede la moda in quell’equilibrio.
    Io ritengo che Gvasalia É UN VISIONARIO FISCHIATO, Lui sostiene che “Per molto tempo si é associato l’eleganza con la dolcezza, ma questa è ultimamente diventata più dura, più forte, più aggressiva”. Deve essere giusto, perché i suoi disegni sempre si esauriscono, e bisogna aspettare che gli restituiscano. Il slogan del suo marchio é “ Il vero lusso é limitato” seguendo questo ragionamiento vendono un numero limitati ai negozi. Muove le date del sfilate e presentano le colezioni nei mesi di giugno e gennaio in pieno momento chiave per le pre collezione, quando i compratori spendono il 70% dei loro conto, il suo obiettivo, rimanere piú a lungo nei negozi, evitare che la sovrapproduzione finisca a prezzi molto basi, e combattere il plagio. Critica il concetto di total look, a favore di una moda di cui appropriarsi che é portatrice di identitá. Contrario alla Fast Fashion, lui dá valore i vestiti che si conservano, di solito afferma che un vestito si fa per indossarli, no perché finisca in un museo. A differenza di altri stilisti ha convocato circa a 20 marchi incaricati di realizzare collaborazioni, inaugurando cosí una nuova era, quella della collaborazione. Che la moda sia un business, é una cosa che tutti sappiamo, che dovrebbe sorprenderci ogni tanto anche, ma raggiungere questi due aspetti è un privilegio di pochi, come lui ha fatto. E anche se Balenciaga sarebbe stato inorridito all’idea, ad esempio di un impermeabile reinventato come una giacca, ma lui avrebbe riconosciuto nella sua lussureggiante ridisegno della forma femminile, una mano che imita la sua.Che ti piaccia o meno, questa è la realtà, non la puoi evitare, non sappiamo quanto durera, ed e quello lo magnifico della moda che non smette mai di stupire, e come suol dire Gvasalia “miei vestiti sono orribile, ecco perché piace cosí tanto.”

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   29 Aprile 2017 at 21:17

      “Gvasalia visionario fischiato” forse è una genialata. Ma non sono sicuro di aver capito perché.

      Rispondi
  21. Mariacristina La Rosa ID   29 Aprile 2017 at 23:07

    “Più li faccio brutti, più piacciono”
    Con questa frase estrapolata dal testo (di Quirino Conti), decido di cominciare il mio commento a questo articolo, proprio perché credo che ne riassuma tutto il contenuto. Demna Gvasalia, nuovo direttore creativo di Balenciaga, è stato definito nel 2016 dal quotidiano on-line “Business of Fashion” la persona più influente della fashion industry globale. Il motivo di questa definizione sta tutta nel suo stile. Gvasalia come si legge nel testo, è innovativo nelle suo scelte. Credo che il suo successo derivi proprio da questo. Ammirando le sue collezioni sia per la maison Balenciaga che per il suo marchio Vetements, ci si rende subito conto che ciò a cui vuole puntare lo stilista è essere controcorrente da tutto quello che può essere definito “normal” nell’ambito moda. Il suo è uno stile streetstyle, nel quale gli abiti vengono destrutturati completamente fino a diventare oversize, sembra non esserci più distinzione tra capi femminili e maschili, utilizzo di tessuti tecnici (fino ad ora poco tenuti in considerazione da altri brand), ma anche i modelli non possono definirsi come tali in quanto rappresentano delle bellezze “normali”, nulla di artefatto. Sono d’accordo con l’autore, quando afferma che l’obiettivo di questo “visionario” sia travolgere del tutto chi osserva le sue collezioni. Si ha la sensazione che lui voglia rompere con l’eleganza già vista sulle passerelle delle maggiori maison di haute couture. Nonostante sfili a Parigi. Vuole essere diverso e questo è chiaramente visibile nei suoi capi. Nulla di convenzionale, anzi. Se ne distacca totalmente. Quindi si fissa un altro obiettivo, secondo il mio punto di vista, ossia stravolgere. Creare qualcosa che non si sia mai vista o appunto stravolgere le forme, i tagli, i volumi, le silhouette già viste e riviste. E di questo ne è esempio il suo approccio alla maison Balenciaga, sicuramente differente dal couturier Cristobal Balenciaga. E credo che questo sia stato uno dei motivi principali che ha portato la maison a volerlo scegliere come direttore creativo. Come se si volesse dare un messaggio di rottura e una conseguente un’inversione di tendenza. Portando l’innovazione all’interno di essa. Il suo stile a mio modo di vedere, non può definirsi né elegante, né bello. Il bello qui viene sostituito dal suo opposto, il brutto. La bruttezza dei sui abiti è indice di quella volontà di essere “diverso” in tutto e per tutto. Di fare degli oggetti non di desiderio ma di godimento, caricandoli di un nuovi significati. Ed è proprio questo ad attrarre il fashion system ed a far si che si abbiano considerazioni positive su sulle creazioni. Gvasalia gioca molto su questi aspetti, dettagli particolari e poco convenzionali. In primo luogo perchè sono parte integrante del suo stile, maturato dopo le tante collaborazioni con i maggiori brand e la raggiunta consapevolezza di volersene distaccare; e dall’altra, secondo me ne enfatizza i caratteri per far in modo che venga notato ma anche criticato. E ci sta riuscendo pienamente. Sono tutti aspetti che giocano a suo favore e alla sua notorietà. Dopotutto lui ed il suo brand si possono considerare ancora emergenti. Quindi, in sintesi, le sue scelte non hanno ragioni prettamente stilistiche ma puntano ad attrarre anche un nuovo tipo di mercato e di target sempre più in sviluppo. I suoi capi, li vedo come una provocazione, una sfida contro il sistema moda attuale e le tendenze che ne derivano. Anche le ultime borse che ha “creato” sono pura provocazione contro un sistema che si vuole svecchiare e rinnovare, sdoganandone i concetti base. Collegato a quanto detto, credo inoltre che un altro fattore stia giocando a suo favore, ossia il particolare momento storico in cui stiamo vivendo. Come tutti ben sappiamo, è un periodo intriso di incertezze, disequilibri, con nulla che può essere giudicato da nessuno giusto o sbagliato proprio perché non se ne hanno gli strumenti. Quindi è un momento propizio per chi, in questo caso nell’ambito moda, come Gvasalia propone nuovi modi di concepire l’abito, nuovi significati, stravolge l’idea di eleganza e di forme proposte in precedenza esplorando territori fin ad ora inesplorati. Tutto ciò che crea non viene considerato “anormale” bensì rivoluzionario e creativo. Anche il “brutto” di cui parlavamo in precedenza è considerato tale. In fondo chi può definire la normalità?! Quello che per una persona può essere bello e normale, per un’altra può brutta e anormale. La normalità è soggettiva. Per Gvasalia, la normalità sono le sue creazioni “audaci” e anzi gli risultano anormali realizzazioni di altri designer. Quindi il senso di tutto sta nella visione individuale e personale.
    Oltre lui, sembra quasi che anche il fashion system si sia stancato di vedere in passerella sempre capi, sì belli ma stereotipati e poco innovativi. Si cerca sempre qualcosa in più, e lo stravolgimento funziona per Gvasalia. Quindi concordo con l’autore, sul fatto che ci troviamo in Estremistan, mondo in cui i designer hanno la possibilità di esprimersi liberamente e dare vita alle loro forme d’arte grazie alla mancanza di certezze e valori del mondo attuale che ci circonda.

