Origini del dispositivo sfilata

Origini del dispositivo sfilata

Da anni le famose settimane della moda di New York, Londra, Milano, Parigi sono accompagnate da voci che annunciano la crisi del fashion show. Tuttavia, malgrado le sperimentazioni più audaci ispirate alle performance artistiche, riesce difficile liberarsi dell’evento che meglio di altri celebra gli spiriti animali della moda.

 Estensioni del concetto della sfilata: bambole, parate e défilé di stampe

1. Nessuna moda senza presentazioni di novità. Prima del rituale della sfilata così come oggi lo conosciamo, principi e principesse, avidi di informazioni sugli abiti in quel momento di maggiore impatto, estratte dalla descrizione di feste o eventi raccontate dai loro osservatori sparsi nelle corti aristocratiche di vari Paesi…”avevano contratto l’abitudine di farsi inviare i modelli degli abiti stranieri addosso alle cosiddette <bambole di moda>. Queste bambole diventano oggetto di animata discussione nelle corti italiane, inglesi e francesi…Ben presto, i negozi della rue Saint-Honoré si organizzano per la fabbricazione, l’abbigliamento e la vendita delle inanimate emissarie della moda parigina ai quattro angoli dell’Europa e del mondo. In tempo di guerra, per garantire il loro arrivo a destinazione, si riconosce l’immunità diplomatica, o addirittura si scortano con armati a cavallo le minuscole Pandore vestite di sola biancheria intima o di succinte vestaglie, e le Pandore di grandezza naturale, vestite degli abiti più suntuosi…Insomma, l’Europa delle corti e del bon ton va avanti grazie alle bambole delle negozianti parigine; esposte nelle vetrine, le poupées de mode affascinano anche chi non ha sangue blu” (1).

Dobbiamo immaginarci dunque le grida di giubilio delle nobildonne all’arrivo delle bambole vestite con i nuovi dettagli d’abbigliamento: con quanta cura le dame di compagnia le esibiscono e le rivestono davanti agli occhi delle loro signore… Per non parlare delle appassionate parole che accompagnano le preferenze di madame…

La grande sarta Rose Bertin, la preferita della regina Maria Antonietta, acquisì una fama internazionale anche per la perfezione delle sue bambole, ricercate in tutte le corti europee, con cui divulgava i suoi modelli.

Di passaggio vi ricordo che se l’idea di una sfilata di bambole vi appare bizzarra e stravagante, non dobbiamo andare troppo indietro con gli anni per registrarne l’uso fecondo nella modernità. Infatti, subito dopo il secondo conflitto mondiale le poupées de mode conobbero una brevissima quanto straordinaria riscoperta.

A voler essere precisi, fu ancor prima della fine delle ostilità che le istituzioni francesi si posero l’obiettivo del ricominciamento del ciclo/processo della moda-mondo a partire dalla riconquista della centralità di Parigi. Lucien Lelong (1889-1952), presidente della Chambre Syndicale de la Couture Parisienne, in sintonia con gli uomini che avrebbero ricostruito la Francia, sapeva benissimo che New York e il modo americano di organizzare i processi di moda, erano concorrenti agguerritissimi. Bisognava ricreare il mito di Parigi capitale del buon gusto, del lusso e del cambiamento programmato delle linee estetiche che marcavano l’appartenenza ad una elite.

Che fare dunque? Come si propizia un ricominciamento? Ovviamente sto parlando di un nuovo inizio che contiene già più di un auspicio su come andrà a finire la faccenda. Molti riti servono proprio a questo. Per esempio, la sfilata tra l’altro è un modo per ritualizzare qualcosa che noi diamo per scontato, il valore in sé della novità, ma che in realtà non lo è affatto. Per quasi tutta la storia dell’uomo furono celebrati i valori che avevano la freccia del tempo orientata all’indietro. Per contro, le novità suscitavano inquietudine, rappresentavano un rischio. L’affermarsi della scienza e del modo di produzione industriale contribuirà a diffondere insieme all’idea di progresso un forte sentimento positivo nei confronti di ciò che verrà presentato come nuovo. Insomma, per farla breve e ritornare alle scelte strategiche della couture francese nel secondo dopoguerra, si trattava di organizzare una sfilata di piccole collezioni di creativi e case di moda francesi per significare a tutto il mondo che Parigi era ancora la capitale della moda. Ma i problemi erano apparentemente senza soluzione. La mancanza di una alimentazione corretta dovuta agli anni di guerra aveva prostrato le modelle, in quei giorni non più all’altezza dell’ideale di bellezza della couture; mancavano i capitali per organizzare sfilate di collezioni complete di abiti in stile parigino; mancavano le risorse per costruire la sequenza di eventi che in passato faceva parlare di ciò che succede a Parigi\ in tutte le capitali del mondo; addirittura mancavano le stoffe preziose per costruire gli abiti. Ed ecco rientrare sulla scena della moda le bambole.

Qualcuno ebbe l’idea geniale di costruire un défilé  in miniatura. Le 200 bambole utilizzate, alte circa 70 cm, erano fatte di filo di ferro (l’unico materiale che allora abbondava) con le teste modellate in gesso dallo scultore catalano Joan Rebull e i capelli di spago. Naturalmente vennero vestite dalle principali case di moda secondo un registro di assoluta autenticità: “gli abitini in miniatura vennero confezionati con la stessa accuratezza dei modelli di grandezza naturale, le scarpe erano lavorate da calzolai, le borsette erano apribili e dotate di un equipaggiamento interno fedele all’originale. I cappelli erano creazioni di autentici cappellai e inoltre le bambole vennero dotate di veri gioielli” (2).

Parteciparono alla creazione degli abiti tutte le grandi maison parigine: Lelong, Patou, Piguet, Schiapparelli, Vionnet, Balenciaga, Fath… Cartier e Van Cleef & Arpels crearono le miniature dei gioilelli… Christian Bérard, Jean Cocteau e Boris Kochno disegnarono decorazioni e scenografie di prim’ordine che riproducevano scorci di Parigi, di interni della città e paesaggi immaginari. Il successo della mostra/défilé  battezzata Theatre de la Mode al Papillon Marsan del Louvre fu enorme. Il primo mese il defilé delle bambole fu visto da 100 000 parigini. In seguito cominciò un itinerario che portò la sorprendente “sfilata” a Londra, Barcellona, Stoccolma. La foto n.1 illustra la tappa di Londra: giovani donne ancora in divisa militare guardano l’immagine idealizzata che di lì a poco avrebbe ripreso pieno possesso delle fantasie femminili. Nel 1946 le bambole furono rivestite con abitini che riproducevano le nuove mode e l’intero défilé fu spedito a New York e S.Francisco per preparare il mercato americano al ricominciamento del grande gioco della moda francese.

fig.1 -  Il théâtre de la mode nella sua tappa londinese nel 1946
fig.1 – Il théâtre de la mode nella sua tappa londinese nel 1946

Naturalmente mi rendo conto che agli occhi di un lettore distratto dai rumori della stretta contemporaneità, l’uso del concetto di sfilata per il Theatre de la Mode potrebbe sembrare una forzatura. Tuttavia spero che non vi sfugga il fatto che la sfilata delle bambole presentava alcune dimensioni che appartengono al rituale che stiamo analizzando e che più avanti incontreremo nelle forme che ben conosciamo. Ma ora chiediamoci: quali congetture possiamo avanzare a partire dall’analisi del Theatre de la Mode? Gli abiti in miniatura vennero creati nello spirito della moda del periodo e possiamo considerarli vere e proprie presentazioni di novità; l’estetizzazione della messa in scena ci fa capire quanta attenzione fosse riposta al contesto nel quale gli abiti avrebbero rappresentato altro da se stessi; la forte simbolizzazione dell’evento (il défilé  delle bambole fu esposto nei  musei più prestigiosi di alcune tra le più importanti città al mondo) aumentò l’aura  che circondava le pseudo collezioni trasformandole in una sorta di feticci totemici in grado di riaggregare le tribù della moda. Vi troviamo dunque quasi tutte le estensioni che conferiscono alla sfilata tout court la valenza comunicazionale, pragmatica ed emozionale attribuitagli oggi dal sistema moda.

Inoltre, col senno di poi, è difficile negare il ruolo morale che ebbero le “bambole” nei confronti dei vari couturier francesi, per motivarli a riprendersi il capitale di notorietà che da più di due secoli i sarti parigini avevano avuto il privilegio di interpretare da protagonisti.

E oggi, nel tempo in cui gli effetti della comunicazione spettacolo sono ben conosciuti, possiamo congetturare con argomenti seri che l’iniziativa delle bambole fu una trovata veramente geniale, in attesa di un ricominciamento effettivo che arriverà dopo appena un anno con l’ingresso trionfale di C.Dior sulla scena della moda.

Non è un caso dunque se, anche in tempi più recenti, l’opzione delle bambole è stata riesumata per défilé importanti: nel 2004 Maurizio Galante alla Fondazione Cartier a Parigi presentò la sua collezione indossata da piccole bambole; l’evento ebbe un grande impatto mediatico e lo stilista replicò lo spettacolo in numerosi Paesi.

Anche Martin Margiela, da sempre refrattario ai modi del fashion show spettacolare, preferì nei primi anni novanta, servirsi di marionette, trasformando la rappresentazione della collezione in un messaggio ironico e graffiante.

