Guerre di moda

Guerre di moda

Con le sfilate di Parigi è finita la prima parte del grand Tour della moda 2018. Anche se in apparenza le Fashion Week sembrano gioiose fiere di future vanità, in realtà a un livello spesso imperscrutabile dal senso comune, sono anche il terreno di serrate competizioni e di conflitti

 

 

  1. Prologo

All’inizio del terzo millennio o giù di lì, tra gli addetti ai lavori che in qualche modo si trovavano coinvolti nel circuito internazionale della moda, in particolare tra gli opinion leader di giornalisti anglosassoni, cominciò a circolare l’idea che la moda italiana non fosse più quel punto di riferimento fondamentale che era stata negli anni d’oro del Made in Italy.

Questa eterogenea piccola folla di comunicatori non metteva tanto in discussione il fatto che il nostro sistema moda fosse rimasto, malgrado la crisi di immagine del nostro Paese e criticità delle quali parlerò più avanti, tra i più completi del pianeta. Infatti, a tutt’oggi, nessuna nazione al mondo può vantare una filiera produttiva vasta, articolata e sincronizzata come la nostra. Detta in parole brevi, per un ragguardevole numero di questi comunicatori di sfilate, la moda italiana era troppo commerciale, noiosa, polverosa, poco aperta ai giovani, lontana dai picchi emotivi della avant-Garde. C’erano certo eccezioni come Prada, Gucci, Dolce & Gabbana. Ma quando descrivevano o alludevano al concetto di “moda italiana” (e non le collezioni del singolo brand), il giudizio di tanti era più o meno conforme a quanto ho sintetizzato sopra. Persino un fuoriclasse dello stile come Giorgio Armani, amato e comprato in tutto il globo, ai loro occhi, spesso risultava scontato, ripetitivo, troppo coerente. Insomma sembrava che la propensione del nostro sistema moda a “vestire il mondo” e non solo lo star system o sofisticate tribù dello stile, non valesse nulla e venisse vissuta quasi come un oltraggio alla vera moda, che doveva essere sempre rivoluzionaria e ovviamente creativa oltre ogni misura.

In un crescendo sospetto, tra il cluster di esperte/i che ho evocato, il giudizio sommario sulla creatività e il valore della moda italiana cominciò a sembrare anche un vero e proprio attacco alle sfilate di Milano.

Intendiamoci, questi discorsi raramente venivano esplicitati partendo da una analisi seria del nostro sistema moda o in una coerente e strutturata critica delle collezioni come, solo per fare un esempio, negli articoli che hanno reso famosa Suzy Menkes, implacabile ma leale nelle sue analisi. Mi piace pensare che in questa forma sarebbero sempre stati i benvenuti. Non conosco nulla di più prezioso del ricevere una critica coraggiosa, senza secondi fini, per consentirmi dare una spolverata al cervello e farvi un po’ di manutenzione. E di certo il sistema moda italiano non è stato immune da errori, ritardi, scelte sbagliate. Sono convinto che nessun brand della moda italiana ha mai sottovalutato l’incremento di conoscenza che discende dal confronto con analisi critiche serie. Ma ovviamente non sto parlando di questo. Intendo piuttosto riferirmi a sussurri, sorrisini ironici, toccate e fuga da Milano (perché restarci una settimana se tutta la tribù di esperte ha già deciso che è inutile, tanto non succederà nulla di eccitante); parlo di pretenziosi articoletti mandati al proprio magazine o blog che facevano apparire dei capolavori letterari gli scarni comunicati stampa prodotti dagli uffici stampa dei brand (sempre più sintetici, tanto non li legge nessuno, si dice). Del resto, se ci pensate bene, ci sono molti modi editoriali per trasformare il sentimento di supponenza nei confronti della moda italiana in mille piccole picconate simboliche che messe assieme possono avere un impatto devastante. L’ultimo romanzo che scrisse Umberto Eco prima di lasciarci, Numero zero (Bompiani 2015) possiamo leggerlo anche come una divertente parodia di come si possa usare chirurgicamente un prodotto editoriale per delegittimare, per depistare, per amplificare fatti in vista di ben altri obiettivi, invisibili ai lettori. A tal riguardo, vorrei aggiungere che spesso nel recente passato, leggendo dichiarazioni, interviste, articoli, titoli, apparsi su testate di lingua inglese, ho avuto la percezione che aldilà del contenuto specifico, fosse al lavoro il picconamento ricordato sopra. A questo punto avrete capito che la materia da smartellare, per ridimensionarne l’impatto era il prestigio del nostro sistema moda e del suo più importante centro simbolico cioè Milano con le sue sfilate.

