Intervallo di tempo tra due errori – Parte uno. Il coraggio della verità a teatro?

Intervallo di tempo tra due errori – Parte uno. Il coraggio della verità a teatro?

ROMA – Si è da poco conclusa la mini tournée del nuovo spettacolo ideato e diretto dall’attore e regista Giacomo De Cataldo. La pièce è andata in scena a fine giugno al Teatro 2 e i primi di luglio al Teatro Hamlet. Dopo averla vista in occasione delle repliche finali, vi raccontiamo una delle esperienze più spiazzanti offerteci da un lavoro teatrale negli ultimi anni.

Erano trascorsi alcuni mesi da quando, per ragioni contingenti, non avevo più avuto la possibilità di andare a teatro. Risiedere lontano dalla città non mi aveva ulteriormente agevolato, lasciandomi alla mercé dei cartelloni amatoriali, nel cui indiscutibile valore fatico ad includere il piacere arrecato allo spettatore, e di un deserto culturale scalfito da sparute ospitate di alcuni volti noti dello spettacolo chiamati a intrattenere chiostri e musei civici di paese con qualche mezz’ora serale di reading letterario. Oltre alla certezza dei grandi nomi della scena italiana e internazionale, amo però tenere d’occhio quei contesti artistici giovanili che di solito fioriscono nel caos ordinato dei grandi contesti urbani, potenziali terreni fertili di interessanti fervori creativi. Ecco perché apprendere, qualche settimana fa, che due teatri della Capitale stavano per presentare in tutto quattro serate del nuovo spettacolo di Giacomo De Cataldo mi offriva un buon motivo per tornare a occupare una poltroncina di velluto. Il regista romano, anche attore e doppiatore, è presidente dell’Associazione Culturale “La Cava”, docente di recitazione dell’”Accademia del Doppiaggio” di Christian Iansante e Roberto Pedicini, e ha all’attivo diversi ruoli al cinema, a teatro e in televisione (fra le ultime apparizioni sul piccolo schermo ricordiamo Il commissario Rex e Don Matteo). Da alcuni anni ha intrapreso un personale percorso di ricerca teatrale nel campo della regia, di cui ho avuto un saggio lo scorso anno ne Iwona, Principessa di Borgogna, di Gombrowicz, e Il cavaliere del pestello ardente, di Beaumont. Eccezion fatta per qualche momento eccessivamente caotico nel secondo caso, i due spettacoli mi avevano decisamente convinto per la perizia registica dimostrata nella gestione di un gran numero di attori sul palcoscenico e soprattutto per la capacità di evidenziare gli aspetti tragicomici contenuti anche nei drammi più disperati. Il guizzo di lucida follia che con le trovate più improbabili sovverte piani logici, spiazza, promette e disattende per poi riconfermare valori umani universali, erano per me la conferma di trovarmi davanti a qualcosa di nuovo, insito nel

Intervallo di tempo
La locandina dello spettacolo.