2. Ma facciamo di nuovo un salto all’indietro; e di nuovo evadiamo dalle dimensioni strutturali della sfilata tout court, alla ricerca di effetti di senso che le sfilate incorporeranno nella forma da noi conosciuta, più avanti nel tempo. Prima delle bambole-manichino del ‘600-‘700, il modo di configurare ciò che oggi definiremmo la presentazione delle nuove tendenze moda, assunse la forma di una sfilata di stampe, dalle quali nacquero più tardi le prime riviste di moda.

Seguiamo ancora Daniel Roche, nelle pagine che dedica alla nascita dei giornali di moda nella Francia pre-rivoluzionaria: “I giornali di moda si sono proposti come un rimpiazzo di sicuro successo rispetto le bambole, costose, fragili, in fondo scomode interpreti dell’artificio e del cambiamento. In un breve giro di anni, le incisioni di moda, diffuse <in sfilata> o sciolte, sono divenute il canale privilegiato per l’informazione del settore moda. Più economiche e più mobili delle bambole, grazie anche alla moltiplicazione delle stamperie, le incisioni diffondono i poteri dell’immagine ben aldilà della cerchia nobiliare, coinvolgendo larghi settori della popolazione nella dinamica del cambiamento.” (3).

In realtà, lo testimoniano raccolte di modelli come il famoso Libro del sarto (4), documento prezioso che illumina questa professione nel pieno rinascimento, la sfilata di immagini-disegno create per affascinare il committente ha una storia antica. Il libro citato ci parla di un repertorio di modelli e costumi, preparato da una bottega di sarti milanesi del cinquecento per orientare e facilitare la scelta dei clienti. Ma la bellezza dei disegni acquerellati, la spettacolarità degli abiti ci inducono a congetturare per le società di corte i sintomi del funzionamento del dispositivo della moda nella sua fase aurorale.

La sfilate delle stampe, mi permette di congetturare la possibilità di un anticipo dei fenomeni di testualità rispetto all’evento sfilata. L’impaginazione di una serie di immagini, prepara la mente a concepire un “ordine di senso” aldilà della significazione di ognuna di esse.  Se mettiamo in correlazione l’oggetto moda, cioè l’abito, con la sua traduzione in immagini strategicamente posizionate, allora possiamo considerare il lavoro editoriale come un supplemento di senso che cambia radicalmente la percezione dell’oggetto, ancorandolo ad una “narrazione”. A questo punto, diviene interessante il parallelismo tra sfilata di stampe e défilé. In altre parole, dobbiamo imparare a distinguere l’aspetto empirico della sfilata, ovvero l’abito indossato da modelle che lo presentano in modo ritualizzato ad un pubblico particolare, da ciò che potremmo definire l’effetto sfilata, utilizzato per dare efficacia al dispositivo moda. In questo contesto l’effetto sfilata sarebbe la “messa in testo” di un possibile “discorso” degli abiti di una collezione.

Se la separazione teorica tra aspetto empirico della sfilata e i suoi effetti che propongo ha senso, allora, dal punto di vista cognitivo non deve sorprendere il parallelismo che vi ho proposto tra le concatenazioni di disegni, funzionali certo ad una presentazione di forme d’abiti percettivamente molto diversa dall’esibizione presupposta da una promenade di modelle, e il fashion show. Infatti, la piena consapevolezza del potere seduttivo dell’abito in motion dipenderà più dall’integrazione concettuale delle conseguenze degli effetti simbolici di una esibizione ritualizzata di abiti, rispetto alla significazione naturale percepita in presenza dell’abito indossato. In realtà, lo vedremo, si potrà parlare di fashion show solo a partire dal momento in cui si comprenderanno appieno gli effetti del salto nel simbolico (della moda o della cultura del gusto) consentito dalla liturgia dell’abito nuovo indossato da un corpo eccellente.

La sfilata di stampe fornisce un abbozzo di coerenza ad un insieme di figure di moda. Una certa coerenza è necessaria affinché il concetto di “collezione” possa avere gli effetti narrativi a loro volta decisivi per le significazioni estetiche grazie alle quali nel novecento i creativi diverranno veri e propri miti culturali.

1910 House of Doucet Galerie de vente Paris Fashion
1910 House of Doucet Galerie de vente Paris Fashion

3. Mantenendo la freccia del tempo orientata all’indietro, nel tentativo di creare una sorta di genealogia cognitiva del depositarsi nella sensibilità del pubblico delle dimensioni immateriali che poi si riconfigureranno nel rituale della sfilata, non posso non segnalarvi i défilé maggiormente significativi che caratterizzarono le società europee almeno dal ‘400 in poi, nei quali possiamo riconoscere la lunga durata di alcune delle costanti antropologiche di aspetti simbolici della cultura della moda: il trionfo delle entrate e la parata militare.

In questi casi la scena era la città trasformata in un immenso teatro. I “modelli” e le “modelle” erano assolutamente straordinari: nientedimeno dei re e delle regine con le loro corti, i militari addobbati a festa, i notabili della città in processione… Queste sfilate erano sempre accompagnate da imponenti apparati architettonici, grafici e simbolici. In molti casi, ben documentati dagli storici, l’evento prende la forma di vero e proprio rito.

Che tipo di analogia possiamo stabilire tra il Trionfo delle entrate e la forma di sfilata che ci sta a cuore? A me interessa in particolare questo passaggio: con il trionfo delle entrate la pratica di sfilare in pubblico diviene un modo pregnante di comunicazione simbolica, ovvero inscrive nella pratica sociale un insieme di procedure dal sapore paralinguistico capaci di produrre un senso ben aldilà del significato percettivo e verbale di superficie, un senso che richiama contenuti emotivi ed un piano di efficacia (simbolica) al quale fare riferimento per modulare (e manipolare) passioni collettive.

Vi pare un pensiero audace? Andate a leggervi un po’ di letteratura del tempo e scoprirete con quanto interesse e partecipazione le giovani donne assistevano alle sfilate dei più bei giovani della loro generazione, vestiti in modo vistoso ed elegante… Infatti la divisa militare prima di uniformarsi al piano esclusivo della funzionalità, era sottoposta, solo per gli ufficiali ovviamente, ad una logica di distinzione, di esibizione e moltiplicazione dei segni. Per certi rispetti è proprio nella divisa militare che il cosiddetto sesso forte mantiene un rapporto vivace con le decorazioni, a partire dal periodo che gli storici del costume definiscono il tempo della grande rinuncia (del maschio) ai ritmi (e agli eccessi) della moda (attribuiti quindi alla vacuità del femminile).

Possiamo facilmente immaginare gli sguardi divisi a metà tra ammirazione e invidia che le donne lanciavano alle privilegiate che avevano l’onore di accompagnare i personaggi più in vista nel corso di queste parate che culminavano in grandi feste.

Non può sfuggirci l’intenzione manipolatoria di questi eventi capaci di suscitare l’entusiasmo di un’intera città e di attivare consensi ed emulazioni sconsiderate.
Perché mi ha attratto l’ipotesi di un parallelismo tra lo spettacolo della sfilata e i cerimoniali dei cortei, dai quali sembra trarre le sue origini?
Per dirla con Alain “cerimonie e cortei hanno una muta eloquenza, che risveglia, e insieme disciplina, le nostre emozioni, trasformando la folla in qualche cosa di stabile, di composto, di ordinato. Allora essa è uno spettacolo in sé; e ognuno rende a tutti gli altri questo prezioso favore. La disciplina si comunica ai partecipanti come tutti provano nelle sfilate militari; ma agisce anche sullo spettatore” (5).

Il corteo con il suo cerimoniale presuppone la separazione tra chi partecipa sfilando e chi assiste da spettatore; al tempo stesso punta a disciplinare la percezione del tempo attraverso una sincronizzazione emotiva tra tutti i partecipanti.
Sembra dunque corretto congetturare una somiglianza di famiglia tra le significazioni ottenute attraverso la spazialità e il movimento ordinato dei cortei e gli effetti prodotti dall’uscita programmata di modelle che percorrendo un certo spazio e modellando il movimenti del corpo conferiscono all’abito un certo impatto e un potenziale narrativo.
Ma ci sono cortei che disciplinano comportamenti ed emozioni e altri che liberano la soggettività.
Probabilmente è nei festosi cortei che celebravano il carnevale che possiamo trovare altre suggestioni per capire la costruzione degli effetti passionali di molte delle sfilate contemporanee.
Il carnevale allontana i pensieri gravi; distribuisce nelle forme del contagio la spensieratezza, la gioia di vivere; libera il piacere di essere un altro (grazie alle maschere); aiuta a liberarsi dai codici dominanti, dalle convenzioni, da tutto ciò che è banale, abituale, scontato; permette stabilire la possibilità di un ordine del mondo completamente diverso da quello comunemente ammesso dal momento che crea uno spazio per l’invenzione e per la fusione di elementi eterogenei.
Vorrei segnalare la connessione tra il rinnovamento dei processi vitali presupposti dal carnevale e il problema specifico che sembra ancorare la pratica della sfilata ad un dispositivo simbolico interessato a diffondere nel sociale l’impulso di forze rigeneratrici.
Sia le parate militari che il festoso corteo carnevalesco producevano a livello di fruizione l’annichilimento dell’identità individuale nella massa.
L’identificazione con le apparenze più ammirate rappresentava una spinta interiore ad emulare o imitare i modelli che promettevano maggiori performance.
Questa disposizione e passione di trasformarsi nell’altro poteva assumere la dimensione di divisa o di mascherata a patto di considerarsi transitoria.
A Versailles, alla corte del Re di Francia, le apparizioni e le uscite assumeranno la leggerezza e la severità che ritroveremo nelle sfilate rituali degli atelier, quando la moda sarà divenuta l’unico contesto nella modernità nel quale far sopravvivere le vestigia dei resti di una aristocrazia, capace di resistere alle spallate della modernità grazie al dominio sull’estetica.