Dobbiamo altresì riconoscere che fa parte del gioco fare il tifo per la propria moda nazionale. Come non capire la frustrazione di un certo giornalismo di moda americano, schierato a difesa della Fashion week newyorchese, mai veramente decollata e oggi in caduta libera? O del comprensibilissimo orgoglio inglese per difendere la creatività british giustamente magnificata nelle sfilate londinesi? Per non parlare della monumentale autostima dei francesi, da sempre impegnati a promuovere il mito di una Parigi capitale mondiale del lusso?

Ma l’occhio di riguardo per il proprio giardinetto non legittima a buttare immondizia in quello degli altri. Il lettore giovane poco attento ai problemi geopolitici della moda potrà essere sorpreso da ragionamenti così banalmente provinciali. In un certo senso ha ragione: in un mercato globale delle immagini e della comunicazione cosa può contare se sfilo a Milano piuttosto che a New York? Se con il web posso arrivare dappertutto perché perdere tempo a litigare su dove, quando potrei sfilare? Mi spiace tanto ricordartelo, caro lettore giovane, ma le mappe (virtuali) non sono il territorio, lo possono rendere liquido ma non liquidare. Ed è proprio l’attuale accelerazione digitale di tutti i processi moda che, per essere efficaci necessitano di momenti di integrazione con l’ordine di realtà primario (cioè il mondo dei fatti concreti), a rendere il territorio ancora più prezioso. A me sembra chiaro che, le pur efficacissime, devastanti immagini digitali non stanno cancellando il bisogno di ritualità bensì, pur con tutte le modificazioni che volete, lo rafforzano

Ecco perché le settimane della moda, con le sfilate e il resto dello spettacolo, malgrado la trasformazione tecnologica e del mercato in atto, continuano ad essere fondamentali per dare, tra le altre cose, un centro simbolico a una molteplicità di agenti, agenzie, soggetti, aziende che, se ne traduciamo a livello olistico l’impatto, hanno la proprietà di presentare al grande pubblico una visione d’insieme della moda intesa come uno dei motori economici e assiologici della nostra forma di vita. Nessun brand può autonomamente nemmeno sfiorare questo livello di senso, pertinente a legittimare la moda come positivo elemento operazionale di una società aperta (democratica, plurale, libera).

La valenza dei valori che l’insieme degli eventi di una Fashion Week, trasmettono in forma di immagine o di prestigio può far sorridere filosofi o teologi, ma per la gente che anima la modazione (il processo della moda) rappresentano emozioni, sentimenti pregnanti, uno stimolo a prendersi cura del sé libero da costrizioni, aperto al confronto e alla pluralità dei modi di esibirsi.

Naturalmente sono anche in gioco fatturati, ricadute economiche sulla città, interessi di natura politica.

Insomma, la geografia della moda, nel corso del tempo, ha consolidato alcuni luoghi o territori nei quali i brand, ritualizzando le loro performance estetiche, contribuiscono a generare una adesione diffusa a particolari forme moda. Milano è uno di questi e relativamente al pret à porter gode di una reputazione invidiabile, alimentando la disposizione di un pubblico internazionale a concepire il prodotto italiano secondo standard qualitativi superiori a quelli di altri Paesi.