    Rispondi
  22. Martina Capuano ID   30 Aprile 2017 at 12:41

    Per quanto mi riguarda sono assolutamente d’accordo con l’autore del testo infatti il parallelismo tra la moda di Gvasalia e la tattica militare dello Shock and Awe inizialmente mi ha colpito ma dopo mi ha lasciato riflettere trovando tre le due cose un importante nesso logico. L’obiettivo non è vincere ma travolgere e Gvasalia sembra aver percepito a pieno questo concetto, infatti è uno dei pochi art director visionari del post-postmodernismo che è indipendente dal mercato e dalle logiche di vendita. Gvasalia si propone come un visionario in quanto lui stesso con Balenciaga ma soprattutto con Vetements ci guida verso un’idea di moda diversa che nello specifico ci travolge. Sicuramente i capi disegnati e curati da Gvasalia non restano invisibili ai nostri occhi. Nella sua moda ritroviamo una propensione al rischio in contrapposizione alla moda più orientata al glamour e all’eleganza, ma comunque non sfociando mai in una moda eccessiva e volgare. Nell’epoca attuale di Estremistan dove la crisi economico- finanziaria ma soprattutto la crisi di valori umani e sociali, Demna Gvasalia ha trovato la chiave di volta per accedere ad una strada di ricerca e sperimentazione che consente a chi lo osserva di sforzarsi ad attuare una sensibilità maggiore. Lo stesso Gvasalia ha dichiarato in alcune interviste che “Il successo è fatto da chi ti circonda” questo è nettamente visibile nelle sue creazioni. Demna Gvasalia infatti esalta al massimo la sua creatività utilizzando anche oggetti e forme della nostra quotidianità. Questo lo ritroviamo portato all’eccesso nelle collezioni Vetements, basti pensare allo stivale che ha come tacco un accendino. Invece moderato ma comunque emozionalmente performante lo ritroviamo in Balenciaga. Non a caso solo una settimana fa, Gvasalia è stato attaccato da molti media per la sua borsa blu simile a quella di Ikea. Mi sembra doveroso visto che stiamo parlando di lui, spendere due parole sull’accaduto. Quello che va spiegato è che ciò che conta è il significato di quella borsa che ribalta i canoni della bellezza e del lusso andando controtendenza e proponendo qualcosa di semplice e banale come eccezionale. Demna Gvasalia è quindi a tutti gli effetti un visionario che ci presenta e ci travolge in un mondo al di là delle apparenze, in un mondo dove è difficile entrare se si possiedono ancora quei tabù proposti dalla società su cosa è bello e cosa è brutto, su cosa è glamour e cosa no. Se riusciamo a superare queste turbe sicuramente riusciremo ad apprezzare la sua visionarietà e i suoi abiti non risulterebbero poi così difficili da interpretare.