1910 House of Paquin - Salon de Vente - Paris Fashion
1910 House of Paquin – Salon de Vente – Paris Fashion

Demoiselle de magasin, femmes de cabines, mannequiens

1. Dopo queste divagazioni su forme di presentazione che hanno avuto la funzione di segnalarci alcuni tratti costitutivi di eventi che familiarizzano con i défilé, si può tentare di individuare il momento storico in cui il rituale di presentazione delle novità moda comincia ad essere riconosciuto come tale.

Secondo l’opinione di tutti gli storici della moda le sfilate di indossatrici a scopo propagandistico risalgono alla metà del XIX secolo.

Sembrerebbe che il precursore delle sfilate sia stato il grande sarto Charles Frederick Worth (1825-1895) che per primo ebbe un’idea molto feconda dal punto di vista commerciale. Infatti, nel suo atelier, faceva regolarmente indossare e presentare i nuovi modelli da giovani donne, le future indossatrici, per aumentare l’impatto seduttivo dell’abito. Ma era tutta farina del suo sacco? C’è da dubitarne. Alcuni scritti riportano che quando la già citata Rose Bertin, celebre sarta di Maria Antonietta, fuggì a Coblenza dopo lo scoppio della rivoluzione del 1789, emigrarono con lei “Ses essayeuse, ses mannequins, ses premières, ses couposes, ses ouvrières”. Michelle Sapori giustamente annota che se interpretiamo la parola mannequin nel senso di persona vivente allora possiamo anticipare di quasi un secolo l’uso di proto sfilate ai fini commerciali (5).

Ma anche volendo essere scettici nei confronti della reale significazione che poteva avere nel tardo settecento, infatti l’espressione mannequin vivant entra veramente in uso solo tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, non possiamo attribuire la scoperta dei défilé a Worth senza opportuni distinguo.
L’avventura professionale dell’inventore della haute-couture cominciò con il suo lavoro come commesso a Parigi, nel grande negozio di tessuti Gagelin, in rue de Richelieu. I proprietari del negozio vendevano anche scialli e confezioni per signora. Per favorire la loro diffusione spesso li facevano indossare a giovani e belle ragazze.
Quindi possiamo congetturare che non fosse sconosciuta ai commercianti e ai grandi sarti prima di Worth, la pratica di far indossare alle commesse più giovani e carine le vesti da vendere.
Pare che presso i fratelli Gagelin, Marie Augustine Vernet risultasse particolarmente efficace come indossatrice. Worth oltre a vendere le confezioni del negozio, faceva il presentatore di queste proto sfilate. Si trovava dunque in una posizione privilegiata per comprendere gli effetti persuasivi di un abito perfettamente indossato, nei dintorni del quale veniva creata una piccola scena teatrale. All’inizio le proto sfilate gli furono semplicemente fatali dal momento che si innamorò della signorina Vernet e la sposò. Oltre ad essere una donna capace di valorizzare l’eleganza di un abito Marie era intelligente e ambiziosa. Probabilmente fu decisiva per stimolare il giovane Worth a mettersi in proprio quando nel 1858 aprì l’omonima maison. Possiamo immaginare che la sua influenza investì anche l’aspetto creativo della produzione dell’abito. Cosa ci può essere di più eccitante per un couturier della fantasia dell’abito perfetto creato per la persona che ha eletto a sua musa? Con Worth comincia a prendere forma un piccolo mito della moda che in qualche modo razionalizza i colpi di genio di un creativo attraverso il rapporto di fascinazione con una modella particolare, moglie o altro non importa, suscettibile di far nascere l’esperienza interiore di una silhouette intensa e reattiva. Seguendo i contorni di questa ombra amorosa dell’Altro e rivestendola, il creativo dotato di talento e di tecnica, troverebbe una configurazione dell’abito attraversata dalle intensità che accompagnano l’amore.
Che dire di questa favola? Solo un romanticismo mieloso e inutile? Forse. Ma quando si ragiona sui fatti di moda non si possono banalizzare le favole. Teniamo in debita considerazione questo rapporto esclusivo che i creativi hanno con indossatrici affatto speciali. È grazie a loro che nell’abito risuona la forma ideale della Donna, un valore sul quale la couture costruirà la sua particolare metafisica della bellezza. Sui movimenti, gesti, andature di queste modelle, ripetuti all’infinito nel silenzio degli atelier, osservati con uno sguardo diverso, prenderanno progressivamente posto le sottili regolazioni cinestetiche e prossemiche che senza troppo clamore codificheranno la sfilata, trasformandola in un rituale di rara raffinatezza e complessità emotiva.
Dunque, a distanza di circa mezzo secolo da Worth, non è certo un caso se in un’intervista a Vogue nel 1913, Poiret poneva al centro del suo vangelo estetico la compagna Denise: “Mia moglie è la fonte ispiratrice di tutte le mie creazioni, l’espressione di tutti i miei ideali”. In seguito diranno più o meno la stessa cosa un’infinità di creativi.
In questa sede è importante segnalare l’apparizione di una divisione interna al mestiere di indossatrice: abbiamo le mannequins con le quali la collezione si presenta nei modi dell’abito indossato, e la modella che rappresenta l’ideale femminile (della stagione? Del momento?).

2. Ma insistiamo nel cercare qualche altro indizio sulle origini della sfilata nella fase di passaggio dal mestiere di sarto al ruolo di creativo, marcato dall’esperienza di C.Worth. Scrive Diana de Marly nel suo ben documentato libro intitolato “Worth, Father of the Haute Couture” (ed. Homes & Meier, 1980):

“Gagelin engaged a number of demoiselle de magasin – these were girls who were apprenticed at the age of sixteen (their parents paid for their training), whose duty it was to model shows, mantles and cloaks so that customers might appreciate the beauty of such articles in motion”(4).

Ebbene possiamo congetturare che Worth, dopo aver aperto la propria maison perfezionasse la tattica osservata da Gagelin per persuadere le sue clienti ad arrendersi di fronte alla sue creazioni. In altre parole, faceva indossare ed esibire l’abito, in modo più studiato, dalle sue giovani modelle; illuminando con arte il salone del suo atelier, progettando le entrate e i percorsi con maggiore cognizione, le esibisce in modo tale da produrre una adesione totale al suo progetto creativo. Non ci sono dubbi sul fatto che, questo modo di presentare un abito, contribuì a disattivare l’abitudine di lungo corso delle signore aristocratiche e delle ricche borghesi a concepire il couturier alla stregua di un mero esecutore, riservando a se stesse interventi creativi e le preferenze strutturali della forma dell’abito. Ecco perché gli storici della moda hanno riservato a Worth un ruolo di protagonista.

Ora, è nella logica della situazione il fatto che il successo con importanti clienti rafforzi la fiducia in una pratica al punto da perfezionarne i dettagli. L’uso tattico di giovani lavoranti particolarmente attraenti che recitano il gioco “dell’abito indossato in movimento” può, a questo punto, evolvere velocemente in vere e proprie esperienze proto professionali. Per dirla in breve, assumo giovani donne già con l’intenzione di usarle prevalentemente come indossatrici. Divento sensibile a come si muovono, a come camminano; attraverso tentativi ed errori posso arrivare facilmente a migliorarne le performance. Notate come, il cristallizzarsi di questa consapevolezza, introduca sulla scena della moda strati di sapere nei dintorni di un nuovo oggetto cognitivo, l’abito indossato in motion, e di una strategia commerciale che comincia l’avventura della vendita con informazioni spettacolo.

3. A questo punto possiamo parlare di invenzione della sfilata? Secondo Caroline Evans rimangono ragionevoli dubbi: “…maison Worth’s innovation was to have several house mannequins, who were always available to put on a dress for the inspection of a client. However, althought Worth showed two collections a year, there were  no fixed dates for collections as there are now, and no organized fashion shows” (6).

È chiaro che se pensiamo all’attuale fashion show, Caroline Evans ha le sue ragioni per dubitare che si possa definire la promenade delle mannequins di Worth una sfilata. Secondo l’autrice, non basta moltiplicare il numero di mannequins de cabines a disposizione di una maison per creare l’effetto sfilata.

Se vogliamo comprendere la specificità del fashion show, bisogna senz’altro demarcare la differenza tra una configurazione di proposte composta da un abito, più un altro abito e così via, da una “collezione” che si presenta fin dall’inizio come un fenomeno di testualità: in un fashion show sarebbe dunque il racconto degli abiti di una collezione ad essere significativo e non la singola creazione.

A questo punto è facile capire il perché, per demarcare con precisione il fashion show, occorra immaginare un défilé che in sequenza presenta un concetto creativo di sintesi materializzato da un insieme di abiti.

Altra cosa sarebbe la semplice presentazione di un abito pur nuovo indossato da una mannequin di fronte al committente. Per queste messe in scena il concetto di fashion show sarebbe improprio, trattandosi piuttosto di una sofisticata tattica commerciale basata sul potenziale seduttivo dell’abito indossato da un bel corpo.

