Gli Epicentri di Prada

Sono passati quindici anni da quando furono progettati gli Epicentri di Prada. Probabilmente la crisi ha ridimensionato la loro importanza strategica, limitandone il numero; ma l'arco di tempo trascorso fino ad oggi ne ha confermato l'impatto sul modo di riflettere e affrontare il cambio di mentalità dei consumatori evoluti.

Gli Epicentri di Prada

I grandi brand della moda e le archistar

1. Durante l’ultima decade del novecento, le relazioni tra stilisti/manager e architetti divennero uno degli aspetti più affascinanti delle strategie d’immagine delle grandi marche. Tra il 1999 e il 2007 vennero progettate e realizzate le più ambiziose, complesse, costose strutture mai costruite sino a quel momento dalle marche delle moda. Ricordo bene lo sbigottimento e il piacere visivo trasmesso dalle immagini di edifici fortemente individualizzati, divulgate in tutto il mondo a partire da spettacolari inaugurazioni che si susseguivano continuamente, come se nelle strade più importanti delle città dello shopping internazionale, fosse in corso una sorta di guerra simbolica combattuta a colpi di architettura. Edifici straordinari, allestimenti innovativi, strutture avveniristiche lasciavano immaginare novità sostanziali per quanto riguarda la visione del business della moda. Non stupiva tanto il rapporto tra stilisti/marche di immensa notorietà e architetti divenuti vere e proprie star culturali. Destava piuttosto meraviglia la trasformazione della boutique, da sofisticato luogo di vendita e rappresentazione della marca a forma di cultura capace di rivaleggiare con valori dalle significazioni apparentemente lontane dal concetto portante della moda. I ritmi dei prodotti del fashion system infatti, sono fatalmente accelerati rispetto al bisogno di “durata” degli edifici. Durante gli anni ottanta/novanta del novecento, il ritmo dei mutamenti dalla moda era divenuto sempre più veloce (non è un caso se all’alba del terzo millennio si cominciò a prendere sul serio il cosiddetto fast fashion); mentre le regole dell’abitare, pur sconvolte dal post-modernismo, dal decostruttivismo, sembravano evolvere con una maggiore e rassicurante lentezza. Tuttavia i concetti e i modi di pensiero portanti, di moda e architettura stavano cambiando, rendendo suggestivo lo scambio di prestazioni tra stilisti e architetti. Vi proporrò il mio punto di vista su questa nuova alleanza alla conclusione dell’articolo. Nel frattempo eccovi un breve elenco delle strutture che, in quei giorni, attirarono la mia attenzione: Il palazzo di Hermes a Tokyo realizzato tra 1998 e il 2001 da Renzo Piano; sempre nella capitale nipponica fece scalpore il flagshipstore di Vuitton progettato da Jun Aoki (2002/03); LVMH per Dior ne commissionò due, per il primo coinvolse Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa (2001/03), il secondo fu realizzato da Kumiko Inui (2003/04); Chanel fece progettare il proprio flagship store da Peter Marino mentre Tod’s si rivolse a Toyo Ho (2002/04) e lo stile Armani fu interpretato con rigore da Massimiliano e Doriana Fuksas (2005/07). Tutti questi edifici furono realizzati a Tokyo. Più o meno negli stessi anni apparvero a New York i flag di McQueen creato da William Russell, Issey Miyake Tribeca progettato da Gehry e Gordon Kipping. A Parigi generò interesse il restyling di P.Starck alla boutique più importante di J.P. Gaultier. Era chiaro che, il punto vendita, stava trasformandosi attraverso sintesi aggiuntive, nel dispositivo di comunicazione/relazione più potente a disposizione delle marche della moda, per dialogare da una posizione favorevole con clienti stimati come profondamente diversi dal passato; i volumi dei principali negozi, non solo aumentavano in metratura e complessità, ma sembravano invitare i fruitori a relazionarsi con le superfici degli spazi attraverso una modalità che metteva in gioco l’esperienza estesica, sinestesica, ovvero un campo di significazioni scaturite dal con-tatto tra la pelle del negozio e quella del consumatore. La forma esterna dei flagshipstore eccitava gli sguardi come quando assistiamo ad uno spettacolo ed evocavano suggestive immagini del potere delle marche. Per contro, le superfici interne contenute nel grandi volumi, sembravano voler oltrepassare la barriera dell’immagine mettendo a contatto i clienti con una spazialità tangibile, relazionale.

2. Al lettore attento non sarà sfuggito il fatto che, dall’elenco di flagshipstore proposto sopra, manchino riferimenti a strutture create nel nostro Paese. L’imponente palazzo di Armani in via Manzoni 31 a Milano, per fare un esempio, col quale il grande stilista raccontava il suo “mondo possibile”, era ammirevole per come rispettava il contesto originario e per la coerenza del suo design interno; ma era un edificio che dal punto di vista logico non poteva essere paragonato a quelli che ho elencato. Forse, per difendere il prestigio di Milano, avrei dovuto ricordare la boutique/head quarter di Dolce & Gabbana progettata da D.Chipperfield. Tuttavia, il discorso non sarebbe cambiato di molto. L’architettura d’avanguardia non è mai riuscita a dialogare in modo fecondo con le nostre città, senza perdersi in deludenti polemiche e scontate resistenze. In compenso però, nel mondo, i progetti più avveniristici e importanti dal punto di vista progettuale, cognitivo, estetico, parlavano un po’ nostra lingua, dal momento che videro tra i protagonisti alcune nostre archistars e soprattutto Prada, assoluta protagonista del paradigma architettonico/ urbanistico al quale vi ho brevemente introdotto. Infatti, nella sintetica presentazione delle strutture a mio avviso più significative nell’arco di tempo considerato, ho tenuto per ultimi i celeberrimi Epicentri progettati per la celebre marca da Koolhaas e De Meuron, non solo perché sono l’oggetto centrale del mio articolo, ma soprattutto in vista del fatto che rappresentano, a mio avviso, il tentativo più audace di integrare l’avanguardia architettonica con la consapevolezza della moda di essere oggi, non più solo business, esasperato marketing, epifenomeno del sociale, ma bensì punto di riferimento culturale per la forma di vita e dispositivo di induzione passionale in grado di accelerare/decelerare i ritmi e le intensità delle esperienze estetiche/estesiche, attraverso un gioco di percezioni e significazioni non lineari, attive a livello del corpo senziente dei clienti. Attraverso le innovazioni architettoniche che ho citato, ma soprattutto con gli Epicentri di Prada, la moda, ha moltiplicato le istanze relazionali con il consumatore, riuscendo però, grazie a strutture/simulacro, a fondere la deriva con-fusionale e multisensoriale dell’immediatezza dei contenuti percettivi con la creazione di sentimenti di consistente “durata”. Una moda dunque creatrice e catalizzatrice di fenomeni di socialità che definirei “aggregazioni temporanee molecolari” (oppure, se volete, per dirla con Michel Maffesoli, esperienze emozionali di neo tribalismo chic metropolitano), fatalmente segnate da un nomadismo soft degli acquisti (consumi trasversali), sottoposte tuttavia al lavoro solidificante del branding.

Prada a Aoyama
Prada a Aoyama

La dimensionalità dei nuovi spazi e la disseminazione dei contenuti percettivi

1. Verso la fine degli anni novanta, Prada cominciò a elaborare un progetto architettonico d’avanguardia per suggerire ai propri clienti nuove significazioni possibili dello shopping, con la speranza di trasmettere a essi la percezione di una marca contraddistinta dalla propensione verso una contemporaneità con i piedi nel futuro. Allo stesso tempo si immaginava che, un certo tipo di esperienza multisensoriale a dominante estetica, creata con l’introduzione di nuove tecnologie e dalla presenza simultanea di linguaggi che spaziavano dal cinema all’arte, potesse entrare in “dissolvenza incrociata” con la logica dello scambio merce-denaro, senza produrre sentimenti di incongruenza o contraddizione. In sintesi, il progetto cercava in qualche modo di comunicare al cliente che, i luoghi della moda, non erano solo preposti al commercio ma che potevano essere attraversati da contenuti eterogenei in grado di sviluppare un fascio di emozioni e di interessi fino a quel momento poco presenti nei punti vendita. Con gli Epicentri era chiaro il tentativo di far confluire in un contesto consumistico, eventi e forme sofisticate di cultura d’avanguardia. A questo punto, sarebbe stato il modante (definisco così il soggetto della moda previsto dalle strategie delle marche) ad attualizzare il fascio di valori compatibili con la sua esperienza del momento. Si poteva quindi prevedere che la modazione dal basso, ovvero la sequenza di atti di moda attualizzati da un soggetto, contaminata, deviata, straniata a mezzo di molteplici disseminazioni culturali, avrebbe interagito con le proposte moda della marca all’insegna di una spiccata personalizzazione dell’esperienza. Il progetto di Prada, promuoveva e interpretava in modo originale alcune idee nate a partire da riflessioni critiche relative ai comportamenti del consumatore nelle boutique, maturate nella prima metà di quella decade.
2. Vi sintetizzo brevemente la concatenazione di problemi, a mio avviso cruciale per comprendere i nuovi spazi di Prada, in questo termini: a. l’appello alla passionalità dell’acquisto promosso in tutti i modi dal fashion system stava rapidamente assuefacendo la clientela; b. Da un certo punto in poi i clienti evoluti, ormai alfabetizzati (e annoiati) dal pseudo linguaggio emozionale e multimediale della moda, sembravano resistere meglio del passato all’indottrinamento implicito nella comunicazione asimmetrica delle marche. Il fascio di emozioni reiterate sino alla nausea previste dalle strategie di quasi tutti i protagonisti, stavano rendendo tossica la semiosfera che circondava il prodotto moda. Espressioni come tendenza, stile di vita, lusso sottoposti ad un delirante abuso cominciavano ad apparire dispositivi simbolici vuoti, privi di significato. Era ormai evidente che non esisteva più da tempo un’idea di moda condivisa, capace di funzionare come un grande romanzo in grado di normalizzare i posizionamenti delle marche e le attese di senso del pubblico della moda; c. di conseguenza, ogni marca doveva combattere strenuamente per autolegittimarsi e per difendere lo spazio simbolico creato, colpo dopo colpo, con strategie multimediali spesso incoerenti, fatalmente destabilizzanti nei confronti dell’identità delle aziende; d. Occorrevano progetti per trasformare l’instabilità, l’irrequietezza emotiva del modante in sintesi passionali favorevoli alla marca; e. Era necessario creare uno spazio vereale ( verità + reale ), nel quale lo stile di una marca si compenetrasse con le disposizioni estetiche/estesiche dei modanti; f. La messa in scena dello spazio vereale, in quanto modo originale e specifico di organizzare il mondo sensibile di marca, avrebbe comunicato la visione o la filosofia del brand cioè la sua etica (insieme di valori proiettabili sul “mondo”); g. La messa in scena del mondo sensibile di marca, a questo punto, avrebbe prodotto la sintesi etica/estetica/estesica come espressione tangibile del nuovo lusso.