    Rispondi
  23. Federica Chinnici ID   30 Aprile 2017 at 15:43

    Per cominciare, penso sia doveroso sottolineare che quando si parla di fashion system si faccia riferimento ad un’orchestrazione di segni, a un dispositivo caratterizzato da elementi eterogenei, al più potente meccanismo in grado di regolare gli stili vita delle persone che vivono all’interno di una società. Attraverso la nascita di nuovi stili, i diversi gruppi, in una società in evoluzione, comunicano la propria identità, la propria adesione a determinati valori e la propria differenziazione rispetto ad altri.
    La moda rientra nell’articolato mondo della comunicazione non verbale: l’abito è caratterizzato da segni che celano un significato, più o meno palese. L’oggetto perde la sua funzionalità fisica, acquisisce un valore comunicativo chiaro, e diventa innanzitutto segno.
    L’abbigliamento, quindi, comunica tramite convenzioni e codici: appare impossibile sottrarsi al gioco della moda perché l’abito inevitabilmente diventa mezzo di comunicazione.
    Il fashion system può essere considerato come la storia di una civiltà in continuo divenire, un processo storico caratterizzato da grandi eventi, che sarebbe meglio definire “svolte” e che danno vita, di volta in volta, a nuove configurazioni moda.
    Basti pensare alla prima grande svolta nella storia contemporanea del sistema moda che ne ha stravolto la conformazione: l’invenzione della minigonna di Mary Quant, che diventa per le donne, negli anni 60, simbolo di libertà e anticipa l’ideologia della rivoluzione sessuale, dando vita appunto ad una nuova configurazione moda.
    Come affermato dal sociologo Simmel, la moda da un lato prevede l’imitazione di un modello esistente che garantisce l’adesione sociale, dall’altro la differenziazione individuale che appaga il bisogno di distinguersi dagli altri e di mostrare la propria visione e il proprio status sociale.
    Simmel tende a descrivere tali dinamiche come operanti mediante imitazione soltanto per effetto di “sgocciolamento” dall’alto verso il basso (o trickle down).
    La nuova moda cosi intesa pertanto apparterrebbe solo alle classi superiori, e una volta che essa entra in possesso delle classi inferiori, le prime per differenziarsi dalle altre adottano un nuovo stile e una nuova moda per ristabilire la differenza, cambiando continuamente i contenuti di quella stessa moda.
    Possiamo affermare perciò che la moda è di per sé un processo di cambiamento: essa è responsabile del suo continuo rinnovarsi. Un processo basato, dunque, sulla continua innovazione.
    Ma arriva un momento nella storia, che coincide con la fine degli anni 60-70 del ‘900, in cui la teoria dello sgocciolamento viene meno in favore di subculture che, trasformandosi in moda street style, ribaltano il sistema: non più una moda che nasce e si sviluppa dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto.
    Nel corso di qualche decennio ci introduciamo verso un’altra fase della storia del fashion system, all’interno della quale, per effetto della globalizzazione e della nascita di nuovi mercati, acquista una maggiore importanza il concetto di organizzazione, ovvero di marketing.
    Pian piano la moda perde quell’“aurea” che Walter Benjamin aveva inteso come la perdita di unicità ed incanto e che, in questo caso, si traduce in perdita di creatività dei grandi couturier: il creativo, verso gli ultimi decenni del ‘900, diventa colui che percepisce e cerca di interpretare i “segni” del cambiamento sociale prima degli altri.
    E sempre in questi ultimi anni del secolo si da avvio ad un’ulteriore svolta all’interno del fashion system caratterizzata dalla nascita e dalla diffusione della tecnologia: il web conduce ad una accelerazione forzata dei processi, la cancellazione delle tendenze, la crisi del concetto di marketing.
    In questa terza fase nasce una nuova configurazione del couturier: non solo stilista, ma soprattutto art director, che si occupa di coordinare il team di creativi e di compiere una sintesi di stile, confermando, tuttavia, il valore del brand.
    Ed proprio in questo momento che si colloca quella moltitudine di soggetti, tra i quali appunto, Margiela, Mcqueen ed oggi, ancora di più, Gvasalia, che sta incamminandosi, nel modo di intraprendere le apparenze, verso una svolta radicale in grado di far cadere qualsiasi tipo di certezze e stravolgere i valori tradizionali.
    Queste certezze, come afferma l’autore del saggio, sono precipitate a causa del mondo in cui viviamo, caratterizzato da crisi finanziare, terrorismo, globalizzazione che ci hanno fatto precipitare in una situazione di disequilibrio.
    E, a mio avviso, sono proprio quelli che l’autore chiama i visionari della moda, ad avere, prima degli altri, percepito i sintomi di questa società non più in equilibrio e, grazie alla loro creatività, ad averli tradotti in una trasfigurazione, in una revisione delle forme e dei volumi.
    Ritengo, perciò, che il mondo della moda oggi sia in Estremistan: è attraverso la costruzione di nuove visioni che questi creativi rappresentano una risposta simbolica alle ferite inflitte dalle problematiche che caratterizzano il mondo moderno e ai cambiamenti economici e sociali, grazie alla loro capacità di intercettare segni particolari, come afferma la saggista Claire Wilcox quando parla di Radical Fashion.
    E Gvasalia si inserisce proprio in questa generazione di creativi che impongono una trasfigurazione ai fenomeni sociali. Una moda street style con volumi oversize azzardati, alterazione delle forme, bizzarri accostamenti di colore, abbruttimento dei look, capi quasi orrendi, texture inaspettate: il cosidetto Monster Fashion, concetto che va al di là della definizione di brutto e di bello. Tutte caratteristiche che viste in un contesto ordinario appaiono prive di senso ma che, a mio avviso, celano uno studio attento che parte, come afferma lo stesso creativo, dall’osservazione di ciò che la gente indossa per le strade.
    Gli outfit portati dal creativo in passerella rappresentano il dress code delle persone comuni. Ed ecco perché protagonisti dell’ultima sfilata di Gvasalia non sono stati bei modelli impeccabili, ma persone apparentemente comuni, provenienti dalla strada. E questo, a mio avviso, per sottolineare l’ordinarietà del tema presentato e per l’intenzione di voler offrire al pubblico quello di cui sente di aver bisogno. Ma nel frattempo, come afferma Caroline Evans, la creatività più bizzarra evoca la diffusione tra i soggetti di ansietà e mal-essere che caratterizza il mondo moderno.
    Ritengo, dunque, che Gvasalia rappresenti la sintesi di questa terza svolta: egli non procede attraverso l’osservazione né del passato né del futuro. Gvasalia osserva la gente e la trasfigura.
    Adesso ci troviamo in una fase in cui non esiste più alcuna verità assoluta.
    Ed il fatto che gli atti di moda finalizzati a produrre qualcosa di sorprendente e inquietante siano divenuti la normalità è testimoniata dal grande successo delle collezioni del creativo georgiano: ciò che prima appariva stravagante e inconsueto, adesso sembra qualcosa di comune.
    Ritengo che in un sistema moda oggi sempre più spersonalizzato, in cui sfila di tutto e che parla diverse lingue, tutte volte alla ricerca di una popolarità immediata e a compiacere qualsiasi categoria di persone, la forte personalità Demna Gvasalia emerge incontrastata. Mentre ormai sembra che tutti i brand non sentano più la necessità di distinguersi da altri, le collezioni del creativo georgiano sono estremamente destabilizzanti ma assolutamente aderenti alla realtà, nella quale noi non possiamo fare altro che riconoscerci.
    E’ evidente come per le sue ultime collezioni, in veste di nuovo direttore creativo di Balenciaga, Gvasalia, non abbia fatto altro che studiare gli archivi del fondatore, come egli stesso ha affermato.
    “La mia priorità era quella di comprendere la metodologia di Cristobal, il suo lavoro attorno al corpo, e come farlo oggi.”
    E penso che in questo ci sia riuscito perfettamente, avendo creato collezioni in continuità con il lavoro di Balenciaga e con lo spirito del tempo, e avendone tuttavia, come afferma egli stesso, esteso il DNA.
    Concludo il mio discorso affermando, dunque, che per comprendere le dinamiche del fashion system è necessario cogliere tutti quei processi, quelle dinamiche culturali e sociali e quelle svolte che nel corso di decenni hanno portato al cambiamento continuo. La moda, dotata di un enorme capacità evolutiva e adattiva, deve essere intesa come un processo di trasformazione che muta con il mutare della società. Ed oggi in un mondo caratterizzato dalla globalizzazione e quindi dall’emulazione, a risultare vincenti sono quei creativi visionari che attraverso la rottura degli schemi tradizionali e la creazione di nuove visioni radicali, diventano punto di riferimento per i nuovi consumatori: scelte espressive estreme, in questo contesto sociale globalizzato, si trasformano in nuovi standard fortemente attrattivi.

    Rispondi
  24. Lamberto Cantoni
    Lamberto Cantoni   1 Maggio 2017 at 16:16

    Mariacristina la Rosa, Martina Capuano, Federica Chinnici: ottimi interventi. Chiarezza, precisione, cultura non manca nulla. I vostri commenti potrebbero essere veri e propri articoli.

    Rispondi
  25. Ludovica Mallardo ID   1 Maggio 2017 at 20:05

    Demna Gvasalia: un visionario dei nostri giorni.

    Georgiano, 36 anni, e una carriera lanciatissima. Quando Alexander Wang se n’è andato da Balenciaga hanno puntato tutto su di lui che è stato no-minato subito direttore creativo: è Demna Gvasalia l’uomo dell’anno 2016 secondo il “Business of fashion”. Il quotidiano online ha definito il giovane designer ”Person of the year”.
    Qui la parola chiave è “visionario”.
    Essersi distinto come la personalità più influente della fashion industry globale degli ultimi dodici mesi. Dagli anni ottanta in poi, è emersa una ge-nerazioni di artisti desiderosi di imporsi contro il mainstreat. Collochiamo tra questi, Gvasalia, grazie alle sue competenze tecniche, alla sua passione per la ricerca e l’innovazione; oltre al suo amore per lo streetwear e per il decostruttivismo con il quale ricrea volumi oversize e texture inaspettate.
    Ci si chiede come mai l’attenzione degli opinion leader si è concentrata su questo stilista georgiano. Beh, sono colpiti dal suo modo visionario e un po’ “strano” di proporci la moda. Ci suggerisce una chiave alternativa per apparire, per mostrarci agli occhi delle persone. Le sue creazioni “contri-buiscono a dare linfa agli apparati della moda” che molto spesso, a mio modesto parere, risultano un po’ statici e rigidi. Di Gvasalia colpiscono im-mediatamente le “bizzarre proporzioni dei suoi abiti e gli audaci accosta-menti di colore”.
    C’è da dire che non da tutti è apprezzata questa particolari scelte creative e che gli stili del nostro creativo sono state anche spesso criticate, come l’utilizzo di “stoffa in esubero” per gli abiti che, però, non risultano essere una novità nella mondo della moda.
    Definirei la moda di Gvasalia, una moda senza costrizioni, senza obblighi e senza riverenze; semplice e diretta ma allo stesso tempo difficile da indos-sare. Non alla portata di tutti. Inoltre, i suoi abiti “sembrano puntare all’ “in-distinzione tra femmine e maschi” sia nelle forme che nelle presentazioni delle sue collezioni. Ci vuole “coraggio” e una forte personalità per poter capire e apprezzare il nuovo stile Balenciaga.
    Dobbiamo ringraziare questo giovane stilista per averci fornito una nuova chiave di volta per comprendere se stessi ed il nostro corpo che risulta es-sere destrutturato dalla sua visione e dalle sue “bizzarre” creazioni.
    E’ uno stile all’avanguardia pronto ai cambiamenti e desideroso di farne.
    Ringraziamolo dunque!
    Ci aiuterà a capovolgere i canoni di questo mondo, i concetti e le aspettati-ve fin ora rispettati, a prenderci anche meno sul serio, secondo me.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   3 Maggio 2017 at 13:59

      Inter-vento corr-etto. Pecc-ato per le trop-pe pa-role spez-zate senza una ap-parente ra-gione.