Inoltre, secondo Caroline Evans, il fashion show dipenderebbe da una rete di interrelazioni con il paradigma estetico del modernismo, ovvero dalla bellezza di un corpo vestito, interpretata secondo un registro dinamico e quindi sottoposto a continui innesti di razionalità. Nel suo importante libro intitolato “The Mechanical Smile” (7), l’autrice è molto convincente quando cerca di ancorare l’invenzione e il radicarsi del fashion show, con la mentalità che all’inizio del novecento elogia il mito della velocità, imponendo tra il pubblico colto il gusto delle avanguardie storiche, privilegiando il cambiamento continuo. Per non parlare all’avvento del cinema e del radicarsi della fotografia come arti di riferimento: sarebbe questo dunque il contesto reattivo che spiega l’affermarsi del fashion show i cui effetti eccedono le tattiche seduttive dell’abito indossato.

Non ci sono dubbi sull’impatto della rivoluzione estetica modernista sulla moda e sui suoi rituali. L’interpretazione di Caroline Evans appare convincente. Ma non esente da dubbi. Per esempio, a partire dai primi decenni del novecento, se pur vi sono convergenze ineludibili tra la rivoluzione del gusto modernista e i mutamenti della moda, tuttavia sono presenti anche inerzie, resistenze e ritardi (nella foto di moda per esempio la “bellezza in motion” si fa largo solo negli anni trenta con Martin Munkacsi e l’estetica modernista è visibile su Vogue negli anni venti, grazie soprattutto a Steichen).

D’altronde le informazioni in nostro possesso sulla reazione del pubblico di Worth confermerebbero l’uso tattico della mannequin e dell’abito indossato non solo per “vendere” ma anche per acquisire notorietà. Tuttavia, è pur vero che le presentazioni erano riservate alle sole clienti e accompagnatrici. Era esclusa qualsiasi altra presenza. Per dirla con l’autrice, il défilé all’inizio privilegiava il “segreto” (il fashion show, per contro, implica una visione della moda legata al clamore di un evento).  La significazione della messa in scena era una specie di ritratto in motion di un particolare look: la teatralità delle pose non aveva nulla di specifico e probabilmente era costruita su una certa idea di portamento elegante e sulla prossimità alla cliente (per far tastare i tessuti e far girare in un verso o nell’altro la mannequin per osservare con attenzione i dettagli dell’abito). Non era previsto un “pubblico” e nemmeno una “comunicazione” immediata degli effetti. Quindi, per cogliere le preziose indicazioni di Caroline Evans, potremmo definire proto-sfilata lo spettacolo dell’abito indossato privo della consapevolezza testuale della collezione e delle configurazioni estetiche del modernismo.

In altre parole, con Worth, gli elementi fondamentali del défilé sarebbero soltanto abbozzati, in attesa di essere ricomposti in un vero e proprio spettacolo, tale da spostare l’asse della significazione dall’abito alla collezione e al nome del creativo, aggiungendo all’efficacia commerciale l’accumulo accelerato di notorietà. Possiamo aggiungere che l’accumulo di notorietà costituirà la base simbolica che consentirà l’invenzione delle marche della moda.

4. I rilievi mossi da Caroline Evans non tolgono nulla al rispetto dell’intelligenza pratica che riconosco a Worth. Il passaggio dalle cosiddette demoiselle de magasin alle femmes de cabines, che mi pare di poter ascrivere alla comparsa sulla scena della moda del grande sarto inglese, ci fa capire la funzione diversa che assunsero le mannequin rispetto a semplici commesse scelte occasionalmente per la loro giovinezza o avvenenza. Con Worth abbiamo la sensazione di assistere ad una euristica della sfilata che, colpo dopo colpo, si perfeziona e auto-regola. Aggiungerei che, la presentazione con modelle, sottoposta ad incrementi di performance, ci lascia intravedere un aldilà della bellezza dell’abito che potremmo definire “il dispositivo per eccellenza della comunicazione della moda”, estremamente efficace per scatenare forti emozioni. In tal modo, grazie ad un tumulto passionale, il creativo forza la committente a far fronte a qualcosa che non è più soltanto un “oggetto” per il proprio abbellimento, bensì rappresenta l’incontro appassionante con l’immagine (perfetta) del proprio simile. L’abito indossato da una modella, scelta seguendo sofisticati canoni di bellezza, diviene lo specchio organico capace di mobilitare il desiderio ad un livello di struttura soggettiva, impossibile da raggiungere attraverso la mera ostentazione dell’oggetto moda.

Con l’affinamento delle pratiche di presentazione degli abiti, sperimentate con successo da Worth, come giustamente fa notare G.Litpovesky (8), la moda entra nell’era moderna, diventa impresa creativa e spettacolo pubblicitario. In breve tempo negli atelier dei grandi sarti parigini l’uso di giovani indossatrici diviene la norma.

Osservate come la strategia seduttiva che sostiene la raffinata logica del potere della moda si attivi fin dalle tecniche di vendita primarie.

Presentando i modelli su indossatrici, organizzando sfilate spettacolo – scrive Litpovesky – la Haute Couture attua una tattica d’avanguardia, basata sulla teatralizzazione della merce, la pubblicità incantatrice, l’eccitazione del desiderio.

Forse è improprio parlare di fashion show per Worth e i suoi colleghi fino ai primi anni del XX° sec. Ma non si può negare che gli elementi costitutivi di un défilé non fossero già in gran parte presenti. Cosa manca? Manca l’idea del dispositivo spettacolare che risponde al desiderio di un pubblico di gran lunga più numeroso della cerchia di clienti di una maison.

Insomma la sostanza di una sfilata c’è tutta e la forma è perfettamente adattata ai modi in cui praticano la Haute Couture la prima generazione di creativi a partire dalla metà dell’ottocento: l’abito unico per una cliente particolare.

Intorno al 1870 sui periodici di moda cominciano ad apparire le prime stringate descrizioni di défilé organizzati nelle maison. A conferma parziale del ruolo di anticipatore giocato da Worth, pare che la prima testimonianza giornalistica registrata dagli storici sia relativa ad una sua sfilata recensita in quell’anno dalla rivista La Vie parisienne. Tuttavia è bene ricordare che in questi anni, il termine défilé viene usato anche per descrivere non solo le presentazioni segrete negli atelier, ma anche presentazioni pubbliche di abiti. Possiamo quindi avanzare la congettura che nel 1870 la pratica di organizzare défilé sia, tra le altre cose, un oggetto culturale e un dispositivo utilizzato consapevolmente per  diffondere abiti nel nome della presunta novità, diffuso tra tutti i sarti che rivaleggiavano per riservarsi le attenzioni delle donne che avevano accesso alle “novità”.

Dallo spettacolo alla ritualizzazione della sfilata

A partire da Worth, nell’arco di poco più di una generazione, la sfilata, da tecnica di vendita fortemente polarizzata su singole committenti o su piccoli gruppi di clienti, si trasforma in un gioco di manipolazione seduttiva di pubblici sempre più eterogenei. Insomma, in un certo qual modo comincia a farsi strada l’idea che oltre alla vendita dell’abito esista un problema di notorietà e di legittimità di una casa di mode. Certo vestire principesse e signore dell’alta borghesia già in sé garantisce il successo immediato. Ma il vero problema è come gestire il mutamento. Presentare a scadenze ben programmate le proprie creazioni significa interpretare le sempre più veloci oscillazioni del gusto che caratterizzano la macchina produttiva della moda a partire dalla fine del XIX° sec. Naturalmente, l’ansia di creare nuove mode e la competizione spettacolare per attirare le clienti contribuisce in modo determinante a rendere il mutamento del gusto sempre più veloce.

Ironia della sorte, così come nel tempo del dominio incontrastato di Parigi capitale della moda, il primo grande couturier non fu un sarto francese, anche l’innovatrice che configurò le prime sfilate spettacolari arrivò da Londra. Si trattava di Lady Duff-Gordon in origine Lucy Sutherland (1863-1935) che con la propria maison chiamata Lucille sita in Hanover Square e con succursali a Parigi, New York, Chicago divenne una celebrità  all’inizio del novecento.

Lucille nella sua autobiografia(8) sostiene di aver inventato la sfilata di moda grazie  ai suoi spettacolari défilé  organizzati a Londra, New York e Parigi. Abbiamo visto che non può essere tutta la verità. Le maison parigine e i grandi negozi di tessuti usavano questa tattica di coinvolgimento da decenni. Ma al tempo stesso, seguendo le indicazioni di Caroline Evans, possiamo riconoscere che Lucille aveva buone ragioni per glorificarsi.

Se accettiamo di definire le presentazioni di Worth proto-défilé allora possiamo postulare che Lucille abbia forzato il défilé  a conformarsi a nuove regole.

Seguiamo questo momento di riconfigurazione di ciò che diverrà il rituale più importante del sistema Moda con le parole di Didier Grumbach:

“Elle organise à date fixe de véritable présentation de collections dans une pièce concue à cet effet comme une salle de spectacle. A l’entrée, un valet de pied remet à chaque cliente un programme comportant un ordre de passage avant que les mannequins ne défilent, l’un après l’autre, au son de la musique. Pratique que l’on peut considérer comme étant à l’origine des défilés de mode actuels. Cet usage soulève immédiatement l’enthousiasme de la couture parisienne dont la renommée ne cesse de croitre » (9).

La maison Lucile viene raramente ricordata dagli esperti del settore per via del fatto che non ebbe un grande successo commerciale dopo la prima guerra mondiale; proprio quando si inaugurò il dominio delle couturiere nella moda, guidate da Chanel e Madame Vionnet (Lucille, fallì infatti nel 1923).

Ma lo scarso interesse del pubblico femminile negli anni venti per le sette/ottocentesche citazioni abbigliamentarie della couturiere, non possono cancellare i successi che Lucile ebbe per quasi due decadi e soprattutto non tolgono nulla al valore storico delle sue celebri messe in scena, valore confermato dall’interesse imitativo/emulativo dei couturier parigini per le sue sfilate sempre più spettacolari.