In breve, secondo Prada, l’estetica particolare della moda contemporanea (e forse non solo della moda) nasceva a livello dell’esperienza vissuta in prossimità ad altri. Come scrisse Michel Maffesoli in “Au creux des apparences” (Plon, 1990), lo stile dell’epoca post moderna, intrecciava la ricerca di un modo di essere (etica) in situazioni in cui poteva emergere un “sentire insieme” (estetica). La prossimità con gli altri garantiva scelte che potevano definirsi individuali ma emozionalmente sociali. Il grande sociologo sintetizzava questa idea con l’espressione “etica dell’estetica”. Gli Epicentri di Prada, così come molti altri Flag di grandi marche citati all’inizio, a mio avviso, rappresentarono il tentativo di presentare un lusso provvisto di un’etica (non tutto è commercio o vendita, ma nel punto vendita può nascere una esperienza di socialità) e di una estetica cioè di un modo di comunicare emozioni, sottoposte però alla coerenza di marca.

3. Verso la fine del novecento, per la moda era finito il tempo dell’innamoramento di se stessa nel quale, per mantenere e moltiplicare i consensi, era sufficiente rappresentarsi, magnificando la portata immaginaria delle collezioni. Nella fase storica classificata dal termine post-moderno, le grandi marche furono forzate ad affinare la performatività dei processi ovvero a privilegiare pertinenza ed efficacia a discapito delle abitudini, della storia o del buon gusto. Tutto ciò ebbe un impatto rivoluzionario sul modo di concepire i luoghi della moda, sull’idea di shopping e sull’interazione con i clienti. Prada interpretò da protagonista questa fase di transizione verso un nuovo modo di concepire la modazione nei suoi rapporti con gli spazi del business. Possiamo considerare la progettazione degli Epicentri come una sorta di punto di svolta, dal momento che, aggregate al loro progetto troviamo il meglio delle riflessioni sulla polisensorialità e della multidimensionalita delle esperienze; troviamo una risposta alle questioni inerenti la “liquidità” dei comportamenti del consumatore postmoderno; troviamo infine, un margine su cui riflettere per interpretare la risposta di Prada alla sfida dei valori estetici e etici con cui la moda ha dovuto misurarsi. Scegliendo Koolhaas e lo studio Herzog de Meuron, Miuccia Prada e Bertelli, si affidavano ad architetti geniali, aperti ad un dialogo/confronto con le avanguardie della moda. Il punto di partenza della loro riflessione coincideva con una critica serrata nei confronti degli spazi che fino a quel momento avevano rappresentato il modello di riferimento per tutte le marche. Se il cosiddetto concept store aveva da tempo mostrato i limiti del “monomarca ad una dimensione” tipico degli anni ottanta, i classici flagship store promossi dalle grandi holding del lusso, secondo l’opinione di Koolhaas, non rispondevano alle esigenze di Prada di promuovere forme di cultura capaci di trasformare il punto vendita in uno spazio “aperto” alla sperimentazione e al dialogo con i segni della contemporaneità. Non veniva rispettata la singolarità dell’esperienza del modante; e quindi nemmeno lo stile di vita tipico di Prada. Il geniale architetto/maitre á penser del progetto Epicentri, non vedeva nelle strutture attive sul mercato un modello che rispondesse alle esigenze di cambiamento del “cliente modello” previsto dalla particolare visione del brand. Infatti, malgrado gli uffici stampa delle grandi marche del lusso annunciassero nei nuovi spazi messi in cantiere verso la fine degli anni novanta, eventi senza soluzione di continuità, questi flagship store sembravano consistere più che altro in un ampliamento spettacolare del tradizionale negozio con un’attenzione ancora più maniacale nelle tecniche di persuasione utili alla vendita. È chiaro che gli edifici della moda sono prima di tutto “oggetti fisici”. Di conseguenza devono assumere le forme che si adattano alla dimensione prescelta, in vista di scopi o funzioni accuratamente programmate. Il carattere “gigantesco” dei nuovi flagshipstore che ho elencato all’inizio, se da un lato cercava nella dimensionalità, il recupero della quota di prestigio che le spettacolari sfilate e nemmeno le foto di moda erano più in grado di assicurare, tuttavia presentavano un inedito problema. La correlazione tra forma e dimensione non può prescindere da proprietà fondamentali della geometria degli spazi tridimensionali. È ben noto che, se la forma non subisce modificazioni, ma al tempo stesso si ingigantisce, qualsiasi oggetto subisce una continua diminuzione del rapporto area di superficie/volume. Le ragioni sono semplici da capire: il volume aumenta secondo il cubo della lunghezza ( L x L x L ); mentre la superficie aumenta solo secondo il suo quadrato ( L x L ). In altre parole, se gigantizzo mi servono forme che non solo interpretino l’oggetto edificio secondo un registro completamente diverso dal tradizionale negozio (e da questo punto di vista, appellarsi al sapere operativo delle archistar sembra una scelta logica), ma per necessità strutturale occorre prevedere le conseguenze dell’enorme aumento dei volumi interni ai quali occorre dare “senso”. Che importanza ha questo aspetto? È molto semplice: posso certo rispondere all’aumento dei volumi interni aumentando la brand extension e moltiplicare i prodotti esposti, ma questa tattica non risolve il problema dal quale eravamo partiti, bensì lo accentua; ovvero, devo progettare altre funzioni da aggregare al punto vendita, ma a questo punto aldilà di scontati ristoranti o pseudo eventi, cosa ci metto? In breve, il rischio del gigantismo architettonico è la banalizzazione e/o disumanizzazione del rapporto con i clienti. La marche della moda, ingigantendo i luoghi attraverso i quali si presentavano come “modi possibili di stile”, correvano il rischio di compromettersi con investimenti pesantissimi che avrebbero potuto rivelarsi essere soluzioni che peggioravano il problema che volevano risolvere. Questo rischio fu esorcizzato con le prestazioni creative delle archistar, con la valorizzazione spettacolare e mediatica della forma boutique che i grandi architetti erano in grado di attivare e l’introduzione di superfici interne generanti effetti di socialità sotto controllo, ovvero con spazi provvisti di servizi e/o contenuti altri rispetto al prodotto moda; superfici immaginate poter generare un con(tatto) con la tribù della marca.

Prada a Aoyama
Prada a Aoyama

Gli Epicentri e i terremoti della moda

1. In geologia si usa il termine epicentro per indicare il luogo dove un terremoto causa i danni maggiori. Perchè chiamare Epicentri spazi dedicato al commercio? Esiste un parallelismo tra le significazioni geologiche e lo scenario immaginato dai responsabili del progetto Prada? Quando apparvero sulla stampa le prime notizie relative alle innovative strutture, era fin troppo scontato immaginare che “Epicentro” rinviasse ad una narrazione del tipo: il cuore pulsante della moda è come un terremoto di emozioni. Prada ne rappresenta l’epicentro. Il termine scelto per classificare una nuova teoria di luoghi per la moda aderiva perfettamente al posizionamento ideale del brand. Ma il progetto lasciava intendere che le aspirazioni di Prada stavano incontrando alcuni ostacoli. Quali problemi dunque motivavano l’azienda ad effettuare investimenti economici fuori dall’ordinario? Abbiamo visto che Prada, verso la fine degli anni novanta del novecento, era alla ricerca di un nuovo concetto di interazione con i propri clienti. Probabilmente, nelle città strategiche per la globalizzazione, i punti vendita già presenti mostravano i sintomi di uno scollamento tra i valori non negoziabili della marca e la significanza che potevano aggregare al prodotto moda. A partire dalla progettazione, dalla forma e dallo spazio di un inedito punto vendita si immaginava poter promettere al modante un’esperienza di tipo logico diverso rispetto a ciò che per le altre marche rappresentava uno standard desiderabile. La nuova tipologia di negozi doveva rappresentare sia il “modo possibile di stile” attualizzato dal concetto portante delle collezioni di Prada (sempre in contro-tendenza) e nello stesso tempo avvolgere il cliente nel “mondo sensibile di marca“, uno spazio, configurato attraverso una orchestrazione di superfici/segni che lo rendevano assolutamente relazionale e poroso nei confronti della sensibilità di chi l’attraversava. Da dove nasceva l’urgenza di questo cambiamento? Il problema di Prada nel 1999 potremmo sintetizzarlo con queste brevi parole: la straordinaria crescita mondiale del valore della marca sembrava doversi risolvere con innesti, ad ogni livello di categoria di prodotto, sempre più vicini al commercio di massa. Infatti l’enorme aumento del fatturato non poteva che significare un’epidemica diffusione di merci e la ripetizione infinita di un rituale di scambio che, colpo dopo colpo, avrebbe inevitabilmente fatto perdere appeal al brand. Oltre una certa soglia, l’espansione della marca poteva facilmente entrare in contraddizione con i valori determinati per l’azienda, allontanando proprio la tipologia di clienti che nel recente passato ne avevano decretato il successo. I clienti evoluti che avevano premiato il posizionamento di Prada lungo i confini estremi della moda, là dove osano solo le aziende capaci di sperimentare nuove idee, nuovi design e materiali innovativi, avrebbero potuto sentirsi improvvisamente lontani dalla marca che avevano tanto amato.

2. La posta in gioco dunque, per Prada non era di poco conto. Infatti, il riferimento ai clienti che avevano portato la marca ad essere un nuovo mito della moda ci suggerisce un delicato problema da non sottovalutare: fino a che punto posso espandere il mio raggio d’azione senza perdere i tratti non negoziabili della mia identità? Questa domanda ne porta subito un’altra che ci avvicina agli Epicentri: dal momento che non posso rinunciare ad una crescita globale cosa devo fare per mantenere o addirittura consolidare i miei valori di base? Prada, da sempre, significava controtendenza, ricerca e sperimentazione work in progress, contaminazioni artistiche, avanguardia estetica e di stile. Il suo cliente modello apparteneva ad una élite intellettuale (per gli standard della moda), che amava le improvvise torsioni stilistiche imposte da Miuccia Prada; voleva sentirsi un po’ contro la moda, senza rinunciare al piacere ineffabile di un’estetica ribelle, mai troppo stravagante o teatrale. Un’estetica minimalista ma riconoscibile e quindi anti classica, anti barocca ma fortemente concettuale, polarizzante, proiettiva (stare con Prada significava essere inattuali e quindi sempre nuovi, sempre leggermente proiettati in un futuro anteriore). Ora cosa succede se per i motivi che ho elencato sopra, scopro che i valori di base stanno perdendo la loro aderenza? A volte basta un po’ di manutenzione del brand. Altre volte occorre agire ad un livello diverso rispetto al potenziale offertoci dalla pubblicità o di una sfilata. Ovvero vi sono casi in cui la manutenzione del brand è efficace solo se coinvolge la struttura del punto vendita, dal momento che, gli spazi configurati, danno attivamente forma al comportamento umano. Da un lato, quindi, si trattava di immaginare superfici interne e volumi che rispondesse all’esigenza di “singolarità plurale” del modante di riferimento, dall’altro lato, bisognava configurare forme e strutture dinamiche, espressive, dotate di un forte simbolismo spontaneo, “aperto”, ma anche coerente con il livello di senso fondamentale, implicito nel progetto. Nella visione di Prada vennero privilegiati percorsi di shopping esclusivi, distintivi senza però risultare “aristocratici”; percorsi stimolanti, per clienti ormai padroni del quasi-linguaggio della moda, annoiati e stanchi del tradizionale shopping, consapevoli che la valenza decisiva dei valori-prodotto di una marca era classificata non dall’atto di consumo e tantomeno dall’uso, bensì dal modo di integrarli nel proprio stile di vita mutante. Gli architetti utilizzati da Prada furono Rem Koolhaas (studio OMA/ AMO di Rotterdam), Herzog & de Meuron e il giapponese Kazuyo Sejima+Ryue Nishizawa/SANAA. Il primo degli epicentri fu inaugurato a New York nel 2001, seguito nel 2003 dall’Epicentro Aoyama di Tokio. Il 16 luglio del 2004 aprì l’epicentro di Los Angeles progettato da Rem Koolhaas e Ole Scheeren (OMA).