      Rispondi
  26. Ludovica mallardo   5 Maggio 2017 at 14:14

    Non le ho spezzate volutamente però le parole. Quando ho pubblicato l’articolo non era così…

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   5 Maggio 2017 at 19:09

      Non è un problema. Le idee nel tuo commento sono giuste.

      Rispondi
  27. Mirò   6 Maggio 2017 at 14:47

    Vorrei chiedere all’autore come si posiziona un creativo come Gvasalia in relazione alla moda italiana che a mio avviso è molto più armoniosa. Se veramente il Mostruoso è la tendenza del futuro, i nostri marchi migliori o cambiano snaturandosi oppure che faranno?

    Rispondi
  28. Rosa Agati ID   13 Maggio 2017 at 18:44

    Articolo di non facile lettura per chi non assume giornalmente una giusta dose di moda, io per quanto ne sia ingorda più leggo questo contributo, che da me è stato percepito come traduzione del sistema culturale moda degli ultimi dieci anni, più la mia testa ne rimane inquinata, in senso positivo, l’articolo ha alterato alcuni dei mie giudizi statici che da tempo non scuotevo.
    Le mie pigre sinapsi, quindi, si sono focalizzate e hanno voluto indagare proprio su colui che sta marchiando silenziosamente la contemporaneità della moda, definito dall’autore dell’articolo “il profeta”, si perché Denma Gvasalia merita questo appellativo, il profeta è colui che per intuizione e acutezza di mente riesce ad anticipare ciò che accadrà in futuro. Con l’improvvisa frattura creativa generata attraverso un guardaroba, ha stimolato un rinnovamento socioculturale. Nonostante la stridente radicalità delle ultime collezioni, D.G. ha riportato sotto i riflettori mondiali il brand, spolverando e non tralasciando la ricca eredità di stile e eleganza lasciata dallo stilista spagnolo.
    Prima di continuare un agguerrita difesa ne suoi confronti alzo le mani, si lo ammetto, lo apprezzo molto, moltissimo in tutta la sua apparente sterilità e mancanza di “sparkle” e glamour; mi affascina anche se nelle sue collezioni e nella sua comunicazione sono assenti tutti quei fattori che creano instabili trend che la nostra società rincorre e ci si sazia repentinamente.
    Gvasalia con l’intento di essere fuori le righe, contro il sistema moda ha iniziato per ridefinire e guidare il sistema stesso, ad esserne una delle figure più rilevanti senza bisogno di esaltare e urlare la sua controversa personalità, lasciando la sua identità nella penombra, urla silenziosamente la sua spigolosa creatività attraverso l’incoronazione rischiosa che gli ha concesso il brand Balenciaga nel 2014.
    Banalmente si dice che per costruire qualcosa di nuovo bisogna distruggere, ed è quello che apparentemente si legge nel vedere sfilare quei corpi amorfi, drammatici- relativo al dramma intendo qualsivoglia azione scenica, con grande intensità emotiva- travestiti dal giovane georgiano, in quei corpi non si vede nessun anello di congiunzione con Balenciaga, un brand impregnato di storia, anzi se ne vede una distruzione; i look oversize e streetwear che propone sono più vicini senza alcun dubbio a Vetements (brand unconvetional divenuto fenomeno, dove l’estro di D.G. ha potuto esprimersi in senso compiuto) che alla poetica di Cristobal B.
    Però questo mio modesto commento vuole proprio portarvi a un’altra visione, perché se la pensiamo pressoché uguale, vuol dire che qualcuno di noi non ha pensato abbastanza, quindi mi azzardo a proporvi un parallelismo tra i due rivoluzionari: tra il re dall’indiscutibile teatralità, senso del colore e magistrale tecnica sartoriale, che ha lasciato questo pianeta nel 1972 e il visionario D.G. che ne sta sfruttando al meglio le opere concettuali del couturier.
    Entrambi hanno sconvolto con le loro scelte poco pop.
    Cristobal Balenciaga nato da mamma sarta e papà pescatore a Getaria nel 1895, immagino che non abbia speso molto tempo con i soldatini, fin da giovane si è dimostrato preciso e abile nel taglio dei tessuti, capace di creare sul corpo umano sorprendenti geometrie. A soli vent’anni la sua prima maison di moda, riuscì a far apprezzare alla Parigi degli anni ’50 elementi caratteristici del suo paese come il bolero, il pizzo latino e il contrasto tra il rosso e il nero.
    Con sicurezza supera i confini della moda, viene considerato un vero e proprio artista: intuitivo, innovativo e con una sana ossessione per la perfezione che sta alla base di tutte le sue creazioni.
    Abito tunica, abito sacco, scollature piatte, camicie senza colletto, si distaccò completamente dalle tecniche sartoriali del XIX secolo, depositando germogli di coraggio per tutti coloro che non si trovavano e non si trovano a proprio agio nella travolgente corrente che la moda genera.
    Penso che entrambi abbiano scommesso tutto sulla distruzione dei parametri della modazione del proprio tempo, entrambi dotati di un “sesto senso” che consente di intercettare le energie pronte a provocare una mutazione estetica.
    D.G. con Balenciaga ha solo iniziato, ci ha solo proposto qualche cortometraggio sperimentale sulla futura direzione e strada che percorrerà il brand in futuro.
    Io lo vedo e lo trovo il “balance” tra il vecchio e il nuovo, i concetti e i valori di C.B., D.G. li ha sublimati.
    Nelle collezioni Primavera/Estate 2017 e Autunno/Inverno 2017-2018 è materica la genialità sartoriale, gli abiti proposti non hanno nulla in comune con la regola della “obbligatoria aderenza all’anatomia del corpo”, a me esalta questo decostruttivismo del corpo, con l’oversize di D.G. (che esce fuori dai binari della silhoutte umana per questo spettacolarizza) il corpo assume un nuovo significato e ci indirizza verso un nuovo modello percettivo; io ora oso e dico che l’asimmetria dei cappotti, le spalle architettoniche delle giacche e l’esagerazione grandezza delle borse, indossate da corpi instabili e gracili, mi porta a fantasticare e a paragonarli (questi elementi che destabilizzano e sono il tratto distintivo di Balenciaga) a una “quarta dimensione picassiana” intesa come nuovo modello di descrizione e rappresentazione, nuova variabile. Come un quadro cubista del Novecento non poteva essere letto o minimamente apprezzato con distratto sguardo istantaneo, così le creazioni di D.G. meritano la stessa sensibilità e attenzione, analizzare le singole parti dell’abito per poi raggiungere con gradualità il tutto.
    Bisogna apprezzare chi rischia in un presente così ingombrante, chi non ci propone facili mondi dimensioni già digeriti da idolatrare su Istagram e poi comprare la più becera imitazione nel primo negozio di fast fashion, bisogna apprezzare chi si distingue con innovazione, intuizione, novità, rimescolamento di proporzioni e lunghezze; non scordiamoci che la moda purtroppo è anche genialità sartoriale e se dietro c’è un disegno perverso tutto risulta più interessante.