Caroline Evans, nel saggio e nel libro che ho già ricordato, ci fa capire che probabilmente Lucile fu influenzata da un nuovo genere di commedia musicale in auge a Londra tra il 1890 e 1914, chiamato fashion-play: “These plays were, in essence, dramatized fashion plates in which leading ladies effectively modeled couture gowns. The dress-designer Lucile had designed for the theater, and the her first mannequin parades owed more to theatre than to the traditions of dressmaker’s salon”(10).

In cosa consistevano le innovazioni di Lucile e perché si ritiene che a partire dalle sue sfilate si possa parlare propriamente di fashion show?

I suoi défilé non erano riservati alle sole clienti. Per esempio erano presenti in gran numero spettatori di sesso maschile. La passeggiata delle modelle, intercalata da posing drammatici di derivazione teatrale, era accompagnata da una orchestra. La messa in scena, gli arredi e le luci rivelavano una consapevolezza e un controllo sugli effetti che lasciano pensare a collezioni concepite come un testo e la sfilata come la spazializzazione dei concetti espressi dagli abiti.
Aggiunge ancora Caroline Evans:

“Soon, however, they had simple texts and scenarios written by Lucile’s sister, the popular novelist Elinor Glyn. The most elaborate was “The Seven Ages of Woman” in 1909, which traced in seven acts from birth to death the dress-cycle of a society dame. The seven ages were: The school Girl, The Debutante, The Fiancée, The Bride, The Wife, The Hostess and The Dowager… The Hostess, was the most daring, with four scenes and three tableaux designed to appeal to “the married woman who entertained, was entertained, and who could indulge in the luxury of a lover. The names and order of the gowns also constituted a very clear subtext of sexual pleasure and fulfilment: The Desire of the Eyes, Persuasive Delight, Visible Harmony, A Frezied Hour, Salut d’Amour, Afterwards and Contentment”(11).

Lucile 1914 styleshow
Lucile 1914 – Styleshow

Anche se sulle presunte innovazioni della couturiere inglese non esistono solide concordanze tra gli studiosi, grazie a Lucile tuttavia, con prudente certezza, possiamo collocare nel primo decennio del secolo scorso il depositarsi della piena consapevolezza del valore strategico dei fashion show per il processo di innesto delle nuove mode nel corpo sociale e per l’acquisizione della quota di notorietà che moltiplica il successo locale di un abito, spalmandolo sul nome proprio del creativo.

Infatti le fonti a nostra disposizione convergono nel registrare tra il 1908-1910 l’uso diffuso tra tutti couturier di vere e proprie sfilate spettacolo, presentate di pomeriggio nei saloni delle grandi case di moda o negli alberghi più importanti delle città.

Sembra che in questa fase particolarmente importante per l’evoluzione delle fogge vestimentarie, sia stato il grande sarto Paul Poiret (1879-1944) tra i primi a sperimentare la sfilata evento, ovvero una forma di fashion show, dagli effetti scioccanti, ispirata alle innovazioni di Lucille. Ben più delle festose rappresentazioni che organizzava periodicamente nel suo prestigioso atelier di Fauburg Saint-Honoré fu con l’innovativa tournée nelle grandi capitali europee, intrapresa tra il 1911 e il 1912 che Poiret, probabilmente per primo, utilizzò la sfilata evento come strumento di penetrazione nei mercati internazionali: le sue indossatrici sfilarono con successo a Berlino, Bruxelles, Mosca, Pietroburgo, Vienna (P.Poiret, En habillant l’époque, …).

Poiret purtroppo è anche il buon esempio di come attraverso una sfilata evento, organizzata senza tenere sotto controllo spese e la situazione del mercato, possa trasformarsi in un tracollo.

Nell’Expo del 1925, quando ormai era chiaro che le giovani donne prediligevano le creazioni e lo stile delle nuove celebrità della moda, Chanel e Patou sopra tutti, il King of fashion tentò il coup de théatre. Scelse tre battelli ancorati sulla Senna e dopo averli acquistati li trasformò in piattaforme galleggianti del lusso.

Sul battello ribattezzato Amore presentò la sua linea di profumi. Delizia venne dedicato alla gastronomia. Il battello chiamato Orgia decorato con 14 grandi pannelli di Dufy, buon pittore ma soprattutto grande interprete della decorazione di stoffe, divenne una inusuale e lussuosa galleria per le sfilate.

L’evento verrà dimenticato subito, ben pochi acquisteranno i prodotti di Poiret il quale per coprire le spese, 1 500 000 franchi, una cifra enorme per l’epoca, venderà all’asta la sua prestigiosa collezione di opere d’arte.

Naturalmente Paul Poiret oltre a sfilate evento era maestro nell’organizzare i défilé nel suo atelier. Nella sua autobiografia leggiamo: “Ecco le indossatrici che giungono con grazia altera, come divinità i cui piedi non toccano terra. Nessun rumore. Niente organi. Niente fonografo. L’atelier è un tempio della bellezza, e avrete bisogno di tutta la vostra saggezza e di tutto il vostro giudizio di donne per non cadere nelle tentazioni che sollecitano il vostro spirito. Una commessa vi sta accanto, sorveglia la vostra estasi. Se siete forti, fate ancora in tempo ad andarvene dicendo che tornerete un’altra volta. Ma se siete donne, non potrete dire che non desiderate indossare almeno una di quelle meraviglie, depositarie di tutta l’ammirazione, di tutta la tenerezza, di tutto l’amore – chiamiamolo con il suo nome – che un artista può esprimere con i tessuti”(12).

Da questa descrizione è chiaro che il couturier distingueva nettamente i défilé in atelier, dai fashion show spettacolari o evenemenziali, ai quali riservava l’obiettivo di incrementare la diffusione delle sue fogge e di conseguenza la sua notorietà.

2. Secondo Charlotte Seeling (13) invece, il merito della prima sfilata evento spetterebbe a Jeanne Bekers (1869-1936) meglio conosciuta col soprannome del marito Paquin, con il quale identificò l’atelier e un marchio nell’Alta Moda attivo dal 1891 al 1956.

Jeanne Bekers fu la prima donna dai tempi di Rose Bertin a raggiungere un successo che, nelle prime due decadi del novecento, era pari a quello dei grandi sarti. Fu una antesignana della pubblicità e abilissima nelle promozioni delle proprie collezioni. Per esempio faceva appendere manifesti nei teatri e spediva gruppi di mannequins perfettamente abbigliate negli eventi frequentati dal bel mondo. Anche le sue sfilate, secondo C.Seeling, furono estremamente innovative.

L’autrice ricorda quella allestita al teatro Palace di Londra, dove per la prima volta (ma abbiamo visto sopra come molti commentatori riservino questo privilegio a Lady Duff-Gordon/Lucille), nei primi anni del novecento, l’incedere delle mannequin fu accompagnato da un’orchestra musicale e contribuì a rendere di colpo celebre la couturier che aveva scelto di trasferirsi nella capitale inglese.

Abbiamo quindi, secondo l’interpretazione della Seeling, Lucile che partendo da Londra e arrivando a Parigi vi porta un modo nuovo di concepire i defilé e Paquin che da Parigi arriva a Londra e sorprende tutti con le stesse innovazioni che una storica del calibro di C.Evans ascrive alla collega inglese.

Chi tra le due ebbe per prima le intuizioni creative che porteranno al fashion show? La maison Paquin nasce a Parigi nel 1891, con qualche anno di anticipo rispetto Lucile che fonderà la propria maison a Londra nel 1894. Paquin nel 1902, pur mantenendo il suo atelier parigino in Rue de la Paix, si trasferisce a Londra. Per contro Lucille aprirà una succursale a Parigi nel 1911, dopo aver attraversato l’Atlantico per presidiare New York.

Possiamo immaginare che, per la trasformazione del proto-défilé in fashion show istituzionale occorresse il consenso delle maison parigine. Ora, vi sono tracce storiche che indicano come molte maison parigine, oggi praticamente sconosciute, nella prima decade del ‘900 programmavano dei veri e propri show. Probabilmente ci troviamo di fronte ad una “scoperta” o “innovazione” collettiva. È però lecito congetturare che la spinta decisiva verso un nuovo e forse decisivo livello di consapevolezza sull’effetto della sfilata dipenda essenzialmente da ciò che Lucile scatena tra i couturier parigini con i suoi fashion show. Questa ipotesi non esclude l’idea di una Paquin innovativa, anticipatrice; ma osservando che per esempio, il primo accompagnamento musicale ad una sfilata della couturier sembra essere avvenuto a Londra, quindi dopo il 1902; e che Lucille era già sul mercato da una decina di anni, sembra corretto supporre che sia stata la couturier inglese ad indovinare gli innesti che avrebbero cambiato la fisionomia del défilé trasformandolo nel fashion show. Innesti subito imitati dai colleghi e dei quali non abbiamo informazioni sufficienti per stabilire con certezza l’esatta temporalità.

Comunque sembra assodato che il fashion show si imponga tra tutti i protagonisti della moda nelle prime due decadi del novecento.

Di passaggio, vorrei far notare che in quegli anni i couturier avevano a disposizione almeno tre forme, riconducibili al concetto generale di sfilata. Con Worth possiamo parlare di proto-sfilata; Lucille e Paquin introducono la consapevolezza degli effetti spettacolari che diverranno tipici dei fashion show; Poiret lascia intravedere potenzialità e rischi della sfilata evento.