3. I concetti di “singolarità plurale” e di “simbolismo spontaneo” non sono intuitivi e quindi consentitemi di motivarne l’uso. Per “singolarità plurale” intendo riferirmi a due ordini di fatti: a. Il consumatore post moderno ha la disposizione a cambiare con molta più leggerezza rispetto al passato, le sceneggiature del Sè esteriore (trasformazione del cliente in consum(attore)); b. La sperimentazione de Sè esteriore funziona meglio se sono circondato da altre singolarità plurali, da altri consum(attori). In questo modo le sperimentazioni del Sè si aprono alla socialità. Ora, tutto questo ha richiesto un aumento degli spazi dei punti vendita e la trasformazione degli interni in set trasformabili, in Gallery di prodotti. Esattamente ciò che Prada ha fatto con gli Epicentri. Veniamo ora al simbolismo spontaneo della forma edificio. Prada è stata una delle prime marche della moda a capire che l’esteriorità dell’edificio non doveva più rinviare a funzioni primarie (luogo dove si vende/compra), e nemmeno al riciclo di forme storiche. L’espressività degli edifici della moda dovevano trasmettere la visione di un brand che si interrogava su cosa è la città, l’arte, la bellezza e la vita pubblica (aggiungerei che le nuove strutture erano immaginate doversi inserire in un contesto urbanistico che presentava una novità sostanziale: se fino a quel momento nelle cosiddette strade della moda valeva la legge della sequenziabilità e contiguità, ora lo spazio urbano a più alta densità moda era caratterizzato da una lotta spietata per il potere percettivo del proprio edificio. Da queste considerazioni nasceva l’urgenza di interventi creativi e di nuove location urbane). Gli Epicentri, non risultando banalmente classificabili, erano dunque singolarità architettoniche il cui significato dipendeva dalle relazioni percettive e cognitive determinate dalla fruizione/reazione dei flâneurs metropolitani.

4. Tra gli architetti citati alla fine del punto 1, fu soprattutto Rem Koolhaas a concettualizzare i nuovi spazi Prada, in parte basandosi su riflessioni già conosciute e operative (la moda non si rapporta ad alcun bisogno specifico bensì promette risposte ad un’insaziabile desiderio di stile) e in parte elaborando l’aspetto percettivo-emozionale della promessa di stile della moda, trasformandolo in una ricerca/sperimentazione di esperienze. Il branding – spiegava l’architetto nel corso di affollate conferenze stampa- non può più limitarsi a un gioco di tattiche con le quali emozionare il soggetto della moda; bensì dovrebbe offrigli la possibilità di vivere un’esperienza. Ecco dunque nascere l’urgenza di creare l’effetto “mondo possibile” di Prada, nel quale il soggetto della moda viene coinvolto a partire dal suo essere prima di tutto un corpo senziente (multisensorialità) e in seconda battuta, una mente intellettualmente stimolata per vivere l’identità come un personaggio su di un set che gli offre un “nuovi modi di essere”. Una architettura capace di trasducere i segni che evocano gli effetti di Cinema, teatro, arte (performance, istallazioni) possono farlo sentire attore, in una sorta fiction che contribuisce egli stesso a sceneggiare, muovendosi in uno spazio nel quale il prodotto entra in un gioco di presenza-assenza capace di ingaggiare la Domanda di desiderio. Si può dire che Prada abbia accentuato la propensione del cliente evoluto a viversi come un consum(attore). In altre parole, la genialità di Koolhaas è di aver capito l’urgenza di passare dalla dimensione “far desiderare x a y”, tipica del tradizionale modo di organizzare gli spazi del commercio, ad un’altra dimensione raffigurabile con l’espressione “fare di y un desiderio di desiderare”. Notate come nella seconda espressione la x sia apparentemente assente. Ma noi sappiamo che lo stato di desiderio in realtà non implica sempre la copresenza dell’oggetto bensì della sua l’ombra capace di attivarne la “spinta”. Uno spazio che costringe il cliente ad un rapporto frontale con l’oggetto, banalizza il desiderio. Occorre ripensare l’organizzazione dello spazio, deviando o ritardando l’aspetto emozionale dell’incontro con l’oggetto moda, per coinvolgere il cliente nell’esperienza che può farlo sentire un “soggetto vero” cioè diviso, ovvero desiderante. Occorre dunque uno spazio che si relazioni con il soggetto, fatto di superfici dialoganti, porose. La stravaganza dell’arte contemporanea, la liquidità percettiva vissuta come sofisticata deriva di immagini, il carattere trasfigurante della contro-tendenza tipica dello stile Prada, ben orchestrate, possono depositare nella mente del consum(attore), post quem, l’idea di una innovazione radicale dello shopping; anche se ogni singolo elemento o concetto, separati, non si differenziano di molto da ciò che altri hanno praticato o teorizzato localmente. A mio avviso questo è il senso della concettualizzazione applicata al caso Prada dal grande architetto.

L’Epicentro di New York

L’Epicentro di New York fu enfatizzato come un innovativo negozio-laboratorio “dove sperimentare nuove forme di interazione con i clienti”. Situato all’angolo tra Price Street e Broadway venne presentato a giornalisti di tutto il mondo come il primo negozio in costante trasformazione. Rem Koolhaas progettò l’Epicentro in uno spazio ricavato da due edifici paralleli ma non simmetrici: il primo presentava un piano terra utilizzabile mentre in quello adiacente era disponibile solo il seminterrato. Per risolvere la dinamica imposta dall’interazione delle due strutture l’architetto olandese ideò una sorta di onda che funzionò da dispositivo spaziale intorno a cui creare una serie di spazi eterogenei. Alla base della parte ascendente dell’onda si trova una pedana retrattile controllata meccanicamente; le gradinate dove sarebbero state esposte le scarpe erano facilmente convertibili in un auditorio capace di ospitare 200 persone. Se consideriamo l’onda e la scala di fronte come il cuore del negozio allora è facile capire quanto l’idea di uno spazio di relazione abbia plasmato il concetto di epicentro immaginato da Rem Koolhaas. Sempre al piano terra furono progettate istallazioni innovative di prodotti e materiale di supporto, grazie ad una serie di gabbie in maglia di alluminio che scendevano dal soffitto, configurate in modo tale da permettere l’inserimento di barre su cui appendere abiti, scaffali, manichini e display. Le strutture vennero sistemate su dei binari motorizzati che consentivano il loro rapido spostamento in tutto il negozio. L’idea che i prodotti potessero concettualmente muoversi per rendere il paesaggio delle merci del punto vendita in costante trasformazione, probabilmente non era una novità assoluta.

Interno con "onda" del negozio di New York
Interno con “onda” del negozio di New York

Ma il modo in cui, queste dinamiche possibili dell’allestimento prodotti interagivano con le contaminazioni artistiche e l’equilibrio fluttuante delle forme architettoniche era estremamente efficace e senza paragoni. Fu subito evidente la spiccata individualità dell’Epicentro, la sua singolarità, la sua diversità. Un aspetto importante dell’epicentro di New York furono i contenuti tecnologici studiati dalla AMO (la società di ricerca di Rem Koolhaas) per suggerire al cliente una rappresentazione dell’azienda che trascendesse la scontata estasi da prodotto firmato prodotta dalla vastità di abiti e accessori. Insomma, sembrano voler suggerire i progettisti, l’effetto Prada non dipenderebbe dalla somma degli articoli firmati ma da una complessità estetica, formale e tecnologica polarizzata sul fronte dell’innovazione radicale, coraggiosa, funzionale. Sul comunicato stampa dell’azienda del 15 dicembre si può leggere: “Il cuore dello spirito tecnologico perseguito è …il terminale portatile e senza fili, che contiene il data base del negozio, dà accesso immediato all’inventario e alle informazioni sui clienti”. Le informazioni sul terminale utilizzate dallo staff possono essere visualizzate su tutti i vasti schermi presenti, così da condividerle con il cliente. I “display onnipresenti” quando non sono utilizzati come terminali sono sistemati tra le merci e con le immagini programmate contribuiranno a creare contesti diversi a seconda delle merci esposte. Ma forse, per il cliente, la dimensione più evidente dell’intervallo tecnologico voluto da Rem Koolhaas viene percepita nel camerino: “Ogni articolo inserito nella cabina – sono parole del comunicato stampa già citato – viene registrato automaticamente e mostrato sullo schermo della cabina stessa. Dallo schermo il cliente può con un semplice tocco avere accesso alle informazioni tecniche sul prodotto e a quant’altro di complementare o alternativo si desideri conservare in un web account personale. I camerino contengono inoltre un video ‘specchio magico’ che non solo permette di vedersi da dietro ma che offre un playback rallentato quando il cliente si gira su se stesso: uno specchi che funziona nel tempo oltre che nello spazio”.

Facciata negozio New York
Facciata negozio New York

L’Epicentro di Tokyo

Nel 2003 la strategia di reinterpretazione dello shopping di Prada si materializzò in uno dei contesti urbanisti più evoluti del pianeta. Dal 7 giugno di quell’anno, il paesaggio urbano di Tokyo si trovò arricchito da un edifico dalla forma di un gigantesco cristallo, costruito da un reticolo di pannelli di vetro che consentivano a chi lo guardava da fuori una visione di tutto ciò che si trovava dentro e per chi si poneva all’interno un suggestivo colpo d’occhio sulla città. Il nuovo epicentro, circa 2800 m2 di negozio, collocato nel quartiere Aoyama caratterizzato da forme urbanistiche eterogenee e da edifici relativamente bassi, permise ai progettisti di smarcarsi dal contesto che lo circondava. D’altra parte bisogna aggiungere che mano a mano che progettisti si immergevano nella fitta rete di regolamenti urbanistici di Tokyo, la forma dell’edificio risentiva sempre più della tensione tra esigenze creative e costrizioni normative. Gli architetti posizionarono l’edificio in modo tale si potesse liberare davanti ad esso una sorta di piccola piazza e scelsero di dargli una forma plastica che ne esaltasse la visibilità: un’altezza superiore a quella degli altri edifici che lo circondavano, una forma a cristallo che a secondo della prospettiva dell’osservatore mutava di aspetto, proponendosi alla memoria come forma eccentrica, presente e ma non ricordabile nei dettagli. L’epicentro di Tokyo, alto, stretto, plastico e irregolare avrebbe funzionato come punto di attrazione, riconoscibile e memorizzabile; al tempo stesso grazie alla piccola piazza sarebbe stato vissuto come luogo di socializzazione.