    Rispondi
  29. Lamberto Cantoni
    Lamberto Cantoni   14 Maggio 2017 at 09:13

    Ottimo intervento. Attenta a non esagerare. Certo che Cristobal Balenciaga aveva una tecnica sartoriale magistrale, ma scrivere che si distaccò completamente dal XIX sec, lasciando intendere che tutti gli altri colleghi erano dei nostalgici non è vero. Madame Vionnet come genialità dei tagli non gli è certo stata inferiore. Charles James ne sapeva quanto lui. Chanel e Patou lo hanno di gran lunga anticipato nella costruzione dell’immagine della donna novecentesca. Come fantasia e esasperazione delle forme la Schiapparelli gli era di gran lunga superiore. Interessante la “quarta dimensione picassiana”: l’idea che le forme di Gvasalia obblighino la relazione oggetto-soggetto, ad un timing propriaccettivo diverso da tutte le altre è da tenere in considerazione.

    Rispondi
  30. Elena   15 Maggio 2017 at 07:50

    Una domanda: È giusto mettere in parallelo le strategie che hanno portato Balenciaga a scegliere Gvasalia e Gucci a promuovere Alessandro Michele?

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   18 Maggio 2017 at 15:04

      Fino ad un certo punto. Michele faceva già parte dello staff Gucci. Un po’ come a suo tempo successe con la Giannini quando subentrò a Tom Ford. Comunque le similitudini ci sono. Entrambi sono stati chiamati per rompere con i moduli creativi di chi li precedeva. In entrambi i casi la svolta è stata radicale e ha coinvolto tutte le dimensioni della modazione, dall’estetica degli abiti alle sfilate, dalle vetrine alle campagne pubblicitarie.

      Rispondi
  31. Ann   27 Giugno 2017 at 11:20

    Molto interessante il discorso sugli stilisti visionari. Ma questo non è un articolo, è un saggio difficile. L’autore dovrebbe fare più attenzione a come viene impaginato. Quando si parla di Balenciaga al testo sembra mancare delle parti. È probabile sia un errore di impaginazione. Viste le ambizioni teoriche un po’ più di attenzione ai fondamentali dell’editing non guasterebbero, anzi dovrebbero essere primarie.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   27 Giugno 2017 at 11:43

      Hai ragione. Ci sono un paio di refusi non corretti. Ma il problema più grave è la mancanza della parola “devo” all’inizio di un periodo che può indurre a pensare una perdita di testo molto più estesa.
      Se ti riferivi al mio modo di scrivere, posso solo risponderti che mi è uscito in questo modo è che le mie intenzioni non erano mosse da ambizioni teoriche ma dal tentativo di maggiore profondità.

      Rispondi
      • Ann   27 Giugno 2017 at 11:57

        Non mi sono spiegata. L’articolo saggio è molto interessante e meno male che ogni tanto si leggono sulla moda cose nuove. Ma visto che è difficile se poi mancano delle parole… I refusi sono comprensibili ma subito dopo le immagini dei modelli magrissimi comincia una frase che fa pensare ad un taglio di testo.

        Rispondi
        • Lamberto Cantoni
          Lamberto Cantoni   27 Giugno 2017 at 12:11

          Guarda il problema grave è solo la parola “devo” che per motivi che non riesco a comprendere è rimasta incastrata tra le due immagini alle quali fai riferimento. Non manca del testo, è una frase che non riesco a uniformare.

          Rispondi
          • Ann   27 Giugno 2017 at 12:18

            Ah! Ho visto. Chiedo scusa.

  32. Irene P.   8 Ottobre 2017 at 18:08

    Trovo l’articolo interessante, denso di informazioni e osservazioni critiche, ma allo stesso tempo complesso e in qualche passaggio di difficile decodificazione per chi si sta approcciando all’ermeneutica dell’oggetto-moda e alla filosofia che esso sottintende. In un mondo globalizzato pervaso da internet e social media, in bilico tra crisi finanziarie e atti di terrorismo, in una società caratterizzata dall’ hic et nunc, in quella fase che l’autore definisce “Estremistan”, è di fondamentale importanza la funzione rigeneratrice dei cosiddetti visionari che, se da una parte distruggono intere tradizioni, dall’altra si fanno portatori di nuovi valori e di nuove prospettive. In questo contesto la grandezza dell’opera di Demna Gvasalia sta nel saper leggere e interpretare il presente, nel coglierne l’immediatezza; per questo, come egli stesso ha affermato, parte dall’osservazione della strada con lo “ scopo di creare abiti che la gente voglia indossare”.Trovo straordinaria la sua capacità di individuare l’elemento straordinario nell’ordinario e di tirar fuori il senso nascosto che si cela in un oggetto che appare ordinario. Sono d’accordo con l’idea proposta dall’autore dell’articolo che Gvasalia re-visioni l’oggetto e ne trasfiguri le forme, senza tradirne, dal mio punto di vista, l’autenticità profonda. E se egli lo definisce “profeta del reale della moda”, e di quella moda senza l’orientamento verso il futuro, tutta improntata sul presente Gvasalia è oggi il profeta più acclamato, evidentemente è proprio per la sua capacità di essere attento osservatore del suo tempo.

    Rispondi
  33. Beatrice P   9 Ottobre 2017 at 21:20

    Ho trovato l’articolo molto interessante, soprattutto il personaggio di Demna Gvasalia.
    E’ strutturato molto bene con accenni a vari artisti nel mondo della moda per poi a seguire con opinioni di saggisti/autori e caratteri generali di questo mondo.
    A parer mio è molto difficile alla prima lettura per la presenza di alcuni termini più alti.
    In complesso molto appassionante e una lettura stimolante.

    Rispondi
  34. Karina S.   9 Ottobre 2017 at 21:59

    Personalmente ho trovato questo articolo molto interessante, sebbene di non facile lettura.
    Mi trovo d’accordo con l’autore, in quanto ritengo che i visionari abbiano un ruolo molto importante nel mondo in cui viviamo, ovvero in “Estremistan”, dove niente è calcolabile, dove c’è carenza di valori e certezze, e il quale è impregnato dal web, che porta ad accelerare i processi e quindi a un cambiamento continuo. E sono proprio quelli artisti, definiti dall’autore “visionari”, ad aver identificato prima degli altri il disequilibrio instauratosi nella società, al quale hanno risposto rinnovando il pensiero che l’individuo ha dell’abito.
    Credo che Demna Gvasalia appartenga a questo gruppo di artisti per il suo essere così innovativo, vuole essere diverso, rompe gli schemi, l’imperfezione (come per esempio il bottone sulla spalla) scompone le idee di ordine e di eleganza che le maisons di haute couture cercano di trasmettere tramite le loro collezioni.
    Infine ritengo che proprio il suo modo di approcciarsi al mondo della moda, stravolgendo i canoni, lo renda uno degli stilisti di grande visibilità.