1910 House of Paquin - A fitting - Paris Fashion
1910 House of Paquin – A fitting – Paris Fashion

3. Per quanto riguarda il fashion show evento abbiamo fonti fotografiche provenienti dagli Stati Uniti che ci obbligano ad altre intriganti congetture. Prendiamo per esempio l’immagine della sfilata nel Wanamaker’s department store a Philadelphia datata 1910: osservate l’immagine che ho recuperato; la scena è sorprendente…decine di modelle sono distribuite su una enorme passerella sulla quale si muovono lentamente come a passeggio in un giardino…Intorno ad esse centinaia di persone come in un palazzo dello sport assistono allo spettacolo.

Questa immagine ci fa capire che in realtà è il luogo a selezionare tra le modalità espositive possibili, la soluzione più funzionale (tuttavia, sottolineo che la prima sfilata documentata in un departement store americano venne organizzata a New York al Madison Square Garden nel 1903). A Parigi il maggior numero di sfilate avviene nei saloni degli atelier dal momento che è qui che le clienti importanti fanno gli acquisti. Poi succede che in momenti particolari si organizzino grandi défilé per pubblicizzare il talento creativo di un couturier. Ma benché a Parigi nascano i primi megastore, Aristide Boucicaut’s Bon Marché viene costruito tra il 1869-72, essi pur trasformando le modalità di presentazione delle merci non sembrano essere stati implicati in sfilate degne di essere ricordate. Nella capitale della moda il luogo privilegiato per la presentazione delle novità rimarrà a lungo l’atelier, lo spazio nel quale la moda diviene una forma di cultura, una specie di laboratorio creativo contiguo all’espressione artistica, e infine un’esperienza di acquisto estremamente raffinata ed elitaria.

Negli Stati Uniti invece la diffusione di store enormi e l’importazione delle mode francesi facilitò la scelta delle presentazioni di moda in forma di spettacolo. L’imitazione delle silhouette parigine, grazie a tessuti meno preziosi, poteva incontrare un numero maggiore di acquirenti. Era nella logica della situazione dunque che i nuovi arrivi venissero presentati di fronte ad un numero considerevole di persone, attivando le procedure di teatralizzazione che promettevano maggiori consensi.

A tal riguardo è significativo un passaggio della auto biografia di Paul Poiret: “Da Wanamaker tenni una conferenza in occasione di una grandiosa sfilata dei miei abiti, per la precisione nell’ampio teatro della ditta, famoso per il suo organo che è più grande del mondo…Quell’evento solenne al quale presenziò tutto il fior fiore dell’alta società di New York si risolse per me in un’autentica celebrazione” (Vestendo la belle epoque, Excelsior 1881, 2009; pag.244).

1910 Fashion show nel Wanamaker’s departement store a Philadelphia
1910 Fashion show nel Wanamaker’s departement store a Philadelphia

Per farla breve, si può ragionevolmente sostenere che la scoperta dei meccanismi efficaci per il fashion show, sia stata fatta simultaneamente da più soggetti, sparsi nei vari luoghi in cui la sottolineatura di un pseudo inizio per le nuove mode era strategico per il successo commerciale.

Nelle maison frequentate da un pubblico di privilegiati, con l’aumento del prestigio del couturier diminuì sensibilmente il ricorso a dispositivi spettacolari, ed emerse un rituale neutro centrato sull’estesia sofisticata dell’imago fluens, rappresentata da una indossatrice che trasmette attraverso movimenti sempre più studiati, energia e bellezza agli abiti.

Quando invece la sfilata era pensata per un pubblico eterogeneo, di solito veniva contaminata con i modi della spettacolarità in quel momento dominanti: all’inizio del novecento era il teatro e il cabaret a tenere banco; negli anni trenta il cinema cominciò ad esercitare la propria potente influenza.

Sia la sfilata rituale negli atelier che il fashion show spettacolari dei departement store potevano essere degli eventi.

Con questa differenza: dal punto di vista ideale il fashion show nei luoghi pubblici e nei departement store era a disposizione di un vasto pubblico e in modo ancora poco strategico elaborava la comunicazione allargata della moda che diventerà una delle leve fondamentali del branding delle aziende nella post modernità.

La sfilata rituale invece voleva essere evento raro, esclusivo e distintivo. I suoi valori erano conservativi, celebrativi e non puntano a esasperare l’istanza di mutamento implicita nel programma della modazione: qui la novità assume la valenza di una metamorfosi ovvero di una trasformazione senza rivoluzioni ideologiche, trasformazioni vissute come se fossero magie rese possibili dal talento di un creatore particolare.

4. Sia per le sfilate d’immagine per il pubblico allargato della medio borghesia, sia per quelle organizzate per le élite chiamate a raccolta nelle maison, vista una trovata o un coup de théâtre efficaci, l’imitazione del modo e l’amplificazione degli effetti era la regola.

Per esempio, la scoperta più importante attribuita a Paquin fu la forte simbolizzazione dell’epilogo della sfilata: in una data che non sono riuscito a identificare con precisione pare che abbia fatto uscire simultaneamente 20 mannequins vestite di bianco che trasformarono la scena della sfilata in un immenso e bellissimo quadro d’insieme…L’impressione sul pubblico fu grande e da quel giorno una conclusione eccitante divenne una soluzione standard per ogni forma di fashion show.

Ma marcare in un certo modo la fine di un evento non significava solo manipolare l’eccitamento del pubblico bensì attivare un gioco di retroazioni che di colpo trasformavano il défilé in un vero e proprio testo sincretico.

Non è un caso se a ridosso di questa esperienza avviene un’altra scoperta decisiva ad opera di Jean Patou (1880-1936), troppo spesso ricordato come il rivale sconfitto dalla insuperabile Chanel.

Infatti più o meno tutte le innovazioni degli anni venti attribuite alla grande couturiere in realtà furono anticipate da Patou. Dallo sportswear ai calzoni per signora, dallo sdoganamento del colore beige all’uso del jersey.

Ma soprattutto nel nome di Patou sono da scrivere l’invenzione della marca nel contesto della couture (ad eccezione della Louis Vuitton che a fine ottocento per difendersi dalle contraffazioni reiterò l’effigie della marca sull’oggetto) e alcune innovazioni decisive nell’ambito della sfilata e della comunicazione.

Ora, se possiamo provvisoriamente ascrivere alla casa di mode Paquin l’intuizione dell’importanza di come concludere una sfilata, potremmo attribuire a Patou il merito di avere concepito una apertura drammatica dei défilé.

Come documenta M. Etherington-Smith nella biografia che gli dedicò (13), il couturier nella primavera del 1925 fece entrare le sue modelle francesi e americane rivestite con le tele che disegnavano la struttura del vestito anticipando al pubblico in questo modo la forma grezza che sarebbe poi stata trasformata in abito.

Probabilmente il coup de théâtre era motivato soprattutto dal fatto che il couturier fu il primo ad utilizzare a Parigi modelle americane e questa trovata gli consentì di far vedere l’ideale di bellezza fisica al quale si ispirava. Inutile aggiungere che anche in questo fu un anticipatore dei tempi. Il fisico più asciutto e atletico delle giovani donne d’oltreoceano sarebbe divenuto in fretta l’ossatura standard del bel corpo per tutto l’occidente.

Le sei modelle che arrivarono a Parigi per una sfilata che Patou organizzò intorno alla metà degli anni venti, erano state selezionate grazie alla consulenza di Edna Woolman Chase e del grande fotografo Steichen, entrambi legati a Vogue e quindi in grado di suggerire al couturier i supporti corporei che nell’ambito della foto di moda valorizzavano meglio gli abiti di lusso. In quei giorni non esisteva ancora la differenziazione tra modella/indossatrice e fotomodella e d’altra parte la foto di moda era ancora complementare al figurino e al disegno. Tuttavia, malgrado i legittimi dubbi che Patou aveva, la notorietà che ebbe grazie alle modelle americane lo ripagò dei rischi che indubbiamente correva. Ma le innovazioni portate dal couturier non si esaurivano con sue preferenze per un corpo più snello. Il contesto della presentazione grazie al suo contributo assunse una forma fin da subito imitata e rimasta pressoché inalterata sino agli anni sessanta.

Non soltanto il salone dell’evento veniva decorato in modo sfarzoso e arricchito di luci spettacolari, gli invitati venivano accompagnati in posti opportunamente riservati, erano intrattenuti con champagne e sigari di lusso. La novità è che il pubblico di riferimento cambia. Da Patou, per la prima volta, il défilé più importante sarà quello dedicato alla stampa.
Tuttavia vorrei insistere sul senso da attribuire alla marcatura dell’inizio e della fine di una sfilata.
Se ci poniamo dal punto di vista del fruitore indubbiamente oltre all’esibizione dell’abito indossato comincia ad intravedersi una sorta di racconto della collezione che, come in una dissolvenza incrociata in un film ci trasporta da una scena all’altra, in questo caso fa semplicemente emergere alla coscienza un processo di testualità.
Prendendo a prestito dalla semiotica il già citato concetto di testo sincretico, intendo sottolineare che da questo preciso momento la convergenza dei diversi fattori della sfilata comincia ad essere importante quanto la perfetta configurazione degli abiti.
Testo sincretico significa che il senso dell’evento/rituale dipende più da una trasduzione tra forme segniche eterogenee, che dai contenuti ovvi che lo motivano: il piano intenzionale non può che essere quello di sempre, la presentazione di abiti nuovi, ma il posto che questa presunzione di novità andrà a crearsi nel mondo simbolico della moda dipenderanno dall’efficacia della sfilata.