Interno del negozio a Aoyama
Interno del negozio a Aoyama

Di passaggio notiamo come la classica distinzioni semantica tra interno ed esterno del punto vendita veniva sospesa, quasi narcotizzata, per suggerire una diversa percezione degli spazi della moda. L’interno dell’epicentro venne pensato come uno spazio liquido tale da non permettere ai clienti o visitatori una percezione facilmente memorizzabile dell’autonomia dei singoli sottospazi. L’immagine della continuità o, per dirla con il sociologo Bauman, la percezione liquida dello spazio costrinse i progettisti a misurarsi con innumerevoli problemi costruttivi, tanto da trasformare l’epicentro in uno degli edifici più sofisticati del Giappone. Anche per il negozio di Tokyo la traduzione percettiva dei valori di Prada è stata encomiabile. Che cosa vede il cliente sia fuori dal negozio e sia dentro? La percezione sicuramente privilegiata dai progettisti potremmo definirla l’eterogenea unità dell’organismo architettonico: i nuclei portanti verticali, i tubi orizzontali, le solette dei vari piani e le griglie della facciata sono tutti uniformati a componenti strutturali… Praticamente sembrerebbe impossibile definire qualcosa che funzioni come puro rivestimento o decorazione; da questa coerenza strutturale nasce l’idea dell’organismo architettonico. L’indistinzione tra l’interno e l’esterno dell’edificio rappresenta un messaggio semantico raffinato ed eloquente. Gli interni sono caratterizzati da strutture tubolari alla cui estremità sono collocati i camerini di prova, racchiusi da pareti di vetro che alternano trasparenze e opacità. L’esposizione dei prodotti simulano i modi delle istallazione artistiche. La semplicità del progetto era sorprendente: una piccola folla di manichini simulavano le presenze umane in un mercato arcaico, allestito con prodotti sistemati su banconi più bassi rispetto lo standard, tali da consentire una visione dall’alto verso il basso. L’arrotondamento dei bordi ne addolciva la forma e rendeva più fluido l’atto di girarvi intorno. Sia i banconi che le sedute erano retroilluminate. Lo spazio uniforme bianco consentì l’allestimento di sistemi informativi dinamici di grande impatto. Sulle pareti venivano proiettate immagini che rappresentavano l’unica decorazione degli interni. Dal soffitto, simili a periscopi, scendevano gli snorkels, dispositivi per la visione di contenuti multifunzionali: informazioni sulle collezioni Prada, informazioni sugli eventi presenti e futuri etc. Inoltre, e lo dico con le parole di uno dei tanti comunicati stampa diffusi in quei giorni dall’azienda, “all’interno delle strutture tubolari gli snorkers fungono anche da docce di suoni che generano uno spazio acustico raccolto e ben distinto dalle sonorità di fondo delle altre zone del negozio. Personalizzando i controlli acustici è infatti possibile evocare paesaggi sonori del tutto differenti rispetto gli altri ambienti dell’edificio”.

Anche Jaques Herzog come Koolhaas, uno degli architetti più conosciuti al mondo per l’audacia dei progetti firmati, nelle settimane che seguiranno all’inaugurazione che ebbe risonanza mondiale, dirà alla stampa: “Prada rappresenta per noi un nuovo tipo di committente, interessato a un nuovo genere di architettura. Questo approccio implica uno scambio di esperienze e genera un dibattito culturale. Non è la consueta relazione committente-architetto, poiché va oltre i limiti tradizionali dell’architettura e della moda, con risultati molto spesso superiori alle aspettative”. Cominciava ad essere chiaro che gli Epicentri di New York e Tokyo rappresentavano una sfida radicale alle percezioni del consumatore ma anche una sollecitazione a concepire il rapporto spazio-corpo secondo un registro multisensoriale, ma soprattutto tattile (nel senso che Marshall McLuhan dava al concetto) e polisemico.

Interno del negozio a Aoyama
Interno del negozio a Aoyama

L’Epicentro di Los Angeles

Il 16 giugno 2004 venne inaugurato l’ultimo epicentro Prada al numero 343 di North Rodeo Drive a Beverly Hills. OMA- Rem Koolhaas e Ole Scheeren progettarono su una superficie di 2400 m2 (1400 destinati alla vendita) un negozio senza facciata ovvero senza il tradizionale fronte vetrina, istallando un sistema a muro d’aria sensibile all’ambiente esterno. All’ingresso il cliente doveva attraversare una serie di coni espositivi contenenti i prodotti; all’interno del negozio una scala a collina (Hill) rimandava concettualmente all’onda resa celebre dall’epicentro di New York. Sotto la scalinata si apriva uno spazio caratterizzato da un pavimento in marmo bianco e nero che ricordava al primo negozio Prada, creato nel 1913 in Corso Vittorio Emanuele a Milano. Il secondo piano, costruito in alluminio, era foderato da un materiale innovativo appositamente studiato per Prada chiamato ‘sponge’, un ibrido di aria e materia ad alta porosità adatto alla esposizione dei prodotti. Il perimetro delle scale venne realizzato in vetro laminato, traslucido o trasparente, che amplificava o restringeva la percezione dello spazio. Il terzo piano era provvisto di un tetto apribile che offriva una stupenda luminosità ad un open space nel quale i prodotti erano esposti in un contesto che rimandava a suggestioni aeroportuali: nastri a rullo e porte dotate di metal detector. Display, schermi al plasma incorporati nell’arredamento o collocati in mezzo agli abiti e ai prodotti esposti, presentavano le stesse suggestioni che i progettisti avevano studiato per gli altri epicentri; ovvero, lo spazio Prada interpretato come ambiente generativo di informazioni a getto continuo. Quindi, un negozio sempre connesso con il mondo, capace di modificare l’aspetto simbolico del proprio interno, senza far perdere di senso ai tratti invarianti che certificavano l’identità della marca.

Negozio Los Angeles
Negozio Los Angeles

Gli Epicentri in tempo di crisi

1. Quando nel 2007 la crisi economica dovuta al crollo dei titoli tossici annichilì la borsa, portando al fallimento numerose banche statunitensi e inglesi, il mercato del lusso, in Europa e negli Stati Uniti, cominciò a perdere colpi. Molti osservatori annoverarono tra i possibili handicap della moda italiana i costi fissi della pesante rete distributiva dei negozi monomarca. Qualcuno disse che i grandi investimenti in strutture avveniristiche era finito e che il dialogo tra stilisti e archistar sarebbe stato interrotto dal crollo finanziario della committenza. I modi di organizzare il business di Zara, Gap, H&M divennero paradigmatici e i loro punti di vendita, una via di mezzo tra un grande magazzino e uno stile boutique neutro dal punto di vista del design, furono eletti a modello distributivo d’eccellenza. Per non parlare del successo annunciato degli outlet, di solito allocati in strutture inguardabili, e dell’interesse crescente nei confronti dei Temporary Store, l’interpretazione “volgare” delle feconde intuizioni di Kauwakubo sull’uso di non-luoghi-moda, posizionati in zone della città non contaminate dal glamour, in controtendenza con le scelte estetiche delle grandi marche. I primi spazi citati, Zara e outlet, furono dichiarati con enfasi le strutture del futuro per poi scoprire presto che, pur potendo garantirsi l’appeal di un prezzo basso, alla fine sarebbero stati anch’essi colpiti dall’annunciato cambiamento etico dei consumi predicato dalle innumerevoli cassandre, sempre presenti e rumorose in tempo di crisi. Per quanto riguarda i Temporary Store invece, dopo un sacco di chiacchiere prive di senso, bisogna dire che sono rimasti quello che potevano essere all’interno di un sistema moda evoluto: negozi tattici usabili in alcune occasioni particolari, ma mai interpretabili come realtà alternativa strategica sia per le marche che per i consumatori. Comunque sia, i grandi flagshipstore di cui abbiamo parlato, Epicentri compresi, sembravano destinati ad una veloce estinzione.

2. L’impatto psicologico dovuto alla crisi, produsse una serie infinita di appelli alla sostenibilità e agli eco comportamenti virtuosi. Anche la moda e in particolare il comparto del lusso si trovò a dover fronteggiare ondate di ostilità che mettevano in discussione modi, forme, strutture, prodotti, immaginati essere il sintomo di una società avida, sprecona e immorale. Divenne inevitabile la sottovalutazione dei valori messi in gioco dalle grandi strutture create dalle marche della moda nell’arco di tempo che vi ho presentato. Personalmente ritengo un errore considerare i grandi investimenti nell’architetture della moda come l’espressione dell’arroganza dissipativa di stilisti o marche, presuntuose ed egocentriche. Trovo che sia ragionevole parlare, come ha fatto Claudio Marengo Mores (Da Fiorucci ai Guerrilla stores, Marsilio, 2006), di marketing dello spazio. A patto d’intendere con questa espressione il tentativo di implementare nella progettazione degli spazi della moda, innovative sintesi concettuali provenienti da molteplici campi del sapere e non solo una critica più o meno velata di sfruttamento a fini commerciali delle reazioni del soggetto alle superfici che lo coinvolgono a livello di relazione percettiva, spesso al di sotto della soglia della coscienza. Dal mio punto di vista, le ingenti risorse investite nell’architettura di punti vendita “esemplari”, rappresentano il massimo sforzo compiuto per strappare il senso profondo della moda all’esclusivo, effervescente, paludoso fascino della novità fine a se stessa. Aldilà di scontati riferimenti agli stili di vita plurali sottoposti alla legge del mutamento continuo, necessario per il business e, non dimentichiamolo, ormai parte dei modi di organizzare le identità e i piaceri dei consumatori evoluti, a me pare di leggere negli investimenti strategici delle grandi marche in strutture di grande impatto, la volontà di partecipare al gioco sociale a livello di ciò che potremmo definire “forma di vita” (una dimensione che supera il fin troppo marketizzato “stile di vita”). Intendiamoci, l’allargamento di scenario delle marche della moda al design di prodotti eccentrici rispetto l’oggetto-moda e all’architettura, rientra senz’altro in programmi di rafforzamento del loro potenziale di immagine e commerciale. Non si discute che si possano o si debbano attivare circoli virtuosi tra risorse investite e plusvalenze; in altre parole, se una marca investe in design o architettura d’avanguardia è ovvio che debba calcolarne l’economicità. Ma se non vogliamo perderci in banalità dobbiamo cominciare a pensare che non è di poco conto la conseguenza indiretta di queste scelte strategiche: per esempio, affinare le strutture della moda per renderle più efficienti a livello di corpi e spazio del sociale, significa porre in relazione dialogica le accelerazioni brucianti create per imporre/rincorrere stili di vita percepibili come sempre nuovi, con inedite risposte a bisogni di socialità e di estetizzazione, non contemplati dai vecchi punti vendita. E’ chiaro che gli Epicentri sono stati pensati per individui che hanno una disposizione ad intellettualizzare l’approccio all’oggetto moda e a preferire esperienze estetiche ai margini (dell’arte, delle mode, degli stili di vita). Ma le neuroscieze ci ricordano che l’intellettualizzazione può nascere in forma non narrativa, non discorsiva, a livello della percezione. Per dirla con Antonio Damasio, celebre neuroscienziato, il consumatore nucleare comincia il suo viaggio nella significanza traducendo in vibrazioni emozionali i percetti che lo relazionano alla superficie dell’ambiente che attraversa. Il suo sé autobiografico, attraverso le disposizioni generate dalla memoria, entrando in connessione con i percetti, conferirà ad essi il margine di coscienza che ci dona l’illusione di essere completamente liberi (di scegliere). La fitta trama di informazioni creata negli Epicentri, che ad alcuni è apparsa caotica, eccessiva, entropica, in realtà io l’ho immaginata come una rappresentazione esterna del funzionamento del sistema mente-cervello. Percetti ovvero grumo di informazioni che la mente integra creando l’emersione di una presenza de sè al consumo, esperita come singolarità plurale.