marchio di fabbrica di un artista difficilmente classificabile con qualsiasi schema. Avendo perduto le serate del 22 e 23 giugno al Teatro 2, la mia sola possibilità di vedere Intervallo di tempo tra due errori, questo il titolo del nuovo spettacolo di quest’anno, rimanevano le ultime repliche al Teatro Hamlet, il 5 e 6 luglio. Sulla locandina campeggiava in rosso, lapidario, il divieto d’ingresso dopo le 21.05, per cui nel pomeriggio di sabato mi sono messo in viaggio con largo anticipo per evitare di restare confinato nell’androne del teatro, rivestito da pannelli di legno scuro che gli conferivano un’inequivocabile aura vittoriana smentita solo dall’alimentari bengalese o pakistano accanto. Avvicinatomi alla biglietteria, sono stato accolto da due ragazzi dall’aspetto meno inglese, che mi hanno porto qualcosa che somigliava più a un flyer che a un ticket, senza chiedermi in cambio alcun corrispettivo in denaro. La mia sorpresa iniziale si è tramutata in reale stupore quando, nell’aprire il pieghevole, ho notato che all’interno vi era fissata una banconota da 10 euro, accompagnata da un termine greco: theorikòn. La lettura di un breve testo esplicativo, pur dagli argomenti più che ragionevoli, non fugava nella mia mente l’idea di essere incappato in una bizzarria inutilmente rischiosa per la produzione, ma ho deciso di stare al gioco. Cercherò di riassumere il ragionamento alla base di questa inusuale forma di sbigliettamento dicendo che il theorikòn era un sussidio istituito nell’Atene periclea perché i cittadini meno abbienti potessero recarsi in città e assistere alle rappresentazioni teatrali durante le feste religiose come le Grandi Dionisie. Rifacendosi a questa antica realtà, la banconota allegata al biglietto di uno spettacolo nel 2019 dovrebbe simboleggiare il tempo che lo spettatore sceglie di dedicare a quell’occasione di intrattenimento. Solo al termine della serata il pubblico decide, in totale anonimato, se restituire il biglietto così come gli è stato dato, oppure allegandovi a sua volta una somma equivalente o superiore a quella anticipata dalla produzione. Incredibilmente esiste anche una terza possibilità: quella di trattenere il theorikòn insieme al denaro. Lo spettatore è dunque posto in una situazione di responsabilità, in cui ha l’occasione di dimostrarsi più o meno onesto, come vuole il detto popolare che pone l’accento sull’aspetto fraudolento. In verità, come mi avrebbe in seguito spiegato lo stesso De Cataldo, promotore dell’idea, l’onestà non corrisponde necessariamente all’azione comunemente ritenuta doverosa di pagare il biglietto per un servizio di cui si è usufruito, ma può essere coerente col non farlo, se si crede di aver visto un prodotto scadente, che dunque non merita di sopravvivere sul mercato. Naturalmente un tale ragionamento assume su di sé il rischio consapevole di scontrarsi con certa italianità deteriore, per la quale il concetto di onestà, in qualsiasi accezione lo si intenda, assume talvolta contorni aleatori. Dato che non esistono spiriti più dannati degli idealisti sprofondati nel cinismo, sospenderò ulteriori giudizi alla maniera socratica e giungerò finalmente all’apertura del sipario. Nel caso de Intervallo di tempo tra due errori, quest’ultima è solo un’espressione convenzionale che malamente si attaglia all’happening che in modo del tutto inusuale apriva lo spettacolo.

teatro hamlet intervallo di tempo
Ingresso del Teatro Hamlet.