Dissimulate sfilate in esterni eleganti

Per un couturier parigino a cavallo del secolo XIX° e XX°, défilé privati a parte, più che sfilate evento costose e rischiose (abbiamo visto sopra come Poiret si sia letteralmente rovinato con un allestimento straordinario) era ben più importante essere presente (con i propri abiti) agli eventi frequentati dal gran mondo. Inoltre erano particolarmente prese di mira le località vacanziere frequentate dalle élite e le strade del passeggio cittadino.

Ancora una volta registriamo il fatto che le documentazioni in nostro possesso risultano parziali e imprecise. Secondo alcuni storici sarebbe stata Janne Paquin la prima ad utilizzare modelle che esibivano abiti delle nuove collezioni in modo informale alle prime teatrali e alle corse: gruppi di mannequin opportunamente spedite agli appuntamenti frequentati dal bel mondo si esibivano in veri e propri défilé dissimulati. In realtà questa pratica era già stata ben esplorata da C. Worth il quale aveva l’abitudine di spedire la moglie Marie, vestita come una regina con abiti che presentavano delle novità, alle corse di Longchamp e al Bois de Boulogne.

Questi petite défilé en plein air resero famoso Poiret, che amava presentarsi agli eventi del gran mondo circondato da alcune sue mannequin che esibivano abiti scioccanti.

La stessa Chanel quando era ancora poco più di   una apprezzata modista utilizzò sua cugina Antoniette e sua sorella Adrienne come modelle per far vedere per le strade e nei locali di Biarritz, sede di una sua boutique, le sue innovative collezioni.

Quando guardo una delle tante foto che Jacques-Henri Lartigue scattò ad anonime passeggiatrici che l’avevano attratto per il portamento, per l’eleganza degli abiti, per la bellezza, mi sembra di poter cogliere le ragioni dell’efficacia di questa tattica.

Lartigue, foto di mannequins alle corse dei cavalli
Lartigue, foto di mannequins alle corse dei cavalli

Che relazione possiamo stabilire tra ciò che ho definito le petite défilé en plein air e il fashion show? L’uso tattico di mannequins portate ad esibirsi nei luoghi di passeggio del bel mondo o agli eventi pubblici più significativi, ci induce a congetturare il progressivo radicarsi nella mentalità dei couturier della fiducia sull’efficienza dei fashion frame creati dall’interazione tra modella e abito. Questa soluzione pratica, rappresentava un rafforzamento e un’estensione di una idea fondamentale per l’evoluzione della moda: aldilà dell’oggetto vestimentario, più o meno perfetto, esiste una dimensione del progetto moda che implica la manipolazione del desiderio di possibili committenti; per rendere reattivo questo desiderio più dell’oggetto in sé risulta utile la costruzione di una imago flues di moda.

Sembrano chiare, a questo punto, le retroazioni che l’esperienza delle promenade en plein air hanno avuto sul fashion show. Lo studio del portamento delle modelle, la spettacolizzazione degli abiti ben aldilà della loro funzione commerciale e l’incredibile accumulo di interesse nei confronti di una maison a partire da piccoli pseudo eventi non possono che avere rafforzato la fiducia in défilé sempre più vicini ad uno stile che si rappresenta la vita interpretata come se si recitasse in un permanente e diffuso spettacolo.

D’altronde i protagonisti della moda non abbandoneranno mai queste piccole scoperte empiriche. È vero, forse oggi nessun stilista manderebbe modelle alle corse dei cavalli. Ma tutti ambiscono al privilegio (pagato a caro prezzo) di vestire le stars del cinema in occasione di eventi come Cannes o la Cerimonia degli Oscar: la breve passeggiata di fronte ai fans e ai giornalisti ha il valore operativo e probabilmente i costi di una grande sfilata.

Note:

1. Daniel Roche, Il linguaggio della moda, Einaudi, 1989, pag.468-469;
2. Gertrud Lehnert, Storia della moda del xx secolo, Konemann, 2000,  pag.42;
3. Daniel Roche, ibid, pag. 469;
4. Il libro del sarto, ed. Panini, 1987;
5. Alain, Venti lezioni sulle arti, Edizioni dell’Ateneo, 1953, pag.69-74;
6. Michel Sapori, Rose Bertin, Ministre des modes de Marie-Antoinette, editino IFM, 2003, pag.227;
7. Caroline Evans, The Mechanical Smile, Yale, 2014;
8. Diana de Marly, Worth, Father of the Haute Couture, ed. Homes & Maier, 1980, pag.78;
9. C.Evans, The Enchanted Spectacle, Fashion Theory, Volume 5 Issue 3, 2001;
10. Gilles Litpovesky, L’impero dell’effimero, Garzanti, 1989;
11. Lucy Wallace Duff, Lady Gordon, Discretions and Indiscretions, Jarrolds, 1932;
12. Didier Grumbach, Histoires del la mode, Seuil, 1993, pag.26;
13. C.Evans, ibid, pag.274;
14. Ibid,pag.275;
15. Paul Poiret, Vestendo la belle epoque, ed. excelsior 1881, 2009, pag.275;
16. Charlotte Seeling, Storia della moda, ed.Taschen,
17. Etherigton-Smith, Patou, ed. Denoel, 1984.

Lamberto Cantoni
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40 Responses to "Origini del dispositivo sfilata"

  1. Alessandra   27 Gennaio 2015 at 01:42

    Su Affari e Finanza di Repubblica, subito dopo le sfilate di Milano Alberta Marzotto aveva scritto che le sfilate erano state un po’ sottotono anche perché molti non credono piu nella loro utilità. Nello stesso tempo gli stilisti non si fidano fino in fondo dei tentativi sperimentali tratti dalle performance artistiche. Nell’incertezza si investe sempre meno e quindi l’intera settimana della moda si trova ridimensionata. Ma che senso ha mettere in discussione sfilate che, come scrive l’autore dell’articolo, esistono da più di un secolo, senza avere una soluzione altrettanto valida? Secondo me, si ripone troppa fiducia nelle nuove tecnologie come Internet. Ho provato a vederne alcune trasmesse attraverso il web e penso proprio che ci troviamo molto lontani da spettacoli come quelli che organizzavano Lucile, Pouret, Chanel.
    Io credo che parlare male della sfilata sia una moda che qualcuno, per andare controcorrente, ogni tanto fa circolare tra il pubblico snob delle sfilate. In realtà, per i motivi che si intuiscono leggendo l’articolo, tutti continuano a sfilare e se non lo fanno è solo perché non possono permetterselo, dal momento che i costi per organizzare un grande fashion show sono aumentati troppo,

    Rispondi
  2. Marina   27 Gennaio 2015 at 18:46

    Sulla base dell’articolo letto sono riuscita a farmi un’idea sull’evolversi dei fenomeni moda come possono essere le sfilate.
    Con gli eventi storici e il progredire della società questo fenomeno è cambiato; così come dall’uso delle bambole si è passati alle manequin fino ad arrivare alle modelle di oggi.
    Anche le sfilate sono cambiate.. basti pensare al passato in cui erano le commesse attraenti a “sfilare” per le nobildonne parigine, per far trasparire dall’abito la sensualità intrinseca in esso.
    Volevo soffermare l’attenzione però sul “dispositivo spettacolare” dei fashion show, come vengono denominate le sfilate di moda oggi.
    Dal ventesimo secolo questo nuovo modello, se posso definirlo tale, è molto popolale tra i vari marchi della moda; è l’evento per eccellenza che viene atteso ed acclamato.

    Rispondi
    • Marina   27 Gennaio 2015 at 19:15

      …Oggi credo che questo Fashion Show sia diventato uno strumento di pura pubblicità, uno spettacolo dove non importa più l’oggetto nella sua natura, l’abito come unicità, ma l’evento che lo circonda: le modelle giuste, le persone giusti, la location giusta e perfino gli imbucati giusti (perchè si sa che questi eventi sono fatti anche per loro).
      Ma da questa riflessione mi chiedo, non manca ciò che prima era alla base di un “defilè di moda”?

      Rispondi
  3. mario   28 Gennaio 2015 at 00:08

    Ho la sensazione che l’autore abbia seguito fin troppo il percorso di Caroline Evans. In sostanza sembra che il fashion show sia stato creato dallo spirito modernista. Una volta si definiva questo modo di interpretare il passato “storicismo”. Ammetto però di non conoscere la Evans. E’ la studiosa che pensa la moda come produttrice di ansietà?

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   29 Gennaio 2015 at 17:57

      Non so cosa intendi per “storicismo”, ma se dai alla parola il significato che ad essa conferisce Karl Popper nel suo famoso libro “Miseria dello storicismo”, allora mi chiedo se hai letto veramente quello che ho scritto. Non ho chiesto alcun aiuto ad alcun Spirito dei tempi, sia che si chiami belle époque o modernismo. Piuttosto ho fatto riferimento a pratiche, a decisioni di individui e a situazioni. Non merita il tuo commento nemmeno Caroline Evans. Nel libro che ho citato, “The Mechanical Smile”, l’autrice esplora semplicemente delle correlazioni tra elementi del gusto modernista che cominciarono a diffondersi all’inizio del novecento con i tratti configurativi del fashion show. L’autrice non stabilisce un rapporto di causa ed effetto tra uno spiritello dei tempi chiamato modernismo e le moderne sfilate. La sua analisi è molto più raffinata. Nel suo libro cerca di farci capire come alcuni mutamenti tecnologici, artistici e sociali abbiano cambiato le mentalità e le attese della gente. La moda non può rimanere a lungo estranea a questi mutamenti. A volte li assorbe, altre volte li anticipa. Nulla di strano se qualche volta, il momento rituale più importante nel processo di modazione, ovvero la sfilata, porta le tracce del dialogo che un creativo intrattiene con il suo tempo.
      La questione dell’ansietà è un’altra sciocchezza. Probabilmente hai origliato da lontano uno straordinario libro della Evans, pubblicato una decina di anni or sono, intitolato “Fashion at the Edge”. In esso, la parola ansietà appare spesso per caratterizzare il trauma che alcuni stilisti iscrivono nelle loro creazioni, per renderle eloquenti rispetto al sonnambulismo glamour delle mode dominanti. Ma non c’è alcun rapporto tra questo ordine di pensieri e il significato banale della parola che discende dall’uso che ne hai fatto nel tuo commento.