3. Se prendiamo gli Epicentri, come buon esempio di strategia, dobbiamo riconoscere a Prada un ruolo significativo in ciò che si annuncia essere uno dei paradossi della moda attuale, generati dall’intervallo tra il tempo delle marche (l’eternità?) e l’accelerazione forzata dei consumi (il tempo breve delle mode). Essere avanguardia e proporre valori durevoli; dialogare con il consumatore attraverso l’immediatezza delle percezioni e valorizzare la concettualizzazione dell’esperienza della moda; lavorare sulle superfici senza rinunciare allo spessore; essere glocal ma con una identità forte… Sono paradossi che la moda di oggi riesce a rendere efficaci lavorando assai più con lo spazio che con il tempo (ricordo di passaggio che nel preciso momento in cui il punto vendita stava diventando strategico anche dal punto di vista simbolico, cominciarono a diffondersi i primi dubbi sulla centralità delle sfilate).

Cosa rimane di questo tour de force architettonico e tecnologico a distanza di 20 anni? Ha funzionato? È passato indenne dalla porta stretta della crisi? Vi dico subito che dell’economia reale generata dagli Epicentri non ne so nulla. Posso solo aggiungere che non ho mai letto nulla che ne sottolineasse la criticità dei costi rispetto ai benefici. Gli Epicentri meritano però un approccio diverso dalla generica accusa di mercatismo. Alle domande che ho posto si può rispondere che Prada ha affrontato frontalmente uno dei grandi temi della contemporaneità della moda: i suoi Epicentri un po’ cyborg, sono una risposta proattiva al problema di un neo umanesimo post tecnologico dei consumi. Con il web infatti la technè per la prima volta non ha affatto dissimulato il proprio impatto dietro il velo dell’applicazione specialistica, locale; bensì ha fatto credere a milioni di persone la possibilità di una second life o a un second world senza attriti, leggero quanto assurdo. Insomma, la technè informatica, divenuta uno degli ultimi grandi racconti della contemporaneità ha cambiato mentalità e aspettative. L’inarrestabile impatto dei nuovi modi della comunicazione sta destabilizzando ciò che noi in modo romantico continuiamo a chiamiamo semplicemente moda. Prada ha risposto a questa sfida in modo serio e creativo. Si ha la sensazione che Koolhaas e De Meuron quando progettano abbiano una visione del reale molto più articolata rispetto ad altri architetti, intendendo per reale ciò che destabilizza gli stili di vita. Il loro tentativo di integrare i nuovi sistemi informativi e le estetiche post, al mondo Prada, è stata uno dei culmini delle riflessioni sulla risposta da dare alla liquidità dei processi che stavano cambiando la pelle della moda. A mio avviso, i loro Epicentri non sono un elogio scriteriato alle forze che distruggono i fondamenti della architettura e della funzione dell’abitare. Rappresentano invece un tentativo di messa in ordine, di misura, di controllo, in un contesto dominato dal caos, nel quale l’ordine spaziale emergente di Prada avviene attraverso fluttuazioni percettive, sensoriali, semantiche non lineari, vissute direttamente dai clienti attraverso superfici di relazione che stimolano la forma di comunicazione che chiamerei con(atto).

4. Ma l’esperienza degli Epicentri si è conclusa? Apparentemente sì. Ma osservate l’ulteriore invenzione creata dal binomio Prada/Koolhaas, subito dopo aver terminato il progetto degli Epicentri, inaugurata verso la fine della prima decade del terzo millennio a Seul: un provvisorio edificio supertecnologico capace di adattarsi (cambiare la sua forma esterna) in funzione dei contenuti che presenta. Il “Transformer”, nome azzeccatissimo, venne istallato nei giardini del cinquecentesco Palazzo Reale di Gyeonghul; più che un edificio assomigliava alle strutture modulari che amavano disegnare i costruttivisti (e che non furono quasi mai realizzate). Koolhaas con il Transformer è riuscito ad unire suggestioni futuriste con il loro rovescio che potremmo definire decostruttivista.

Fasi di realizzazione del Transformer
Fasi di realizzazione del Transformer

Insomma il Transformer appartiene alla classe di strutture che in ogni suo punto esibisce, rende direttamente visibile, la logica costruttiva che lo ha generato. La forma esterna deriva dall’assemblaggio di quattro componenti, un esagono, una croce, un rettangolo, un cerchio, che a seconda del tipo di evento ruotando su se stessi simbolizzano in modo diverso l’edificio. Per dirla con le parole di Koolhaas, il Transformer è “un organismo dinamico, rispetto ad un oggetto semplicemente statico, che si adatta arbitrariamente al programma” nei confronti del quale rifiuta la scontata funzione di “contenitore”. Se ci pensate bene, con il Transformer Koolhaas/Prada decostruiscono l’ideologia museale ed espositiva dominante, ricostruendone provocatoriamente la messa in discorso secondo le regole della società dello spettacolo. Non è un azzardo congetturare che ci troviamo all’interno del paradigma estetico/estesico inaugurato con gli Epicentri. Con il Transformer l’esperienza degli Epicentri viene trasferita nel campo degli spazi per eventi culturali. Si tratta di una struttura stupefacente, innovativa e trasgressiva; una possibile risposta in positivo ai mutamenti degli individui in una forma di vita fondata sui protocolli del commercio e sulle sfide d’immagine tra grandi marche. Ancora, il Transformer è una delle prime “strutture evento mutanti” che io conosca. Non solo perché è un contenitore di spettacoli e cultura. Ogni sei mesi, dichiarava l’ufficio stampa, verrà smontato e reistallato in modo tale da ri-simbolizzare un evento di tipo logico diverso dal precedente. Il progetto di legare una struttura così imponente e complessa all’idea di uno spazio mutante è suggestiva. In molti ci siamo chiesto cosa sarebbe successo al Transformer dopo la prima grande mostra intitolata: Waist Down – Skirts By Miuccia Prada. I suoi elementi strutturali vennero smontati e ruotando in modo arbitrario, ovvero senza una ragione profonda, l’interno venne trasformato in una sala cinematografica per una rassegna di film, Flesh, Mind and Soul, selezionati da Alejandro Gonzales Inarritu. Poi più avanti nel tempo, venne effettuata nuova rotazione per accogliere una grande sfilata… Avremo, prima o poi, un Transformer anche in Italia? Lo ritengo altamente improbabile. Da tempo Miuccia Prada e Bertelli manifestano perplessità nei confronti dell’inerzia intellettuale del nostro Paese, non solo relativamente alla cultura della moda ma soprattutto nei confronti dell’arte di ricerca, sperimentale, d’avanguardia. Secondo la loro opinione, nel nostro Paese, tutto ciò che tenta di dare una forma pregnante all’estetica contemporanea incontra prima di tutto perplessità e resistenze. In particolare quando la posta in gioco è l’architettura (2). Non è un caso se, gli Epicentri, furono accusati dalla maggioranza degli architetti accademici italiani, una lobby molto influente in grado di condizionare le decisioni di amministratori, politici, sovrintendenti, di essere una delle testimonianze del vituperato decostruzionismo. Io non so dirvi fino a che punto la tecnica di analisi letteraria e filosofica creata da J.Derrida, divenuta negli anni ottanta e novanta una vera e propria moda culturale, possa aiutarci a comprendere gli edifici di Gehry, Koolhaas, Toyo Ito, Zaha Haidid, Libeskind etc… Personalmente provo maggiore simpatia per il termine “decostruttivismo” proposto da Philip Johnson. In questo modo si preserva la distanza tra modelli interpretativi imposta da oggetti di analisi molto diversi: il linguaggio e il logos per la decostruzione; forme e edifici per il decostruttivismo. Qualunque siano le categorie classificatorie che preferite, rimane un fatto che gli Epicentri contribuirono a scatenare un dibattito serrato sul significato stesso di architettura nei suoi rapporti con forme di socialità che ispirandomi a M.Maffesoli, ho chiamato neo tribalismo chic metropolitano. In sintesi, cosa meta-comunicano gli Epicentri dal punto di vista olistico? Come ho già suggerito, essi ci fanno intendere che la mutazione è la regola. Moda, arte, cinema, design, spettacolo sono in permanente fase di scambio di prestazioni, si influenzano a vicenda producendo escrescenze estetiche che percepiamo come forme mutanti dal contenuto eterogeneo. Il dibattito tra chi sperimentava l’approccio multimediale e multidisciplinare per una nuova architettura con chi invece, ne ancorava i valori nella progettualità dell’abitare incontaminato, in alcuni momenti è stato particolarmente aspro. Ma ha avuto tuttavia il merito di evidenziare gli sforzi che la moda compie per restituirci un mondo nel quale le nostre passioni e i nostri sogni entrano in sincronia con un reale deprogrammato da forze non dominabili, da entropici flussi comunicativi, da imprevedibili pulsioni; un mondo nel quale prima viene il disordine e poi l’ordine emergente (il mondo possibile di marca).

Note:

1) Il breve saggio che ho scritto non ha l’obiettivo di descrivere l’attuale configurazione degli Epicentri. Mancano le informazioni dettagliate sulla loro operatività e non ho trovato quasi nulla di affidabile relativo a recenti restyling o innovazioni. Gli argomenti che ho proposto si basano dunque sui documenti ufficiali divulgati da Prada via via che gli Epicentri sono stati attivati e presentati al pubblico.
2) Devo aggiungere che oggi lo scenario è profondamente cambiato. Sotto la spinta propulsiva di Expo 2015 lo skyline Milanese si è adeguato alla verticalità d’autore delle più importanti città al mondo. Molte resistenze sono state superate. Anche in questa appassionante e discussa fase di trasfigurazione urbanistica vede Prada tra i protagonisti, grazie alla sua nuova Fondazione/museo, create da Koolhaas.

Lamberto Cantoni
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33 Responses to "Gli Epicentri di Prada"

  1. Silvia   8 Marzo 2015 at 11:23

    Nella lettura dell’articolo ciò che più ha colpito la mia attenzione è sicuramente l’importante ruolo sociale rivestito oggi dal punto vendita, inteso come luogo esperenziale, di aggregazione e scambio. La contemporaneità, mossa da dinamiche economiche sempre più complesse, richiede certamente un nuovo modo di comunicare la propria brand identity secondo una logica orientata allo scambio col cliente, che riesca a sfiorare il suo universo emozionale. E’ chiaro quindi come il punto vendita oggi non possa limitarsi ad assolvere la tradizionale funzione di contenitore ed espositore di oggetti, ma debba piuttosto diventare luogo esperenziale per il consumatore.
    Ognuno di noi è impegnato nella continua ricerca della definizione del proprio Io, della propria immagine e della propria identità; ricerca in cui le attività di consumo giocano un ruolo essenziale. L’esperienza d’acquisto offre la possibilità di definire la propria identità e viene spesso associata a ricordi e sensazioni positive e gratificanti. E’ chiaro quindi come il punto vendita diventi il luogo in cui il consumatore si immerge nell’universo valoriale del brand.
    Sono d’accordo sul fatto che allargare lo senario dalla moda al design e all’architettura possa contribuire a rafforzare l’identità del brand, fornendo una risposta a quei bisogni non contemplati dai vecchi punti vendita.
    Per assolvere questa funzione gli spazi commerciali dovrebbero riuscire a coniugare l’offerta con una componente intangibile fatta di arte, performance, intrattenimento, capaci di dare al negozio quel valore aggiunto in grado di coinvolgere il cliente e spingerlo ad acquistare, prima ancora di un prodotto, un’esperienza coinvolgente e gratificante.