    Rispondi
  35. Lamberto Cantoni
    Lamberto Cantoni   10 Ottobre 2017 at 10:28

    Per Irene, Beatrice, Karina: avete ragione, nel testo ci sono parole difficili, ragionamenti complicati, frasi articolate. Non ho scuse. Non dobbiamo mai sottovalutare quanto sia difficile trovare la via della chiarezza, della leggerezza e, se volete, della semplicità ( a patto però di preservare la consistenza cognitiva e critica). Tuttavia dovete tener conto che volevo evitare ciò che chiamo giornalistese, utilissimo in altri contesti, ma deludente in una rubrica che ambisce a preservare l’esistenza di una critica e di teorie della moda.
    Ecco perché intenzionalmente mi appello a lettori di secondo livello (e non a lettori empirici che giustamente pretendono, soprattutto nel web, testi anoressici, parole semplici, frasi intuitive), motivati a trovare nei fatti moda livelli di senso o tentivi di spiegazione a mio avviso più in linea con i reali effetti prodotti dalla moda sulla nostra cultura (e forse sulle nostre vite). Cosa ci guadagnamo a fare uno sforzo per diventare lettori di secondo livello? Maggiore consapevolezza sui poteri della moda, maggiore comprensione dei trucchi che usa per assorbirci nei suoi giochi, e forse, l’uscita dalle parole o ragionamenti lineari (cioè da quelle che sono divenute delle abitudini) ci lascia l’illusione di sentirci un po’ più liberi quindi in parte responsabili.
    Ritornando a vostri commenti, mi consola il fatto che abbiate tutte e tre colto aspetti essenziali del testo e vi siate espresse con ammirevole chiarezza.

    Rispondi
  36. Sofia P.   10 Ottobre 2017 at 11:31

    Innanzitutto vorrei mettere in luce la difficoltà con cui ho affrontato la lettura dell’articolo (forse risulterà scontato da dire per chi si approccia a questo mondo con “un occhio diverso” da poco più di una settimana, ma lo ritengo comunque necessario per la scrittura di un commento sincero). Ho trovato poco sintetica e mirata la stesura; ricchissima di riferimenti e digressioni che, devo essere sincera, mi hanno dirottato.
    Per quanto riguarda il contenuto ritengo molto interessante la metodologia (se così si può definire) con cui Demna Gvasalia si approccia al reale: va oltre l’ordinario, partendo da oggetti moda che si collocano proprio in questo mondo e intravede significati nascosti, ai quali dà sfogo attraverso deformazioni delle figure; coglie perfettamente il disequilibrio che caratterizza la società odierna.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   10 Ottobre 2017 at 12:38

      Vedi Sofia, oltre alle digressioni esistono le contestualizzazioni. Ho interpretato Gvasalia come un sintomo che la moda aveva cambiato paradigma. Cosa significa? Mettiamola giù così: osservando le forme degli abiti dello stilista, le sue sfilate, fuori dal clamore che avevano provocato, poteva evidenziarsi uno scarto, una deviazione dai processi di modazione ordinari. Perché? Come mai ha avuto tanto successo? Con quali conseguenze? Attenzione, cerca di capirmi, non ti sto dicendo che i rilievi che hai fatto sono sbagliati. Sto tentando di trasmetterti il concetto che non trovavo attraente sbarazzarmi di Gvasalia assorbendo le narrazioni che lo hanno prontamente mitizzato. Forse non ci sono riuscito. Ma questo non ti ha impedito, se ho ben letto il tuo commento, di collocarti su di un versante molto interessante per osservarlo da un punto di vista assolutamente non banale.

      Rispondi
  37. Sara P   10 Ottobre 2017 at 11:38

    Ho trovato l’articolo di difficile lettura e comprensione, anche se molto stimolante e ricco di informazioni. Interessante la descrizione dei nuovi artisti definiti “visionari”, che stanno scardinando quelli che sembravano, nel mondo della moda, dei codici. Tra questi viene giustamente inserito Demma Gvasalia, che riesce a trovare nell’ordinario lo straordinario. Mi trovo inoltre d’accordo nell’affermare che oggi ci troviamo in Estremistan, un mondo caratterizzato da uno stressante disequilibrio, dove il conflitto tra i valori permette al visionario di distruggere tradizioni e presentarsi con nuovi valori.

    Rispondi
  38. Letizia P   10 Ottobre 2017 at 11:52

    Ritengo che l’articolo sia molto complesso, ma al tempo stesso presenta in modo chiaro la moda che viviamo ai giorni nostri. Siamo immersi in un mondo in crisi economica e morale, altamente mutabile e privo di valori, globalizzato e “virtuale”, tale da essere definito dall’autore ” Estremistan”. In tutto questo i Visionari hanno la capacità, la genialità e l’empatia di rappresentare perfettamente tale mondo, qualità che li hanno trasferiti dai bordi al centro della moda.
    Uno dei massimi esponenti è Demna Gvasalia, il quale è riuscito a creare un proprio spazio nella moda, essere nominato anche art director di Balenciaga grazie alla sua capacità di rappresentare, attraverso i suoi abiti, il presente senza guardare nè al passato nè al futuro e senza tradire la sua visione e la sua personalità. Le immagini scelte dall’autore mostrano e aiutano a capire esattamente lo stile di Demna Gvasalia. Ritengo che i Visionari siano persone “geniali” e non comuni in quanto hanno l’abilità nel psicoanalizzare il tempo e essere precursori di un cambiamento del gusto.

    Rispondi
  39. Elisabetta P.   10 Ottobre 2017 at 12:26

    Inizio con il dire che ho trovato particolarmente difficile la comprensione di alcuni concetti forse a causa delle basse conoscenze rispetto ad alcuni argomenti. Penso che la bravura di Gvasalia sia proprio quella di riuscire a rompere gli schemi del tradizionalismo con le sue creazioni cosi particolari ma allo stesso tempo molto apprezzate. La sua bravura è sicuramente incrementata anche dall’essere un visionario, cosa molto complessa e difficile; riesce a capire quello che piace prima di tutti gli altri senza farsi influenzare dal web che al giorno d’oggi condiziona la maggior parte della popolazione.

    Rispondi
  40. ChiaraM P   10 Ottobre 2017 at 18:01

    Reputo l’articolo molto interessante e stimolante ma al tempo stesso complesso ed articolato, per questo non ho avuto un’immediata comprensione.
    In un mondo moda un pò stilizzato, spicca per fortuna Demna Gvasalia con le sue linee e forme oggettivamente trasfigurate, esagerate ed abbondanti ma perlomeno ben identificabili. Inoltre credo che rappresenti uno dei primi compiti della moda; raccontare con un capo il momento presente, rispecchiandolo in ogni suo aspetto e allo stesso tempo saper cogliere con istantaneità, l’aspetto straordinario dell’ordinario. Oggi Gvasalia è una guida nello scenario moderno, promuovendo una bellezza quasi grottesca come ribellione all’estetica tradizionale. Per questo mi trovo d’accordo con l’autore nell’affermare lo stilista un visionario, perché in pochi anni ha cambiato il modo di concepire la moda.