Probabilmente tra il 2008/12 Milano ha incontrato seri problemi. Negli ultimi anni, grazie anche a un cambio di marcia della CNMI ha recuperato prestigio e le sfilate appena terminate hanno confermato la sua centralità.

Tutto questo per dirvi quanto possa essere importante in scala maggiore, cioè a livello sistemico, la buona salute di una Fashion Week. Lo ripeto, a livello molecolare i luoghi di ciò che mi piace chiamare il Gran Tour della moda, appaiono come la presentazione di collezioni ad un pubblico specializzato affinché ogni brand possa esibire (e far misurare) la sua fitness; a livello molare cioè olistico, l’insieme degli eventi programmati (compresi quelli culturali) fanno emergere una significazione mitica difficile da ridurre in una formula semplice ma dagli effetti visibilissimi: aumento del prestigio della città e del sistema moda che ruota intorno ad essa; un forte sentimento diffuso di essere protagonisti su una scena mondiale rafforzato da ricadute economiche crescenti sia in termini monetari e sia per il maggiore appeal turistico.

Se quanto dico corrisponde al vero allora, è comprensibilissimo che tra New York, Londra, Milano e Parigi, possano nascere attriti alimentati anche dai comunicatori di sfilate, alcuni dei quali trovano scontato ostentare il proprio orgoglio nazionale.

Ma come ho detto sopra, il problema non è la competizione o l’emulazione tra fashion week. La moda, come tutta l’economia del resto, è in stato di guerra permanente. Si tratta di conflitti mai dichiarati o concordati con le parti avverse. Non implicano orrori o stermini. Ma sono letali per aziende, posti di lavoro, spostamento di risorse. È chiaro che una certa parte della gente che conta in una superpotenza del mercato come gli Stati Uniti e in una città-mondo come New York, nella quale si concentra l’editoria moda più potente del pianeta, non possono che storcere il naso nei prendere atto della supremazia di Parigi e Milano. Trovo scontato che ambiscano ad attirare nella loro fashion week i brand più importanti e presentarsi come una imprescindibile finestra sui look che si imporranno tra la classe media internazionale, così come Hollywood domina il mondo del cinema.

La questione è, se questo obiettivo tutto sommato condivisibile,  autorizzi o meno all’uso di tecniche di manipolazione delle informazioni e a strategie di delegittimazione nei confronti delle altre realtà in gioco.

Forse troverete esagerate le mie parole. In definitiva stiamo parlando perlopiù di infotaiment, di critiche estetiche, di interviste, di articoli o redazionali che il giornalismo classico appena sopporta (per la presenza invadente degli investimenti pubblicitari delle marche della moda, suppongo; pregiudiziale che condivido solo in parte dal momento che, in modo surrettizio si vorrebbe far credere che le pagine della politica o della finanza sarebbero immuni da pressioni economiche e dalla cattiva informazione).

Tuttavia, come sta succedendo nel web con le Fake News, è da ingenui sottovalutare il potere destabilizzante di mille piccole provocazioni, che prese individualmente possono apparire ininfluenti, ma che rilanciandosi  e circolando in modo virale possono compromettere in modo serio individui, aziende, e persino un complesso sistema-moda.

Dal momento che dal punto di vista dei valori la libertà di opinioni è sacrosanta, così come lo è la libertà del giornalismo di indagare in ogni direzione, a me pare che l’unica soluzione a questo problema sia monitorare, vigilare sulla fondatezza di eventuali informazioni, rispondere a provocazioni solo quando il silenzio rafforzerebbe la legittimità di opinioni o notizie che abbiamo valutato tendenziose, rendendole virali.