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  2. Adri   8 Marzo 2015 at 17:17

    Il flagshipstore è sicuramente un investimento cruciale per un brand. Non solo per i costi di costruzione ma anche perché una marca si gioca buona parte del suo potenziale d’immagine. Ecco perché si scelgono gli architetti più rappresentativi. Io credo che sia un investimento orientato ad avere un ritorno d’immagine d’importanza pari ai fatturati attesi. Non ho mai visto un Epicentro di Prada ma da quanto ho letto immagino sia come essere in una specie di teatro. Non capisco perché il brand non sia partito dall’Italia. Milano è oppure no una capitale della moda?

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    • Dodo   8 Marzo 2015 at 20:06

      L’autore scrive cose interessanti ma per me i flagshipstore sono essenzialmente macchine per fare soldi. Non a caso li fanno nei punti più centrali per lo shopping. In un certo senso sono dei concept store giganteschi. Interessante il discorso dell’autore sulle conseguenze dell’ampliamento dei volumi dei punti vendita. Non sono mai stato in un epicentro, ma ho dei dubbi sui discorsi che vorrebbero presentarci i punti vendita come cultura. Si allarga lo spazio per metterci più prodotti e aumentare le vendite. Ma è anche vero che Prada ha sempre mostrato una sensibilità per l’arte superiore alle altre marche.
      Perché non ha fatto epicentri a Milano? È semplice, il nostro Paese nelle strategie delle marche non conta nulla.

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      • Adri   8 Marzo 2015 at 20:46

        Mi sembra riduttivo dire che i flagshipstore sono macchine per vendere. Si rivolgono a consumatori evoluti, sofisticati che, come dice l’autore vogliono acquistare storie e non solo dei bei abiti. Questo spiega il perché oggi il punto vendita sia divenuto quasi una applicazione scientifica. Multisensorialità, narrazioni… Forse si può dire che la nascita dei flagshipstore ha fatto decollare un approccio più rigoroso alla costruzione dei negozi. Sono d’accordo invece sul rapporto viscerale che Miuccia Prada ha con l’arte d’avanguardia. A parte il fattore estetico, io credo che oggi l’arte dei giovani artisti indichi meglio le tendenze del futuro, rispetto a tutte le chiacchiere dei cosiddetti esperti del settore!

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        • Virginia   8 Marzo 2015 at 23:44

          Diffido di parole che oggi troppo spesso impreziosiscono le parole dei cosiddetti esperti.
          Per esempio siamo sicuri che tutti sanno cosa dicono quando si parla di multisensorialità? E cosa significa per un negozio narrare delle storie? Non metto in discussione l’alto livello culturale dell’articolo dell’autore, ma gli chiedo di chiarire la loro utilità.

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          • Lamberto Cantoni
            Lamberto Cantoni   9 Marzo 2015 at 09:58

            L’aspetto centrale di una Buyology è l’interazione tra strategie e tattiche del mondo Retail con il modante.
            Ora, quest’ultimo oltre ad essere il soggetto della modazione, è una persona fisica e quindi sensibile all’impatto dei segni che trasudano da un punto vendita. In questo contesto sensibilità significa che il modante ha prima di tutto un corpo; e la focalizzazione del corpo del modante ci porta ad immaginare che in teoria l’esperienza dell’acquisto coinvolge, in misura diversa, tutti i nostri sensi ( visivi, uditivi, olfattivi, tattili, degustativi).
            Come funzionava l’approccio tradizionale? Semplificando, si può dire che le tattiche Retail si concentravano soprattutto sul prodotto e assai poco sul soggetto della modazione. Insomma, le procedure ritenute ottimali linearizzavano l’interazione con il cliente (cioè cercavano di portare direttamente la sua attenzione alle cose che potevano soddisfare il suo desiderio). L’idea di base era semplice, forse troppo: il prodotto è sempre in grado di evocare il desiderio; il compito del Retail è di rendere facile l’incontro tra queste due dimensioni.
            Non possiamo negare che per lungo tempo tutto ciò abbia funzionato. Ma, se ci pensate bene, la linearizzazione del rapporto prodotto-desiderio-cliente, presupponeva, per dirla con il linguaggio degli economisti, una domanda di moda superiore all’offerta e un sostanziale sonnambulismo rispetto i valori sociali implicati nell’acquisto.
            Cosa succede invece quando l’offerta supera la domanda e ogni atto d’acquisto è indirettamente sottoposto al controllo di uno sguardo etico interiorizzato dal soggetto della moda? È semplice: la linearità si spezza e le procedure d’acquisto diventano non-lineari ovvero complesse. Di conseguenza possiamo immaginare che la permanenza del cliente in un punto vendita debba per forza aumentare e quindi diventino fondamentali valori prima sottovalutati o addirittura narcotizzati.
            Sono valori che implicano l’accoglienza, la trasformazione culturale dei luoghi di vendita ( dal negozio al neg/ozio luogo di aggregazione), la bellezza e il piacere di vivere prima di tutto un’esperienza.
            Soprattutto quest’ultimo aspetto presuppone la nostra capacità di orchestrare sistemi di segni eterogenei che interagiscono con il corpo del modante. Il concetto di multisensorialità rappresenta nella teoria, il campo di applicazione del pensiero che esplora l’impatto che hanno i numerosi dispositivi inclusi nei punti vendita di nuova generazione, orientati a trasformare l’acquisto in esperienza(emozionale, passionale, cognitiva, estetica…). Colori, luci, suoni, odori “comunicano” qualcosa di sostanziale che può essere studiato e regolato. Lo dicono le neuroscienze; ma soprattutto lo suggerisce l’osservazione dei comportamenti dei clienti.
            Il passaggio dall’osservazione dei comportamenti alle pratiche riconfigurative del Retail è complicato, lo sappiamo bene tutti. Ecco perché le soluzioni sembrano avere un margine irriducibile di incertezza.
            Direi che come risposta alla prima questione di Vigirnia, quanto ho detto possa bastare.
            Veniamo alla seconda questione: perché diciamo che il punto vendita dovrebbe raccontare storie? Da un lato esiste un problema di identità che rimanda al riconoscimento sociale dei valori di un brand (le narrazioni danno una identità ad un punto vendita e al tempo stesso conferiscono valore all’esperienza, valore che può trasferirsi al prodotto). Ma io sono propenso a pensare che l’utilizzo di concetti come storie, narrazioni, favole sia il sintomo che oggi, percepiamo nettamente il cambiamento di paradigma nei consumi che disintegra le visioni del passato ancorate a target schematici, a consumatori piu o meno burocratizzati… oggi il consumatore è una persona; di che cosa sono avide le persone quando sognano (ovvero desiderano)? Sono avide di favole, di narrazioni. Noi acquistamo con più soddisfazione prodotti che danno senso alla nostra vita. Il senso tipicamente umano assume la forma di una narrazione (concatenazione di azioni e passioni). Ora, l’atto di configurazione del senso variabile di azioni e passioni, espresso attraverso dispositivi multisensorialità, produce una semantica emozionale estremamente potente e proattiva.
            Potrei continuare a lungo. Preferisco non appesantire con troppe parole i concetti portanti dei quali Virginia giustamente mi ha chiesto conto, essendo essi parte dell’impalcatura teorica che sorregge la mia rilettura degli Epicentri.

  3. Erika Bertini   8 Marzo 2015 at 18:45

    Dopo la lettura di questo articolo sono rimasta molto colpita rispetto a come esso potesse suscitare molteplici spunti di riflessione.

    Interessante la modalità con la quale riesce a farti viaggiare nel tempo, a farti scoprire cose del passato che non conoscevi, camminando tra parole impegnate a far comprendere la rilevanza di una conquista, quella di un’evoluzione scandita dal tempo e da un mondo chiamato MODA.

    Se evolversi, in “questo mondo”, significa rimodulare empiricamente e in termini esperenziali le dinamiche che stanno alla base del rapporto tra un brand ed il suo spazio, sia fisico che trascendente, quelle inerenti ad uno spazio e ad un prodotto, quelle riguardanti un luogo fisico ed un momento di vita, quelle che regolano l’introspezione di una percezione ed infine quelle tra contemporaneità e futuro, credo che le scelte di Prada siano orientate nella giusta direzione visto che siamo vivi in una post-modernità che ha bisogno di un’innovazione emozionale e di un’enfasi di senso e significato.

    Rispondi
  4. Peiwen Yuan   8 Marzo 2015 at 21:56

    Secondo tutte le aziende moda più importante è il prodotto (disegnato bene, prodotto meglio consegnato impeccabilmente, prezzo giusto) e il marketing deve essere fantastico (distribuzione accurata, comunicazione coerente, pubblicità accattivante, negozi funzionali).
    Le situazioni e i mercati cambiano rapidamente cambieranno ogni giorno, quindi la flessibilità e le nuove idee e nuovi modi di lavoro sarà la scelta migliore. Ogni comunicatore deve suscitare un’emozione una varietà di modi, al fine per promuovere l’acquisto di consumatori. Secondo diversi prodotti, diversi mercati, diversi consumatori, creare la migliore modo di vendere. L’attenzione al dettaglio e sapere flessibile della strategia.

    Rispondi
  5. Giuseppe Nardozza   8 Marzo 2015 at 23:06

    Trovo molto significativa l’affermazione fatta dal celebre architetto Jaques Herzog dopo l’inaugurazione dell’ Epicentro di Prada a Tokyo :” Prada rappresenta per noi un nuovo tipo di committente interessato a un nuovo genere di architettura. Questo approccio implica uno scambio di esperienze e genera un dibattito culturale. Non è la consueta relazione committente-architetto, poiché va oltre i limiti tradizionali dell’architettura e della moda, con risultati molto spesso superiori alle aspettative”. La collaborazione e la sinergia tra arte e moda, tra archistar e brand, è dunque un valore aggiunto; è l’unione tra un’anima emozionale (la moda) e un’anima razionale (l’architettura) che si completano a vicenda.
    Il problema da risolvere è che l’enorme aumento dei fatturati dei grandi brand, l’espansione della marca e il conseguente avvicinamento al commercio di massa, possono facilmente entrare in contraddizione con i valori dei clienti più fedeli al marchio (proprio quelli che hanno avuto da sempre un ruolo fondamentale per il successo del brand). Occorre quindi prestare attenzione, facendo in modo che l’espansione della marca non porti alla perdita d’identità del brand.
    Dal momento che è praticamente impossibile rinunciare ad una crescita globale, per poter mantenere i propri valori di base, si avverte la necessità di costruire nuovi luoghi per fare shopping diversi dagli standard imposti dal fashion system. Gli Epicentri di Prada, ad esempio, sono un’ottima soluzione a questa esigenza.
    Il rischio del gigantismo architettonico è però evidente: ingigantendo i luoghi di vendita, i brand corrono il rischio di fare enormi investimenti andando a peggiorare il problema invece che risolverlo e col pericolo di cadere nella banalità e nella noia. Per questo motivo le archistar rivestono un ruolo cruciale essendo in grado di trovare il giusto compromesso tra forma, emozione ed estetica.
    Il messaggio è dunque chiaro: i luoghi della moda non devono essere adibiti solo al mero commercio, ma vanno “vissuti” facendo esperienze di cultura d’avanguardia. Gli Epicentri di Prada rappresentano un punto di svolta poiché qui il cliente ha la possibilità di vivere un’esperienza a 360° e di sentirsi protagonista e parte integrante del brand. E francamente, io credo sia questa la strada da seguire.

