Fiera off, SetUp 2017: elogio dell’osare

BOLOGNA – Si è conclusa recentemente la Fiera off dedicata agli artisti emergenti. SetUp sta diventando grande e le idee di Simona Gavioli e Alice Zannoni vanno a completare un discorso sull’arte che ArteFiera di Bologna (per ora) non è in grado di articolare con autenticità ed efficacia.

 

BOLOGNA – In una società che ha trasformato l’instabilità, il disequilibrio, la rottura dei codici, in elementi dinamici di un mutamento che pur sfruttandolo non riconosce più il valore del passato e non propone visioni condivise del futuro, come devono reagire le singolarità creative che nobilitiamo definendole “artisti”? Da questa domanda discendono a cascata le idee utilizzate da Simona Gavioli e Alice Zannoni, per dare una svolta decisiva a SetUp, la s/fiera d’arte nata qualche anno fa, per occupare spazi temporaneamente lasciati liberi da ArteFiera, l’importante manifestazione nel frattempo arroccatasi su posizioni pragmatiche, probabilmente funzionali ad intercettare ciò che resta del tradizionale mercato dell’arte, ma di certo incapace di restituirci il moto convulso e contraddittorio dell’orientamento artistico contemporaneo.

SETUPLe curatrici hanno voluto sintetizzare in una narrazione filosofica le linee guida del loro evento sempre più simile ad una posse artistica che a una manifestazione fieristica, chiamando sulla scena le parole di Kierkegaard: “Osare è perdere momentaneamente l’equilibrio, non osare è perdere se stessi”. In un mondo estremo dove la normalità è la rottura degli equilibri osare significa mettere in processo il concetto stesso di instabilità, reinterpretandolo nei termini di ordine emergente. In questa prospettiva l’atto artistico si trova di fronte a responsabilità inedite. La fase di rottura è solo il momentum in cui la forma artistica incorpora le pulsioni del nostro tempo, per poi  evolvere verso configurazioni caratterizzate da un equilibrio fluttuante (in parole più semplici, in questa prospettiva l’atto artistico esemplare presenta sempre elementi che portano oltre alle tracce di un reale problematico, la promessa o l’illusione di nuove possibilità). Questa dis-mensione dell’oggetto artistico (il dis indica malformazione, anomalia, alterazione) può dunque avere, pur presentandosi come affermazione di una istanza negativa o critica, una valenza etica e quindi proporsi come ordine emergente. L’idea suggerita dalla citazione di Kierkegaard è che, a questo punto, l’atto artistico in processo non sia solo rottura ma suggerisca anche nuovi equilibri. In parole povere, sembrano teorizzare Simona e Alice, la vera avanguardia oggi, non può più autoincensarsi con rotture e trasgressioni oramai parte del motore dell’arte convenzionale, ma deve saper proporre differenze portatrici di nuovi equilibri (quindi fatalmente agganciate a problemi/passioni riconducibili alla sociazione e all’eco-nomia).

Se ho ben interpretato il pensiero delle curatrici, allora, credo abbia senso parlare di svolta per SetUp. A questo punto persino il concetto di fiera off risulterebbe inefficace per descriverne le ambizioni.

A tal riguardo, sopra ho suggerito l’espressione posse artistica, immaginando che come nella musica, le autrici puntassero ad un evento s/fieristico nel quale tutti gli artisti, nuovi galleristi, curatori, e pubblico agissero come se il momento del con-tatto con l’arte fosse assolutamente dominante rispetto le funzioni e opportunità offerte dalle normali fiere. Fare del con-tatto con l’oggetto artistico una seconda pelle significa trasformare il momentaneo disequilibrio, in un’esperienza sburocratizzata e aperta alle differenze. Significa, aggiungerei, accettare l’esistenza di molti contemporanei, in relazione ai quali, il problema primario (per una posse artistica) non è rinchiuderli in figure date (e marketizzate) ma di preservarne l’eterogeneità.