Camera nazionale della moda italiana

2.   CNMI  v/s  New York Times

L’ordine di considerazioni che ho sinora avanzato mi permette di presentarvi in un contesto adeguato, l’ultimo caso di reportage, considerato dalla CNMI (Camera Nazionale della Moda Italiana), un attacco a Milano e al nostro Fashion System, pubblicato sul New York Times il 20 settembre, guarda a caso proprio all’inizio delle sfilate milanesi.

L’articolo, firmato da Elisabeth Paton e Milena Lazazzera porta il titolo: Inside Italy’s Shadow Economy ed è una inchiesta sulle assurde condizioni di lavoro a domicilio che tante donne pugliesi accettano per far quadrare il bilancio familiare in una regione italiana caratterizzata da alta disoccupazione e lavoro nero.

Leggendo l’articolo, anche se purtroppo si tratta di un fenomeno conosciuto da tempo, è impossibile evitare il senso di sconcerto e frustrazione nel prendere atto che, pur protetti formalmente dal punto di vista della legalità, grandi brand del lusso si trovino in qualche modo implicati in modalità di lavoro, come scrivono le autrici, paragonabili a quelle dell’India, Bangladesh, Vietnam e Cina.

Come si arriva a questa aberrazione della filiera del lavoro in un Paese leader nel segmento di mercato moda più ambito? Tutto parte dal sistema degli appalti (esternalizzazione di routine di lavoro). Un brand del lusso indice una sorta di gara proponendo un prezzo iniziale molto basso. Questo prezzo viene accettato da piccole aziende stressate dalla crisi che per poter guadagnare qualcosa lo subappaltano a terzi fino ad arrivare alle lavoranti che a casa propria effettuano il lavoro per una miseria.