    Rispondi
  6. Luciano   9 Marzo 2015 at 20:42

    Sono interessato ad approfondire il Retail visto in ottica narrativa. Mi sembra di aver capito dall’articolo e dai commenti che abbiamo due livelli di racconto: il primo è il negozio/racconto tale per cui io percorro gli spazi Prada e ho davanti agli occhi una sorta di documentario del mondo al futuro anteriore; il secondo livello di racconto scaturisce dal rapporto tra prodotti e contesto, tale per cui, per esempio, con questa giacca o altro io posso portarmi via qualcosa che eccede la merce e che potremmo definire il particolare stile di vita evocato dalle narrazioni citate.
    Il fatto che consumiamo narrazioni trasforma l’acquisto in esperienza. Chiedo all’autore dell’articolo: la mia sintesi è corretta o c’è dell’altro?

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   10 Marzo 2015 at 13:44

      Direi di sì, la tua sintesi è corretta. Io aggiungerei tra le storie possibili, anche quelle post quem, legate all’esperienza di acquisto. Sembra provato che per un cluster di consumatori in crescita, il racconto ad altri della propria esperienza di acquisto riversta una valenza particolare nel godimento complessivo del bene in oggetto.

      Rispondi
  7. Ross92   11 Marzo 2015 at 19:22

    Letto l’articolo sono rimasta indecisa se Prada abbia creato gli Epicentri per glorificarsi oppure li abbia fatti pensando alla soddisfazione dei suoi clienti. Ho un’altro dubbio: se facciamo edifici così seducenti non corriamo il rischio di concentrare l’attenzione solo sull’architettura? E il prodotto?

    Rispondi
  8. Gabriele   12 Marzo 2015 at 09:31

    Cara Ross, perché non tutti e due? Gli Epicentri di cui parla l’autore devono essere per forza una conseguenza della riflessione strategica sul brand; quindi rappresentano i suoi valori. Nello stesso tempo come possiamo immaginare che si investano tante risorse senza prendere in considerazione l’evoluzione dei consumi e della clientela? Giusto a sbagliato che sia, è certo che per Prada entrambe le tue considerazioni fanno parte dello stesso problema.
    Sarebbe più proficuo chiedersi se hanno funzionato o se sono ancora la risposta Retail giusta. Ma su ciò l’autore ha fatto il Ponzio Pilato. Se Prada potesse tornare indietro rifarebbe gli Epicentri?

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   12 Marzo 2015 at 20:27

      Non ho cercato di emulare Ponzio Pilato. Semplicemente non avevo le informazioni per scrivere qualcosa di sensato sulla profittabilità degli Epicentri. Possiamo fare solo congetture. Il business di Prada funziona, gli Epicentri continuano a rimanere aperti quindi possiamo intuirne l’efficacia. Non posso asserire con certezza quello che chiedi: Prada rifarebbe gli Epicentri? Io penso di sì. Ho cercato di dimostrare che il loro progetto non era motivato da un esibizionismo architettonico/urbanistico fine a se stesso. Bensì integrava e correggeva alcune ferite del brand causate dalla eccezionale espansione del mercato, interrogando lo stato delle relazioni con i clienti della marca, rispondendo alle difficoltà con scelte audaci, all’avanguardia.
      Inoltre, devi considerare che fatta una scelta, aldilà delle intenzioni strategiche, vanno tenute presenti anche le conseguenze inintenzionali. In altre parole, gli Epicentri, nel preciso momento in cui sono stati aperti al pubblico, esistono indipendentemente dalle intenzioni dei progettisti. Come tali sono interpretabili come qualcosa che esiste nel mondo e si dà all’interpretazione di chi li incontra, secondo un registro oggettivo e soggettivo, non interamente calcolabile a priori.
      Per questo motivo i significati attesi sono spesso in contrasto con quanto si riscontra. E’ chiaro che gli esperti nel Retail vorrebbero che tutto fosse sotto controllo. Ma in realtà questo non avviene quasi mai nei modi che tutti auspicherebbero. In realtà il punto vendita efficace è un cantiere sempre aperto.

      Rispondi
  9. Menghan Tang   12 Marzo 2015 at 22:43

    Dopo la lettura di questo articolo ho pensato l’altro gigantismo architettonico-Museo della Fondazione Louis Vuitton,Frank Gehry è il suo architetto. Dentro museo non c’e nessuna opera di Louis Vuitton ma c’e esposizioni d’arte contemporanea, mostre fotografiche, concerti, sfilate.Non lo so se questo museo c’e la valore dal punto di vista dello spazio espositivo, perché con tutti questi vetri e punti panoramici, si ammira di più l’architettura che l’arte. Secondo me è un comunicazione,o un nuovo concetto d’internazuine con i propri clienti?

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  10. Ting Zhang   13 Marzo 2015 at 14:50

    il ritmo del mutamento dalla moda è divenuto sempre più veloce,le esigenza dei clienti sono sempre più esigenti,Come migliorare la competitività del marchio?è necessario che in base alle esigenze del cliente per rendere l’innovazione. I clienti sono del tradizionale shopping,progettare gli Epicentri come una sorta di punto di svolta. dobbiamo progettare un punto vendita che ci sono i funzioni da aggregare -Flagship store, Flagship store è molto importante per il brand, flagship store è il simbolo e l’immagine del brand.
    Quindi,le relazioni tra stilisti/manager e architetti sono molto confidenza.Cito le parole del professor“ i concetti e i modi di pensiero portanti, di moda e architettura stavano cambiando, rendendo suggestivo lo scambio di prestazioni tra stilisti e architettura .”Una buona comunicazione consente agli architetti di progettare un flagship store ambiente di shopping creativo, non solo per soddisfare una più ampia varietà di merce, negozio di design ha le proprie caratteristiche, in modo che ai clienti di sperimentare una nuova esperienza di shopping.

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  11. Antonella   14 Marzo 2015 at 05:42

    Vorrei chiedere all’autore dell’articolo due cose: 1. dove posso trovare altre analisi sul Retail del tipo che ha proposto con gli Epicentri. Di solito incontro libri sui negozi pieni di fotografie e scarne informazioni. Ho trovato interessante e per me nuovo, il percorso analitico dello spazio Prada. Mi piacerebbe approfondire l’argomento. 2. Premetto che non sono mai stata in un Epicentro. Detto questo, mi chiedo quale tipo di esperienza immaginava Prada per i suoi clienti negli Epicentri.

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  12. Lamberto Cantoni
    Lamberto cantoni   14 Marzo 2015 at 18:23

    Mi piace pensare che Prada, con il progetto Epicentri, abbia focalizzato una nuova figura di protagonista del Retail che definirei il CONSUM(ATTORE). L’articolazione degli spazi, gli effetti multisensoriali, l’analisi semiotica delle narrazioni configurate, a mio avviso, fanno emergere la possibilità di recitare un ruolo sostanzialmente inedito per il cliente (tieni presente che stiamo parlando di un processo collocabile tra la fine degli anni novanta ai primi anni del terzo millennio). Al consum(attore) non vendo abiti ma offro l’esperienza di sentirsi un protagonista.
    Questo dovrebbe bastare per il tuo punto 2.
    Veniamo alla tua richiesta di approfondimenti.
    Ti segnalo due libri.
    Claudio Marenco Mores, Da Fiorucci ai Guerrilla Stores(ed.Marsilio): un brillate saggio che ci restituisce un appassionante percorso riconfigurativo dei punti vendita simbolici della moda con una particolare attenzione alle significazioni indotte dalle complesse relazioni tra moda e architettura.
    Daniele Tirelli, Retail Experience in USA, (Franco Angeli): una interessatissima selezione di punti vendita americani analizzati con uno stile di ricerca innovativo.
    Del libro di Tirelli ti segnalo il saggio intitolato “Allsaints Spitalfields: l’immagine inquieta dell’anti-moda”.

    Rispondi
  13. Laura Cavra   29 Marzo 2015 at 14:43

    Dalle boutique, luogo di rappresentazione del brand, siamo passati con gli Epicenti a una” nuova forma di cultura capace di rivaleggiare con valori dalle significazioni apparentemente lontane dal concetto portante della moda”.
    Si è incominciato a parlare di esperienza di acquisto multisensoriale come risposta ad un individuo con una predisposizione intellettuale verso la moda.
    Ma cosa significa soggetto con predisposizione intellettuale verso la moda?
    Posso comprendere che alcuni brand emergenti o di avanguardia abbiano costruito intorno a loro una vera e propria “cultura” grazie ad una proposta moda fuori e contro gli schemi preesistenti. Il modante è visto come individuo indipendente, soggetto sensibile alla cultura- moda libera da intenti di brandizzazione o esclusivamente commerciali.
    Considero però Prada distante da questo tipo di brand.
    Inoltre gli Epicentri vengono definiti come “… il massimo sforzo per strappare il senso profondo della moda al fascino della novità fine a se stessa…”
    Come è possibile che ciò sia vero con una proposta da parte di Prada, solo per la donna, nelle due collezioni principali, di più o meno 700 capi ciascuna? C’è veramente novità?
    Vedrei un soggetto con “predisposizione intellettuale verso la moda” (chiarito il reale senso della definizione) più rivolto verso un brand del primo tipo rispetto a Prada.
    Gli Epicentri sono quindi realmente riusciti nel loro intento?

    Rispondi
    • Eliana   5 Aprile 2015 at 19:31

      Vorrei rispondere a Laura con una notizia. Prada, proprio vicino al suo epicentro di Tokyo ha recentemente inaugurato una nuova super boutique. Quindi credo proprio che l’Epicentro abbia portato in zona un pubblico numeroso che ha reso indispensabile un nuovo punto vendita. Altrimenti avrebbe potuto fare semplicemente un restyling al suo epicentro!

      Rispondi
  14. Federica   29 Marzo 2015 at 17:59

    La domanda che mi sorge spontanea dopo aver letto l’articolo é: “quanto realmente gli epicentri riescono ad aumentare le vendite di Prada?”.
    A mio modesto parere l’unione tra moda ed architettura, mirata ad ottenere una diversa esperienza del luogo di vendita, in realtá cambia esclusivamente la percezione del brand/oggetto moda ma non ne aumenta la vendibilità. Uno spazio in cui l’individuo viene sovrastimolato causa uno stato di disorientamento in cui il prodotto perde di rilevanza.