L’unico indizio che lasciasse presumere l’inizio di un evento che rompeva la normale routine delle nostre giornate era infatti l’apparire di una figura dimessa e vestita di nero dal fondo di una scena spoglia. L’attrice a cui era demandato il compito di rompere il ghiaccio si è rivolta alla platea con una disinvoltura che sapeva di quella quotidianità in cui dopo un saluto semplice, come quelli che rivolgiamo ad amici che non vediamo da un po’, si può passare a commentare la temperatura della sala o la calura estiva. Facendo scivolare rapidamente il pensiero su quanto sia paradossalmente “bello” amare e il suo contrario, essere fuori luogo, perdere i propri cari, riconoscere una canzone sentita per caso, ecco che ci si accorgeva di aver appena iniziato un viaggio straniante come una montagna russa. Lo spegnersi e il riaccendersi improvviso e forse casuale delle luci segmentava e smembrava un apparente flusso di coscienza, capace di proseguire per minuti oppure ore senza far affidamento ad alcun testo memorizzato. Al brutto e al bello raccontato dall’attrice faceva da contrappunto l’irrompere di tante presenze che disegnavano smorfie, sberleffi e forme grottesche, salvo lasciare di lì a poco il palcoscenico ad altri protagonisti, ad altre storie che si accavallavano, interrompendosi o proseguendo con naturalezza. Un giovane poteva raccontarci la storia del grande amore conosciuto grazie ad un laboratorio teatrale all’università; una ragazza trovava il coraggio di confessarci la cosa più brutta che avesse fatto a qualcuno; un’altra ricordava la più grande vincita della sua vita; una donna matura usciva dal compassato rigore imposto dalla società rivivendo con la freschezza di un’adolescente il momento del suo primo bacio, da cui nacque un amore durato dieci anni; un’altra signora condivideva apertamente la trasgressione della più bella storia di sesso mai capitatale, con un uomo molto più giovane da cui non si aspettava nulla… Tantissime e disparate erano le situazioni, vere o presunte, che si avvicendavano sulla scena insieme ai protagonisti de Intervallo di tempo. La narrazione, che dava l’impressione di potersi interrompere all’istante come proseguire all’infinito senza una precisa direzione, lasciava intravedere il fil rouge sotteso al titolo dello spettacolo e ai tratti di penna che sbarravano i nomi degli attori volutamente sbagliati sulla locandina soltanto guardando oltre l’impianto scardinante di una regia smaliziata e ben consapevole della rotta da tenere. L’armonia dei contrasti, le contrapposizioni costanti a livello visivo, nel binomio buio-luce, e a livello testuale, nelle antinomie dei dialoghi come nelle categorie valoriali alla base delle storie, restituivano un orizzonte di senso nella zona d’ombra del non detto, dell’invisibile a occhio nudo ma comunque presente. Un terzo piano di lettura evidenziato dai colori al luminol, utilizzati sulla pelle stessa degli attori-personaggi segnati da eventi traumatici riemersi dal vissuto. Nel raccontare la cosa più grave che le fosse stata fatta, una donna rievocava un duro atto di bullismo culminante in una simbolica violazione del suo corpo da parte del gruppo dei suoi aguzzini, che la impasticciavano letteralmente con degli speciali pennarelli colorati. Alla fine della scena la pelle dell’attrice, che appariva completamente segnata al buio, sembrava intatta al riaccendersi della luce, come a voler significare che tutti siamo reduci da qualcosa che non possiamo mostrare alla luce del sole, ma che tuttavia persiste. Un altro episodio significativo è probabilmente quello della ragazza che per ingenuità si era lasciata avvicinare da un gruppo di malintenzionati da cui aveva poi subito violenza. A finire a terra al termine della scena ci si sarebbe aspettati di vedere lei in luogo di colui che l’aveva sopraffatta. In questo elemento paradossale De Cataldo ha voluto evidentemente lasciar intendere, senza connotazioni moralistiche di stampo borghese, come chi operi un misfatto sia egli stesso risultato della sua violenza, quanto e più di chi la subisce. Altra scelta di regia soggetta a più interpretazioni era rintracciabile negli attimi in cui il volume della voce degli attori si abbassava mentre continuavano a parlare e a muoversi, come se divenissero specchio delle nostre vite che noi guardiamo sullo schermo di una tv di cui si abbassano gli altoparlanti, mentre scorrono le immagini un film di cui potremmo a nostra volta divenire protagonisti proseguendone il racconto. Questa chiave di lettura spiegherebbe anche le fasi più convulse in cui gli attori interrompevano un monologo uscendo dalla scena, per poi rientrarvi magari un attimo dopo, o venendo materialmente allontanati da altri personaggi, creando gag surreali e attimi di caos artificiale. Benché il ruolo di primo attore sia stato per qualche istante riservato a un piccolo cane che mostrava miglior talento di tanti colleghi umani più noti di lui, è proprio la centralità dell’uomo che il regista ha voluto con tutta probabilità sottolineare dietro l’irrilevanza narrativa delle storie raccontate ne Intervallo di tempo, tanto che non era mai chiaro quando potesse giungere il momento degli applausi o di un semplice intervallo. Il dubbio è stato effettivamente sollevato con una mini boutade tramutatasi in esilarante stand up comedy dopo aver dato modo agli spettatori di uscire a prendere una boccata d’aria. Molti sarebbero ancora gli elementi su cui riflettere intorno a quello che sembrerebbe a prima vista uno spettacolo leggero e in parte accostabile al cabaret, mentre con quest’ultimo condivide soltanto la rapidità con cui trascorrono gli oltre 90 minuti di durata. Ciò grazie a una grande proprietà registica e alla versatilità degli interpreti, che nel riportare la situazione ad un equilibrio in parte sovrapponibile a quello di partenza, conducono il pubblico in un viaggio non convenzionale attraverso grandi temi quali l’amore, l’abbandono, l’odio sociale, il bullismo, la violenza di genere e soprattutto la ricerca di un senso ultimo nella nostra vita. Gli sgambetti all’abitudine quotidiana proseguono sino all’ultimo istante, in cui ci si aspetterebbe il classico momento in cui gli attori escono dai loro ruoli per salutare il pubblico mostrando il volto senza maschera. Non essendo mai esplicitate le esatte coordinate per individuare la zone grigie del disvelamento, del discrimine tra realtà e finzione come tra i termini delle altre antinomie dialettiche, ciò non avviene e lo spettatore fatica a realizzare quando sia il momento di lasciare il teatro. Guadagnando l’uscita ho aperto ancora una volta il mio theorikòn, che nell’angolo destro del pieghevole mi chiedeva di fare la mia parte se mi fossi “divertito”. Se così fosse stato avrei dovuto augurare la buonanotte ai due ragazzi dall’aspetto poco inglese ignorando la scatola in cui erano raccolti i biglietti restituiti insieme all’eventuale contropartita in denaro. Il divertimento veicola nella radice latina del termine il senso di un volgere altrove, di una distrazione indotta da un qualsiasi passatempo d’evasione, dal comico puro privo di sottotesti. Non è ciò che accade ne Intervallo di tempo tra due errori, ove la dimensione dell’allontanamento è semmai presente rispetto a un vivere ridotto alla straziante oscillazione tra noia e dolore. Attraverso un’ironia pungente dal retrogusto amaro, lo spettacolo innesca a suo modo il processo catartico che secondo Aristotele operava al massimo grado nel genere tragico. Senza tradire lo spirito dell’intrattenimento, questa è ancora oggi la missione affidata al buon teatro: mettere con le spalle al muro, ferire e guarire allo stesso tempo, farci piangere e sorridere mentre ci riscopriamo meravigliosamente fragili nella nostra nudità.