C’è da dire che le due autrici mettono il dito sulle probabili cause dell’abitudine alla precarietà e al cosiddetto lavoro nero: gli effetti della globalizzazione (concorrenza di Paesi nei quali il lavoro soprattutto quello delle donne assomiglia a una nuova forma di schiavitù), frammentazione del nostro sistema produttivo, un inspiegabile ritardo politico nelle riforma fiscale del lavoro, noncuranza dei Brand del lusso nei confronti delle conseguenze inintenzionali del loro potere di imporre compensi al ribasso per massimizzare i profitti, il cinico sfruttamento dei subappaltatori dell’apparente benessere psicologico di chi lavora a casa propria (possibilità di continuare a fare tutti i lavori che consentono di tenere insieme una famiglia). Naturalmente per generalizzare il sentimento di sconcerto generato dalle parole delle donne intervistate e trasformarlo in un razionale seppur drammatico sintomo di un problema strutturale del fashion system italiano, le due autrici citano ricerche e dati statistici che a loro avviso confermerebbero l’estensione del fenomeno. Per rafforzare ulteriormente il valore dell’inchiesta, citano ad esempio il libro di Tania Toffanin, Fabbriche invisibili (ed.Ombre Corte 2016) nel quale l’autrice stima che vi siano dalle 2000 alle 4000 lavoranti irregolari, impiegate nella produzione di abbigliamento. Subito dopo citano Deborah Lucchetti alla quale praticamente mettono in bocca questa frase: “According to Ms.Lucchetti, the fragmented strutture of the global manufactoring settore, made up of thousands of medium to small, offen family-owned, business, si a key reason tha practices like unregulated home working can remain prevalent even in a first world National like Italy”. Devo dire che a questo punto della lettura ho avuto un sussulto. Ma come, prima scrivi che le lavoranti irregolari sono 2000-4000 che su 500 000 complessivi sono in percentuale quasi niente, poi nel paragrafo che segue dici che il lavoro non regolamentato in Italia ha un carattere prevalente. Possibile che una giornalista come Elisabeth Paton, formatasi a Oxford, accreditata reporter prima del Financial Times e poi dal 2015 autrice di significativi articoli sulle sfilate più importanti del gran tour della moda per il New York Times, non si sia resa conto della incongruenza? Possibile che non riesca a comprendere le conseguenze per il lettore distratto? Rileggendo attentamente l’articolo, titolo a parte, all’inizio sembrerebbe coinvolta la Puglia (60 donne interpellate delle quali conosciamo l’opinione di un paio), ma poi si passa direttamente al Made in Italy introducendo una stima del 1973 (mezzo secolo or sono, ovvero quando il sistema produttivo che oggi riconosciamo con l’etichetta citata, ancora non esisteva come rete integrata o filiera) dell’economista Sebastiano Brusco, il quale calcolava che a quel tempo fossero un milione i contratti irregolari non intercettabili da chi elabora statistiche. I quali, seguendo la sospetta strategia argomentativa dell’autrice, andrebbero aggiunti ai 3 milioni e passa, documentati dall’Istat (rapporto 2015). Ma qual’e la scala del fenomeno implicato da questo numero? Tutti i comparti dell’economia italiana? Certo è così. Ma perché non aggiungere, come dichiara il rapporto ISTAT citato dalle autrici che i settori più coinvolti sono attività creative, artistiche e di intrattenimento, le lotterie, le scommesse, riparazioni di computer…commercio, agricoltura, trasporti, alloggi e ristorazione. Non mi pare di aver letto nel rapporto alcun significativo riferimento alla moda. Allora perché l’autrice presenta dati eterogenei in un modo così sconcertante?  Probabilmente perché è certa delle sue assunzioni iniziali che a me sembrano piuttosto dei pregiudizi. Elisabeth Paton in realtà non voleva fare una vera inchiesta o reportage, bensì dimostrare un suo teorema: così come in generale l’economia italiana ha radici marce, la moda nazionale non può che averne ereditato le cattive abitudini. Il reportage dunque è un trucco utilizzato per abbindolare il lettore con una narrazione a forte tonalità emozionali prodotte dall’empatia con le donne intervistate e con l’odio o il disgusto per i brand reticenti a prendersi le proprie responsabilità, il cui fine è quello di avvalorare un discorso che demolisce l’aura mitica che circonda i prodotti moda italiani. Infatti, quali posso essere le conseguenze di un articolo così strutturato per il pubblico americano (primo mercato d’esportazione per molti nostri brand)? Non occorre essere dei fini decostruzionisti per capire che trasmettendo al lettore il meta-significato di un Made in Italy dopato da pratiche illegali, si finisce con l’alimentare un atteggiamento negativo verso i nostri prodotti.

Se poi consideriamo i tempi dell’uscita dell’inchiesta del New York Times, cioè nel bel mezzo delle sfilate milanesi, è fin troppo semplice comprendere che nessun exploit fashion in Milano potesse rimanere incontaminato da informazioni così critiche sull’etica dei nostri marchi.

Di conseguenza non è successo certo per caso se la CNMI il 22 settembre abbia risposto prontamente all’articolo citato con un comunicato perentorio nel quale si argomenta:

  1. La filiera italiana del lavoro nel settore moda negli ultimi anni è cambiata in direzione di una maggiore equità su tutti i fronti
  2. “Purtroppo questi risultati regressi sono stati omessi nell’articolo del NYT che ha invece voluto trattare un caso circoscritto per inquadrare un contesto più ampio, perdendone il senso generale. Ad esempio l’articolo del NYT giustamente riconosce che l’ultima statistica sul lavoro irregolare risale al 1973. L’unica statistica recente citata è di Tafia Toffanin, l’autore di Fabbriche Invisibili che stima che “attualmente ci sono da 2000 a 4000 lavoratori irregolari nella produzione dell’abbigliamento”. Se si considera il contesto di una grande industria, che impiega 620 000 persone in 67 000 aziende, emerge chiaramente come i lavoratori irregolari rappresentino una anomalia. Il nostro dato statistico ottimale sarebbe ovviamente pari a zero, tuttavia questo scenario dimostra che stiamo affrontando positivamente il problema”.
  3. “L’articolo afferma che l’Italia non ha un salario minimo nazionale e compara le politiche italiane per i salari a quello delle economie a basso salario, paragone inaccettabile. Infatti è vero il contrario. In Italia il salario minimo e gli stipendi sono stabiliti attraverso negoziazioni e accordi tra sindacati e associazioni dei datori di lavoro. Ciò accade autonomamente per ogni settore. Tali accordi hanno lo stesso status giuridico di una legge…”