    Rispondi
    • Antonio Bramclet
      Bramclet   6 Aprile 2015 at 07:47

      Federica, se ti trovi sovrastimolata in un epicentro, allora in un centro commerciale o in un supermarket che fai? Ti tiri una revolverata?

      Rispondi
      • Alex   8 Aprile 2015 at 13:34

        Trovo legittimo porsi il problema di quanto i bei contenuti elencati dall’articolo dell’autore abbiano poi trovato un riscontro tra i clienti veri. Comunque se Prada ha costruito solo gli epicentri citati e sono dieci anni che non ne fa uno nuovo una ragione ci sarà, credo.

        Rispondi
      • Federica   16 Aprile 2015 at 15:26

        Ciao Bramclet, sinceramente non riesco a trovare il nesso tra un supermarket ed un epicentro… Non credo possano essere paragonate le due strutture, nè tantomeno i motivi per cui un x cliente si rechi in uno o nell’altro luogo. La “revolverata” non me la tirerei in nessuno dei due casi, era una semplice osservazione in merito alla possibilità di aumentare le vendite attraverso questo tipo di strategia.

        Rispondi
        • Antonio Bramclet
          Bramclet   18 Aprile 2015 at 01:50

          Cara Federica il nesso lo hai suggerito implicitamente tu lamentando la sovrastimolazione degli epicentri.
          Dal momento che è noto quanto i supermercati siano configurati per scatenare i consumi attraverso l’ostentazione plateale del prodotto, allora, mi sono chieso, se Federica si trova bombardata percettivamente in un epicentro in cui molti spazi sono free rispetto l’esibizionismo delle merci, chissà poverina come si sentirà molestata dai migliaia di prodotti di un supermercato! Ho tutto il rispetto per le semplici osservazioni, ma ritengo possano esistere anche le semplici osservazioni che assomigliano moltissimo a stronzate.

          Rispondi
  15. Mariangela   19 Aprile 2015 at 20:05

    Interessante è la componete temporale interna al binomio moda/architettura. Due diverse modalità di percezione del tempo, quasi opposte l’una all’altra, la prima (moda) effimera, transitoria, e la seconda (architettura) monumentale, con carattere che tende ad una percezione di durata che sembra illimitata.
    Le due temporalità riescono a trovare una perfetta sintonia, soprattutto nell’epicentro di Seul, che con la sua possibilità di cambiamento, di spazio e forma, azzera qualsiasi gerarchia tra architettura e moda.

    Rispondi
  16. lavinia   20 Aprile 2015 at 11:58

    Il consumatore moderno è sicuramente evoluto, preparato, sofisticato e sovrastimolato, quindi è normale che abbia il costante bisogno di nuove ed articolate esperienze sensoriali che possano in un qualche modo catturare la sua attenzione e spingerlo all’acquisto. Tutta questa sovrastimolazione sensoriale a mio parere ha innescato la necessità dei Brands di catturare l’interesse dei potenziali acquirenti non solo attraverso un prodotto attraente dal punto di vista del design e della qualità ma anche dalla necessità che lo stesso sia esposto all’interno di una struttura che lo valorizzi…… ma il punto è il prodotto all’interno di queste megastrutture dall’architettura accattivante non rischia di perdere la sua centralità? Io mi chiedo se il cliente sia attratto a visitare l’epicentro perché attratto dal Brand e dai suoi prodotti o perché attratto dall’architettura dell’epicentro? In questo modo non si rischia di far prevalere il contenitore sul contenuto?

    Rispondi
  17. sara   23 Aprile 2015 at 09:01

    Credo che sia una tendenza generale della nostra società tecnologica veder prevalere i contenitori o le forme sui contenuti.

    Rispondi
  18. Poli   4 Maggio 2015 at 10:37

    Un’articolo molto interessante che va in profondità e guarda il tema a 360 gradi.
    Comunque, penso che l’attenzione da parte dei brand verso la creazione degli spazi particolari fuori della loro patria è dato dalla necessità di creare un’immagine. Prada è un brand italiano, dentro il Paese non ha bisogno di presentarsi, gli italiani nascono conoscendo Prada, possono non essere i suoi clienti, ma lo conoscono. Invece in Giappone, in anzi tutto, c’è la mentalità e visione del mondo diversa da quella europea; secondo, c’è più concorrenza, perché per un giapponese che un brand sia francese o italiano, è straniero. Non basta dire “sono Made in Italy”, devono comunicare la loro identità, devono far percepire chi sono, e in quel caso, punto vendita particolare è un perfetto mezzo.

    Rispondi
  19. Daniele Tirelli   26 Maggio 2015 at 12:28

    Lo sforzo di Lamberto Cantoni nel decifrare il grande enigma dei flagship contemporanei è davvero pregevole. Le sue considerazioni sono meticolose ed elaborate. Ci danno, pertanto, l’impressione di poterne comprendere la scoraggiante complessità sociologica. I ragionamenti di Lamberto danno coerenza al legame tra estetiche dei luoghi e personalità delle marche. Decodificano straordinarie soluzioni che indubbiamente resteranno in gran parte nella storia dell’architettura e del design. In questo modo il triangolo tra “creatore”, committente e critico trova il suo equilibrio, ma, vista la ricchezza inesauribile del fenomeno, dal mio punto di vista sarebbe divertente, più che importante, seguire anche un’altra traccia di esplorazione e di ricerca.

    Essendo interessato più alla cultura popolare e “materiale” che non a quella “alta” e accademica, mi chiedo quale sia il senso di queste espressioni di una nuova “religione urbana” che, ovunque nel mondo, penetra agevolmente barriere geografiche e culturali per altri versi proibitive. Ovvero: come possiamo circoscrivere e quantificare il senso di stupore suscitato da questi templi dedicati a prodotti di consumo, che si trasformano in fonti di stimoli sublimanti di desideri? In che misura l’interpretazione critica dello studioso riflette e accomuna le infinite sensazioni provate dalle moltitudini di popolazioni sempre più “clusterizzate” nei propri stili di vita? Quale linguaggio scaturisce, ad esempio, dalle simbologie degli Epicentri e qual è il risultato finale dell’ “ermeneutica” ad esso applicata dalla gente comune che soggiace al loro fascino?

    L’architettura di questi flagship rimanda indubbiamente, in modo consapevole o no, a molti archetipi delle tradizioni umane e religiose delle civiltà occidentali, in particolare. In quanto sostituti di centri sacri decaduti, i flagship rinnovano alcuni aspetti sacrali delle religioni vere e proprie. Non generano solo stupore, ma anche reverenza e contemplazione. Le loro strutture interne ed esterne, gli oggetti e i simboli che espongono, le atmosfere musicali, gli stimoli esortativi ad una “vita superiore e perfetta” rivelano quella notevole ricchezza di significato umano che è tipica dei centri cerimoniali.

    L’ambiente in cui i consumatori veri, potenziali e immaginari si trovano immersi attiva l’immaginazione, sfiora l’incantesimo, come osservavano, in altri contesti, Max Weber e Mircea Eliade. La materialità degli oggetti giustificata dalla loro funzione d’uso sfuma. Si condensa nell’astrazione del desiderio sollecitato dall’esperienza di uno spazio “magico”, irripetibile (nella vita quotidiana) e non più raggiungibile (quando è parte di una meta turistica).

    Non a caso i flagship si aprono ai flussi turistici (e non a caso vengono collocati nei grandi attrattori urbani). Dunque, essi orientano i nuovi “pellegrini” verso il compimento del desiderio pur se solo raramente esso si conclude con l’acquisizione del bene incantato. Incanto: ecco l’attributo sempre più debole dei centri commerciali a cui sopperiscono i flagship studiati da Lamberto. Le loro migliori realizzazioni ci promettono la comunione con i nuovi “santi” glorificati dallo star system, chiedono la devozione in cambio dell’amore e della felicità, in breve, esplicitano benefici un tempo offerti, appunto, dalle pratiche religiose tradizionali. Il pellegrinaggio è dunque l’altro aspetto che caratterizza il flagship. Il viaggio intrapreso dai consumatori punta al raggiungimento di un luogo ricco di simbologia ’idolatrica’ in cui essi credono si espliciti quell’idea sublime della marca che solo lì è possibile afferrare totalmente. Spesso l’accesso lungamente desiderato a questi templi di “nuovi culti pagani” corrisponde ai “riti di passaggio” che fissano i tratti intrinseci ed estrinseci della propria identità e dell’appartenenza a determinati gruppi sociali (“anch’io, … finalmente!).
    Dunque il lavoro di ricerca può dirsi tutt’altro che concluso o recluso nell’ambito della moda. Comprendere più a fondo questi laboratori del gusto significa comprendere meglio noi stessi.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   30 Maggio 2015 at 12:00

      Sono d’accordo con le contaminazioni con il “sacro” segnalate da Daniele. Nell’articolo Vuitton & Gehry, pubblicato su Mywhere qualche mese or sono, avevo cominciato ad esplorare questa nuova frontiera della moda.
      Io proporrei di definire alcune figure di clienti Prada, previste dagli Epicentri intesi come fenomeno di testualità, i pelle-grini: il sacro dunque che interagisce con la pelle del consumatore.
      Vorrei aggiungere che, a mio avviso, Prada fa parte certo della cultura materiale avvicinabile “turisticamente” da chiunque, ma al tempo stesso è uno dei brand della moda più concettuali in circolazione. Il tipo di pubblico che intenzionalmente si ritaglia, appartiene alle élite culturali della moda. Le brusche contro-tendenze che la marca mette in opera con il susseguirsi delle collezioni, possono effettivamente essere pensati come riti di passaggio da un Desiderio ad un’altro Desiderio. Funzionando per salti creativi e non per gradation, ripropongono ogni volta questioni legate alla significanza degli “oggetti moda”.
      E’ chiaro che tutto questo ha a che fare con il “sacrificio”: il cambiamento di stile è molto più radicale rispetto a quello di altri brand…in altre parole, si richiede ai modanti riconfigurazioni della propria identità visiva che li allontanano da oggetti sino a quel momento investiti di emozioni. Io credo che la grande attenzione di Prada per lo spazio in cui avviene il contatto con il nuovo oggetto, dipenda dal tipo di lavoro che la marca esercita sul corpo della cliente. Prada ci chiede, seguendo i ritmi delle collezioni, di riconfigurare continuamente ciò che immaginavamo potesse essere “moda”, sacrificando ogni volta una parte di noi stessi. Il tumulto percettivo imposto dagli epicentri unitamente alla loro articolata grandiosità, è stata una risposta al problema della messa in processo delle identità, in linea con la visione rigeneratrice del brand.

      Rispondi
  20. Luci   3 Luglio 2015 at 16:47

    I consum/attori l’ho capito. I pelle/grini un po’ meno. Ma i normali clienti sono spariti?

    Rispondi
    • Massimo   27 Luglio 2015 at 09:14

      Non ho mai visto personalmente un Epicentro ma per quello che posso capire dopo aver letto l’art. non mi sembrano proprio negozi normali. Quindi, evidentemente la normalità non rientrava nei progetti Prada. L’idea che i nuovi spazi assomiglino a delle cattedrali, come commenta Tirelli, può effettivamente far pensare a clienti pelle/grini.

      Rispondi

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