    Rispondi
  41. Melissa P.   10 Ottobre 2017 at 19:22

    È forse, oggi più che mai, essere anti-moda la moda stessa? Questa è la domanda che aleggia tra le mie riflessioni con insistenza.
    Aderire a sovrastrutture ideali (conformarsi ad una comune visione del mondo, della moda e non) sembra essere la chiave per l’eterna felicità. Paradossalmente però, quando ci troviamo in fila come soldati, vestiti e pensanti allo stesso modo, è l’originalità a colpire la nostra attenzione con violenza. Ciò che è “diverso” e “sconosciuto” attirerà sempre l’interesse umano, data la sua intima propensione al dominio e alla conoscenza universale.
    Partendo da tali premesse, credo sia proprio questa la grande forza di Demna Gvasalia; dare importanza al presente, alla massa, alla strada, arricchendo l’oggetto creato di nuovi significati, il più delle volte abominevoli in quanto spiazzanti.

    Rispondi
  42. Ilaria P.   10 Ottobre 2017 at 21:40

    A mio avviso questo articolo è molto interessante ma piuttosto difficile da interpretare , probabilmente perchè ancora mi reputo ” inesperta ” su molti argomenti , è molto complesso , con descrizione ben dettagliate e interessante è il fatto di considerare alcuni artisti dei visionari .

    Rispondi
  43. Margherita P.   10 Ottobre 2017 at 22:36

    Demna Gvasalia è attualmente uno dei più grandi visionari che vi sono nel modo della moda. Lo stilista è stato in grado di cogliere, prima degli altri, i cambiamenti della società in cui vive trasferendoli in modo semplice ed immediato nei suoi abiti. Le sue creazioni vanno oltre l’abito stesso, colpiscono la sensibilità di chi li osserva perché recepiscono tutti gli aspetti della nostra società: le sue contraddizioni, paure e aspirazioni. Gvasalia, a differenza di molti stilisti, non si limita a considerare la moda come strumento che segue solo logiche di mercato, il suo concetto di moda è più profondo, infatti, considera i suoi abiti come un modo di far trasparire la sua interiorità e il suo essere. L’abito, per lo stilista georgiano, è l’espressione e estensione verso il mondo esterno di noi stessi, del nostro spirito, della nostre emozioni e per questo motivo deve essere lontano dalle falsità e ipocrisia di cui il nostro mondo è purtroppo spesso intriso. Queste sono le ragioni per le quali lo stilista è diventato punto di riferimento e ispirazione per molti stilisti che vogliono uscire dai canoni tradizionali della moda.

    Rispondi
  44. Lucrezia P.   10 Ottobre 2017 at 22:47

    Il testo spazia molto e si muove con destrezza nei dintorni dell’argomento centrale.
    Con maestria vengono affrontati temi che riguardano il giudizio estetico di terzi, volto al malparlare, le influenze intese sia come correnti provenienti da lontano sia come mezzi di cambiamento di pensiero, le apparenze che riescono a definire non solo il pezzo-moda ma anche i valori che gli vengono automaticamente attribuiti.
    Mi sono poi soffermata a ragionare su un concetto: si dice che la moda è caratterizzata da una dualità irriducibile, rituale elitario e narrazione collettiva, allora mi chiedo se la moda può essere solo narrata ed assimilata passivamente nei “più”, oppure se sono proprio quei “più”, a stravolgere un ciclo e a fare della moda il proprio rituale.
    Successivamente mi sono trovata contraria al pensiero di Wilcox: se per lui la visionarietà è solo un fattore innato, un sesto senso, mentre per me è una dote che si acquisisce e si fatica, con studio e dedizione.
    Inoltre ho trovato contraddittorio che parlando del valore dei rivoluzionari sopracitati, se attribuisca la provenienza alla loro compatibilità con la società. Non è forse la loro filosofia il differenziarsi dal restante della società, uscendo dagli schemi e andare controcorrente?
    Ho adorato la fusione di opposti che caratterizza l’intera trattazione e questo stilista particolarmente: l’innovatore per eccellenza ha pur ripreso dei canoni estetici usati già dagli anni ’80, e l’autore di capolavori stilistici che hanno fatturato cifre enormi, ha prodotto tuttavia capi “basati sull’abbruttimento del corpo” e dalla “mostruosità” di alcuni dettagli.

    Rispondi
  45. Belinda P.   10 Ottobre 2017 at 22:55

    Ho trovato l’articolo abbastanza difficile nella lettura ,non avendo ancora le basi giuste per poter comprendere articoli di un certo calibro. Allo stesso tempo però trovo l’articolo molto interessante ; si denota che Gvasalia è riuscito a distinguersi e a creare qualcosa di realmente originale uscendo dalle tradizioni. Sicuramente questo è denominato dal fatto che Demma Gvasalia sia inserito nella descrizione dei nuovi artisti visionari che riescono a demolire i dettami della moda.
    Sono d’accordo nel dire che oggi ci troviamo in “Estremistan” dove il visionario si esibisce come profeta di nuovi valori che possono portare a decisivi cambiamenti.

    Rispondi
  46. Antonio P   10 Ottobre 2017 at 23:00

    Un articolo complesso ma al tempo stesso interessante e ricco di contenuti così come Gvasalia , stilista che è stato in grado di promuovere una propria visione e trasformare completamente il rapporto che vi era tra abito e corpo. I suoi abiti sembrano trasfigurare quella che è la figura umana , non presentando alcuna differenza tra maschi e femmine. L’autore è stato in grado di riproporre quelli che sono i tratti che caratterizzano Gvasalia , il suo modo di pensare e creare, mettendone in rilievo la sua unicità.

    Rispondi
  47. Ginevra P   10 Ottobre 2017 at 23:25

    Non ho avuto una comprensione immediata dell’articolo poiché l’ho trovato molto apostrofato e complesso. Approfondendo la figura di Demna Gvasalia, in particolare della sua visione del
    mondo, mi sono interrogata su una questione.
    Sia Gvasalia che Kawakubo sono esempi di stilisti e artisti che “di fronte” ad un conformismo nel mondo del fashion si sono ribellati lanciando un appello totalmente contrastante e una “proposta” di una realtà estremamente diversa.
    Come ho espresso ammirazione per l’artista Kawakubo nei confronti del sentito coraggio nel dimostrare le proprie idee ostili al reale, esprimo altrettanta ammirazione per Gvsalia per aver avuto la stessa determinazione e lo stesso spirito.
    Tenendo conto di questo attributo qualitativo però mi chiedo se il medesimo, non sia un atteggiamento di estremizzazione, ovvero; la moda in realtà è assumere un’ opposizione al conformismo del momento? oppure il riuscire a cogliere gli aspetti più veri della quotidianità che, stiamo involontariamente vivendo?.
    Contrapporsi creando una “risposta” così violenta e diretta (in questo identificabile con la creazione di un nuovo modo di vestirsi o volersi mostrare) non è altrettanto sbagliato?;
    non è anch’esso un eccesso e una classificazione?
    Purtroppo non ho sufficienti informazioni al momento per dare risposta a queste domande ma sicuramente questo articolo, mi è stato utile, per sapere da dove iniziare a trovare il modo, di comprendere, questo grande universo chiamato -moda-.