 

Ora, mi chiedo, perché Elisabeth Paton non ha fatto almeno una telefonata alla CNMI? Chissà forse immaginava che si sarebbe trovata di fronte a una difesa d’ufficio dei brand compromessi con le pratiche che intendeva smascherare. Possibile che una giornalista di questo calibro non abbia pensato che le illegalità denunciate minavano l’immagine del nostro sistema moda e che quindi i maggiori interessati a combatterle, come spiega bene il comunicato stampa citato, erano proprio le istituzioni alle quali non ha voluto dare la parola? Possibile che non abbia pensato che dal quel lontano rapporto del 1973, in un’epoca in cui il Made in Italy come meta-brand non esisteva ancora, qualcosa di sostanziale potesse essere cambiato? Perché non riconoscere che il pur deplorevole sfruttamento delle lavoranti pugliesi, sul quale siamo tutti d’accordo, rappresenta una aberrazione che il sistema moda italiano sta contenendo e riducendo quasi a zero? Perché, fin dal titolo dell’articolo in oggetto, si è voluto trasformare una anomalia locale in un atto d’accusa nei confronti di uno dei sistemi moda più articolato al mondo? Perché pubblicare una frettolosa pseudo indagine proprio durante le sfilate di Milano?

A me pare che i cervelloni del New York Times ed Elisabeth Paton c’è l’abbiano messa tutta per far nascere il sospetto che il vero target dell’articolo non fosse tanto la difesa delle donne pugliesi bensì la destabilizzazione degli effetti delle sfilate milanesi.

Un sospetto è poco più di una ipotesi o congettura attraversate dall’ansia di arrivare a scoprire una sfuggente verità. Quindi, per evitare la scorciatoia del complottismo, tutto quello che ragionevolmente si può obiettare alla redazione del prestigioso quotidiano newyorkese è di non aver preso in considerazione le conseguenze inintenzionali di una indagine che necessitava di una maggior lavoro sulle fonti (solo per fare un esempio: dato il tema dell’articolo cioè la moda italiana, il rapporto ISTAT 2015 è stato letto e interpretato in modo sfacciatamente orientato a giustificare una tesi precostituita). Ma ancora una volta ci troviamo di fronte allo stesso problema: come mai giornalisti così bravi hanno dimenticato di bilanciare bene ciò che ho definito effetti inintenzionali ( scritto e intitolato in quel modo, fatalmente si danneggiano soprattutto le aziende virtuose) con un alto livello qualitativo dell’articolo ( maggiore precisione e calibratura delle fonti: mi ripeto non si possono esprimere giudizi olistici presentando alcuni casi e stime datate e interpretazioni frettolose)?

Forse, col senno di poi ovvero dopo una decina di giorni dalla pubblicazione dell’articolo, la reazione italiana culminata nell’accusa al New York Times di aver deliberatamente attaccato Milano, può sembrare una esagerazione.

Ma considerate anche questo ordine di eventi:

11 settembre 2018. Sul Corriere della sera, Paula Pollo, una delle giornaliste di moda italiane più accreditate, commenta le sfilate della Fashion Week di New York con queste parole: “Non c’è trippa per gatti in questa Fashion Week newyorkese. A cinque giorni dall’inizio, un solo appuntamento che si ricordi, lo Show di Ralph Lauren, e stop. Un calendario diluito senza senso che sembra non interessare più neppure a quel popolo di eccentrici personaggi che comunque cercava di entrare dopo ore di fila fuori dalle sfilate, alle celeb (praticamente inesistenti), ai giornalisti (sempre meno), ai compratori (la metà della metà di un tempo), ai clienti (come non notare il deserto anche nelle boutique e nei departement store). Per non parlare della creatività, questa sconosciuta”.