Intervallo di tempo tra due errori

Stefano Maria Pantano

4 Responses to "Intervallo di tempo tra due errori – Parte uno. Il coraggio della verità a teatro?"

  1. michela anselmi   10 Luglio 2019 at 20:07

    Un articolo bello scorrevole mai noioso.
    E c’è tutto non è stato tralasciato niente,tutto minuziosamente descritto con grande sensibilità ed empatia.
    L’arte di osservare comprendere unita a una grande maestria nella scrittura, cosa che io non ho quindi spero di essermi spiegata. Grazie Stefano

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  2. Stefano Maria Pantano
    Stefano Maria Pantano   10 Luglio 2019 at 20:29

    Ti ringrazio moltissimo. Purtroppo, rispetto all’arte, la parola è sempre una riduzione che circoscrive e snatura l’essenza delle cose, a meno che non diventi poesia. Qualcuno dice che si diventa critici quando non si ha abbastanza talento per essere artisti e ha tristemente ragione.

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  3. Antonella Scognamiglio   11 Luglio 2019 at 11:57

    Grazie Stefano, per la tua recensione. Tramite il tuo scritto ho potuto descrivere lo spettacolo a chi non vi ha assistito con maggiore efficacia e partecipazione e ne ho avuto io stessa una visione più approfondita.
    Buona osservazione e lievità nella scrittura: un piacere leggerlo!

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  4. Stefano Maria Pantano
    Stefano Maria Pantano   11 Luglio 2019 at 20:05

    Grazie, Antonella. Cerco di raccontare onestamente quello che vedo ?.

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