Quanto di tutto ciò che hanno teorizzato le due curatrici, sempre che accettiate la mia ri-costruzione concettuale, è veramente successo a SetUp? Guardate, non voglio tirarla per le lunghe, dunque la metterei giù così:  i molti che hanno visitato la s-fiera, bastava conversare con qualcuno a caso per farsene l’idea, hanno fatto esperienza gioiosa di un eterogeneo mondo di oggetti, declinato al femminile ovvero dedicato a ricucire l’effetto traumatico delle molte contemporaneità esibite, con la stoffa emozionale dei soggetti. Per esempio, ho visto tantissime persone parlare con artisti e giovani  galleristi…Devo confessarvi che di solito in questo tipo di eventi mi muovo da perfetto flaneur un po’ stronzo, cioè mi faccio i cazzi miei e passeggio finché non trovo qualcosa che mi sorprende evitando come la peste le concentrazioni di pubblico. A SetUp invece ho provato piacere ad osservare come la gente si accostava alle opere, prima con una punta di timidezza, ma poi con un dis-interesse mischiato ad una curiosità che mi sembrava una irriverenza molto salutare. Credo di aver capito la sostanziale inutilità della domanda: ma cosa cazzo avranno capito di quella o quell’altra opera? …dal momento che era l’emozione del trauma ad essere il vero messaggio, nella misura in cui trasformava le nostre identità oramai fatte a pezzi, in un gioco di storte identificazioni capaci di restituirci il ludico ma non insensato godimento di essere per un momento in sintonia con l’impossibile del reale.

Comunque, per non essere frainteso, aggiungo che l’edizione di SetUp appena conclusa è stata la più ricca di proposte artistiche e culturali di sempre. L’innalzamento della qualità media delle opere esposte è stata notevole. Il programma culturale poteva essere più divertente ma, mi è stato detto, è risultato gradito al pubblico. Qualcuno dovrebbe riflettere sul fatto che il mood di SetUp ha avuto una energia molto più significativa della fredda e troppo ordinata esibizione di opere in ArteFiera. Tuttavia per le due appassionate curatrici si annunciano problemi seri sui quali dovranno riflettere a lungo e prendere decisioni non prive di rischi. Lo spazio o il non luogo della stazione autocorriere è a mio avviso parte integrante del successo della manifestazione. Ma mi è parso però anche vicino alla saturazione (quest’anno gli espositori sono quasi raddoppiati). Per giunta si dice in giro che non risulterà più disponibile. Per come è fatta Bologna, sarà un problema di non facile soluzione.

Non voglio terminare senza citare almeno un opera. Mi ha divertito molto una istallazione creata da un collettivo (Panem Et Circenses) di cattivissime ragazze, dedicata alla Bologna soporifera e a rischio di obesità intellettuale che purtroppo ha potere e risorse per sovrastare le altre Bologna che soffrono (per esempio la Bologna dei giovani artisti). L’opera/istallazione è un banale neon come se ne dovevano vedere tanti tra i cinquanta e sessanta del novecento, con il lettering sarraffone e in pink maialino hollywoodiano, che riporta la frase: Bologna City of Food Porn. Una genialata e un bel calcio nel culo che Elisabetta Scigliano, la curatrice, infligge ai noiosi teorici del Fico e alle loro pretese di trasformare Bologna in una enorme mangiatoia. La stucchevole, civettuola volgarità del rosa da bambine ritardate è indovinatissima, la semantica del messaggio devastante. Un buon esempio di come l’arte può, esagerando certo, divertirci facendoci crescere. Tuttavia se incontrassi per strada Elisabetta e le sue circensi amiche, cambierei senz’altro direzione. Non mi sono sembrate del tutto a posto.

SETUP
Simona Gavioli e Alice Zannoni, Silvia Evangelisti e Diego Bergamaschi – SetUp 2017

SETUP 43

    

Lamberto Cantoni
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