Negli stessi giorni, Serena Tibaldi sulle pagine de la Repubblica, limitandosi a sottolineare che la Fashion Week di New York praticamente ruotava intorno alla sola sfilata di Raph Lauren, certamente non fu altrettanto dissacrate della collega, ma ci faceva capire che non fosse stata un granché. Comunque, rispetto agli anni passati la copertura giornalistica dell’evento oltreoceano da parte dei media italiani, dal mio osservatorio, appariva ridimensionata e certo non esaltante nei contenuti.

Il 20 settembre, con le sfilate milanesi in corso, appare l’articolo del New York Times in oggetto, vissuto dagli addetti ai lavori come un attacco al sistemo moda italiano. Solo una coincidenza? Difficile crederlo. Gli scenari della moda del terzo millennio sono cambiati. La competizione a ogni livello è divenuta asfissiante. Usare la metafora della guerra per cercare una logica tra gli innumerevoli urti prodotti dalla lotta per crescere o per sopravvivere nel mercato globale, non mi sembra un azzardo bensì una utile approssimazione per rispondere al cambiamento di pelle dei comunicatori/giornalisti (la cui identità professionale si trova ogni giorno destabilizzata dalla digitalizzazione dei processi).

Infatti, a complicare la situazione è intervenuta la pericolosa tendenza del giornalismo di oggi a ergersi a giudice e a condannare prima o addirittura senza aver restituito ai lettori notizie non contaminate da assunzioni moralistiche di parte. Se la mia lettura sintomale dell’articolo di Elisabeth Paton ha senso, la sua inchiesta partiva da un preconcetto che l’autrice ha cercato di giustificare mettendo in evidenza e interpretando solo i dati che le servivano per allarmare il consumatore americano. Come potete tollerare e acquistare prodotti (italiani) del lusso originati dallo sfruttamento di povere donne? Non fatevi abbindolare dai fuochi di artificio delle sfilate milanesi…abbagliando i vostri desideri esse vi nascondono le oscure ombre nelle quali prende corpo la specificità della moda italiana. Questo sembra essere il meta-significato che un articolo del genere rischia di generare presso una opinione pubblica sovreccitata, frettolosa e avida di soluzioni semplici e lineari cioè attratta dall’ordine moralistico.

I dubbi esposti sulle reali finalità dell’articolo non intendono cancellare il frammento di verità materiale che certo non fa onore al nostro sistema moda. La denuncia dell’inaccettabile sfruttamento delle donne pugliesi è sacrosanta. La reticenza di alcuni brand citati nell’articolo ad accettare di rispondere alle domande della giornalista è al tempo stesso sintomo di arroganza e di imbarazzo nei confronti di un problema evidentemente conosciuto, nei confronti del quale si preferisce chiudere gli occhi.

Ma proprio perché sfruttamento e illegalità sono disvalori che annichiliscono la nostra società aperta e democratica oltre che a diffondere disagio e frustrazione tra gli individui che ne patiscono la subdola violenza, il giornalista dovrebbe usare i suoi strumenti con somma precisione, pertinenza, accuratezza nell’analisi delle fonti, senso delle proporzioni (attenzione alle conseguenze inintenzionali di effetti testuali che assomigliano troppo a giudizi e assai poco a resoconti di reportage). Mi pare sia questo il livello testuale che ha messo in crisi l’articolo, generando a cascata legittimi sospetti che mi è piaciuto portare fino a conseguenze che ci presentano il mondo della comunicazione come una polveriera pronta ad esplodere nelle mani di artificieri che stanno smarrendo il senso del loro mestiere.

Lamberto Cantoni
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