    Rispondi
  48. Elisabetta P   11 Ottobre 2017 at 00:14

    Premetto che ho avuto difficoltà a capire inizialmente il testo ma non esclude il fatto che ho trovato l’articolo molto interessante e pieno di significati e lessico complesso.
    All’interno dell’articolo viene parlato di Demna Gvasalia, il quale è considerato un visonario. Grazie alla sua abilità a creare abiti non guardando il passato, è riuscito a mantenere la sua idea senza essere condizionionato da nessuno. Riesce a creare un abito guardando solamente il presente e attraverso esso riesce a cogliere tutti gli aspetti essenziali e a trovare l’aspetto straordinario nell’ordinario. Gvasalia vuole essere diverso e ci riesce attraverso i sui abiti.
    È riuscito a dare un volto nuovo alla moda sopratutto perché ha prosposto la bellezza grottesca come una ribellione alla tradizionalità.

    Rispondi
  49. Greta P   11 Ottobre 2017 at 00:47

    Non posso far finta che sia stata semplice la lettura di questo articolo, ma come la maggior parte delle cose difficili l’ho trovato anche stimolante.
    Sono piacevolmente d’accordo con l’autore sul concetto dei visionari, a mio parere avrei aggiunto altre figure antecedenti a quelle citate che hanno anch’esse cambiato il modo di percepire la moda.
    Inoltre a me il dialogo dei visionari è molto caro, per esprime questa ammirazione verso di essi userei una citazione di Steve Jobs fatta durante la campagna pubblicitaria ” think different ” : “Potete citarli, essere in disaccordo con loro, potete glorificarli o denigrarli, ma l’unica cosa che non potete fare è ignorarli, perchè riesco a cambiare le cose, perché fanno progredire l’umanità. E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio. Perché sono coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero”.
    Trovo affascinante la presenza di queste figure visionarie in ogni epica e mi rende ottimista pensare che ve ne saranno anche in futuro.

    Rispondi
  50. Margherita P.   11 Ottobre 2017 at 09:30

    Demna Gvasalia è attualmente uno dei più grandi visionari che vi sono nel modo della moda. Lo stilista è stato in grado di cogliere, prima degli altri, i cambiamenti della società in cui vive trasferendoli in modo semplice ed immediato nei suoi abiti. Le sue creazioni vanno oltre l’abito stesso, colpiscono la sensibilità di chi li osserva perché recepiscono tutti gli aspetti della nostra società: le sue contraddizioni, paure e aspirazioni. Gvasalia, a differenza di molti stilisti, non si limita a considerare la moda come strumento che segue solo logiche di mercato, il suo concetto di moda è più profondo, infatti, considera i suoi abiti come un modo di far trasparire la sua interiorità e il suo essere. L’abito, per lo stilista georgiano, è l’espressione e estensione verso il mondo esterno di noi stessi, del nostro spirito, della nostre emozioni e per questo motivo deve essere lontano dalle falsità e ipocrisia di cui il nostro mondo è purtroppo spesso intriso. Queste sono le ragioni per le quali lo stilista è diventato punto di riferimento e ispirazione per molti stilisti che vogliono uscire dai canoni tradizionali della moda.

    Rispondi
  51. Alyssa P.   11 Ottobre 2017 at 10:07

    Siamo in un era fatta di remake ossia di riproposizione di cose che sono già fatte o viste, tranne che per la moda in quanto sembra non avere uno scatto evolutivo ma resta legata alle origini, alle caratteristiche iniziali. Quindi,si può dire che un personaggio com’è Gvasalia, determinatissimo, ci voleva!
    A mio parere lui non distrugge il passato del tutto, si rompe delle tradizioni ma le fa sue e le porta avanti nel suo “modo”, facendo appunto emergere nuovi valori.

    Rispondi
  52. Almida P   23 Ottobre 2017 at 22:00

    Questo articolo è molto interessante ma piuttosto difficile da interpretare. Oggi uno dei nomi più interessanti della moda con base nel decimo arrondissement di Parigi.L’elemento più sconcertante della sua epifania è il non affermare nessuna avanguardia stilistica, ma rimettere in circolo un’estetica repellente, facendola diventare fenomeno. Di lui non possiamo non amare l’azzardo, lo spirito radicale, il coraggio di essere indipendente in un mercato furios..

    Rispondi
  53. Karim.P   23 Novembre 2017 at 21:54

    Lo stilista è direttore artistico del brand francese, nonché direttore creativo di Balenciaga dopo il passaggio da Alexander Wang. I due ambienti di lavoro non potrebbero essere più diversi quando si parla di atmosfera, ma Gvasalia spera di cambiarlo in modo che entrambi possano essere audaci con il loro approccio all’abbigliamento. Demna Gvasalia ha paragonato la brutalità e la natura schietta di Vetements al Parlamento perchè tutti sono molto espliciti e non hanno paura di condividere la loro opinione in modo anche molto brutale. Gvasalia con la sua visione artistica ha rivoluzionato e continuerà a rivoluzionare l’approccio verso la moda, proponendo uno stile unico e mai pensato prima che si adegua esattamente alle preferenze degli appassionati di moda.

    Rispondi
  54. Sara P.   18 Febbraio 2018 at 22:17

    Ho trovato molto interessante l’articolo poiché l’autore è riuscito a soddisfare ogni domanda che mi venisse in mente. Sono pienamente d’accordo per quanto riguarda il ruolo che i designers hanno nella società di oggi, in particolare Demna Gvasalia. Premetto che non voglio assolutamente dire che ammiro la sua arte o che sia bella perché credo che il concetto di bellezza sia soggettivo, ma mi baso su un opinione generale data sulle sue creazioni. Si dice che a verità e la libertà che trasmette nelle sue collezioni lo hanno reso un’icona della moda; ma, chi ci dà la certezza di cosa sia vero o fasullo? Non metto in dubbio che sia innovativo ma non ho la certezza che la sua arte rispecchi il concetto di bello o reale. 
    La sua capacità di stupire e  di “avvistare nell’ordinario lo straordinario” lo hanno reso più unico che mai. Non ha avuto bisogno di rifarsi al passato per dare vita alle sue creazioni, anzi lo ha distrutto (non in senso negativo) per dare spazio al nuovo.
    Viene considerato fuori dal normale per la sua capacità di non rifarsi agli stereotipi femminili e maschili, i materiali che utilizza e i modelli sulle passerella che non rispecchiano l’immagine che la società ha di loro.
    Sono questi i fattori che lo rendono diverso dai suoi precedenti. Lui non è succube della società, anzi stravolge gli stereotipi che si sono creati fino al suo arrivo.
    Le sue creazione sono state interpretate come fonte d’ispirazione per una società disorientata, come quella del ventunesimo secolo; quindi, reputo che il mondo della moda oggi non sia altro in Estremistan. È questo il ruolo della moda: un processo di cambiamento che si trasforma con il mutare della società.

    Rispondi

Leave a Reply

Your email address will not be published.