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      • sara   30 Gennaio 2015 at 16:38

        Vorrei altre informazioni sul libro di Caroline Evans.La sento citata spesso, ma non in modo chiaro. Non mi riferisco all’articolo ma ad altri interventi che ho letto.

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        • Lamberto Cantoni
          Lamberto Cantoni   2 Febbraio 2015 at 10:18

          Sara, scusami se ti rispondo in ritardo; in teoria la tua domanda era rivolta a chiunque ti leggesse. Volevo verificare se tra i numerosi internauti che partecipano criticamente a sviluppare i temi che propongo c’era qualcuno in grado di articolare una risposta migliore di quella che ti posso proporre.
          Di Caroline Evans conosco solo due libri e un saggio apparso su Fashion Theory. In altre parole, di questa grande studiosa, mi sono interessato solo dei contenuti dei libri che trovi citati.
          Non è ben chiaro su quale dei due libri vorresti da me maggiori informazioni. Entrambi sono ragguardevoli. Tuttavia, è mia opinione che “Fashion at the Edge”, abbia rappresentato una sintesi concettuale ammirevole delle questioni decisive per la moda, storicamente comprese tra gli anni novanta del novecento e l’inizio del nuovo millennio.
          L’autrice parla di Edgy Fashion per demarcare le mode anti-sentimentali, sperimentali, metropolitane, estreme, ai bordi della commercializzazione. Mode che, in qualche modo, si oppongono alle strategie dei Big Global Brands e alla produzione industriale. In sintesi, suggerisce Caroline Evans, se osserviamo il Fashion at the Edge, ci rendiamo conto che una parte importante della moda è contro l’immagine di società e di civilizzazione che trasuda dalla moda standard; sono mode che rappresentano una resistenza contro un processo produttivo basato sulla diffusione/costruzione di una identità fragile, fasulla, venduta come l’unica identità desiderabile (e consumabile).
          L’autrice dunque, trova nel conflitto tra queste due immagini di moda, le tracce del trauma della civilizzazione che nello sviluppo del libro documenta attraverso i sintomi di alienazione, ansietà, instabilità, paura, morte, documentati dalle collezioni dei creativi radicali che hanno saputo dare voce ad un disagio che resiste ad ogni tentativo di rimozione.
          Devo dire che, l’idea della Evans centrata sull’ipotesi di una creatività capace di innovare e al tempo stesso di indagare l’incoerenza, discontinuità e la disintegrazione dei valori della moda standard, non solo è attuale, ma rappresenta il culmine di un modo di concepire la moda come motore di cambiamenti, problematici certo, ma soprattutto capaci di far dire alle “cose” della moda, significati che investono questioni fondamentali della nostra forma di vita.
          Questa creatività at the Edge, quando parla di morte, di gender instability, di free-floating anxiety è sintomo o cura?
          Caroline Evans si dichiara ottimista. Per l’autrice è entrambe le cose. E, se ci pensi bene, è una risposta geniale ad una questione che potrebbe facilmente debordare in polarizzazioni radicali che aprirebbero la strada ad una ideologizzazione della moda di sapore otto/novecentesco.
          Permettimi di aggiungere che il libro è di una ricchezza culturale sconvolgente. Difficile leggerlo e uscirne indenni. Intendiamoci, in molti passaggi non concordo totalmente con le opinioni dell’autrice. Ma considero il mio atteggiamento critico come un ulteriore dono di Caroline Evans. Così come esistono libri che ci addormentano, troviamo anche testi che ci cambiano le visioni, rendendoci nello stesso tempo, proattivi alla lettura (nel senso che maturiamo un nostro punto di vista). Esagerando un po’, in questi casi, mi piace pensare che questo genere di libri possa cambiarci la vita. Mi rendo conto che queste parole dette ad una generazione di giovani che vogliono conoscere senza leggere, vogliono imparare senza studiare, vogliono competenza senza pratica, possono suonare deplorevolmente idealistiche. Io preferisco pensare che non bisogna confondere l’idealismo con la conoscenza dei processi che arricchiscono o inquietano le nostre vite. E la vera conoscenza non è lineare, addomesticabile in definizioni semplici o banalizzabile attraverso riferimenti a mai chiarite esperienze. La vera conoscenza è tormentata, costellata di ipotesi, teorie, pratiche che trovano nell’errore le ragioni del loro sviluppo o maturazione. Riguardo a ciò riconosco a Caroline Evans il grande merito di aver trasformato il guazzabuglio della moda post moderna e del suo collasso, in qualcosa che grazie al suo libro possiamo pensare con maggiore razionalità e consistenza.

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  4. Margherita Taurino
    Margherita Taurino   28 Gennaio 2015 at 15:40

    È proprio vero che quando si risorge da una tragedia l’ uomo riesce a dare il meglio di s’ è.
    Alla fine di una guerra devastante, la voglia del ritorno alla vita porta un gruppo di persone ad allestire una sfilata di “Bambole di moda” in miniatura,
    vestite da grandi stilisti, con tanto di gioielli e dettagli prestigiosi del tutto realistici.
    Dà un emozione particolare osservare le realizzazioni in miniatura, emozione che ho provato davanti alla Queen Mary’s Dolls’ House del castello di Windsor, con dettagli curatissimi, dalle porcellane della sala da pranzo ai libri scritti da Conan Doyle, conservati in biblioteca.
    E che dire del fascino che esercita su di noi l’ assistere ad una rappresentazione, che sia essa teatrale , militare o attinente alla moda? Ricordo in “Pride and Prejudice” di Jane Austen, le sorelle di Elisabeth, che vanno a vedere gli ufficiali che sfilano in divisa per le strade della contea. A mio parere è la possibilità di rappresentarsi diversi “da sè” che ci affascina, il “toccare” la bellezza, l’ interpretare un ruolo diverso, per trasgredire e uscire dai canoni comportamentali imposti dalla società.
    Nella moda tutto ciò si può realizzare nel momento topico della sfilata, con la presentazione della collezione creata dal grande sarto, dallo stilista.
    Bellissimo è avere la possibilità di vivere ciò che ha vissuto Poiret, che è riuscito a unire due passioni: l’ amore per la sua donna e la sua grande creatività, eleggendo a musa ispiratrice la donna amata.
    Molti artisti sono riusciti a vivere questa magia, anche in altri campi, come il cinema , la pittura e la letteratura. Veramente affascinante!
    Questo testo è un viaggio coinvolgente nel mondo della storia della sfilata, magico evento che richiede tante energie e competenze per la sua preparazione, ma che si esaurisce, in modo effimero, in un brevissimo lasso di tempo.
    Per questo motivo insostituibile!!

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  5. Luciano   29 Gennaio 2015 at 13:23

    L’idea di mettere a fuoco le componenti relazionali della sfilata mi sembra interessante. Dovrebbe essere ovvio a chi riveste ruoli manageriali che un fashion show non è solo una presentazione di abiti. Oltre alla comunicazione diretta dei sognificati che caratterizzano una collezione io aggiungerei la comunicazione integrata che la sfilata scatena. Infatti si prende spunto da essa per grandi campagne di comunicazione sui media. In molti casi ho potuto osservare anche dei link interessati con l’allestimento delle vetrine. Insomma una sfilata non è mai solo una sfilata. L’autore dell’articolo non lo dice con queste parole, ma credo che vada in questa direzione.

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  6. Martina Bandinelli   30 Gennaio 2015 at 19:31

    A parer mio, l’articolo da lei redatto, è estremamente interessante e completo di informazioni, riguardo tutto ciò che è avvenuto in quegli anni.
    Poiché è stato citato il grande stilista Paul Poiret, creatore di opere, amate dalle dive degli anni Venti, che rivoluzionò l’abbigliamento femminile, declinando un nuovo concetto di lusso, vorrei ricordare una mostra al Met di New York che celebra questo eccentrico “re della moda” che torna a influenzare i capi della stagione dell’autunno 2007 con lo stile Direttorio e l’Orientalismo.

    L’annuale galà del Costume Institute di New York è di solito uno degli appuntamenti più mondani dell’anno. L’edizione 2007 è stata particolarmente memorabile perchè agli invitati è stato chiesto di indossare abiti in stile Poiret.
    Organizzata dai curatori del Costume Institute Harold Koda e Andrew Bolton, la mostra presentava cinquanta capi disegnati dal couturier francese, allestiti in atmosfere che evocavano le illustrazioni delle creazioni firmate da Poiret curate da Paul Iribe e Georges Lepape.

    Sono davvero in tanti gli stilisti che hanno scelto di ispirarsi non solo allo stile di vita di Poiret, ma anche alle sue creazioni.
    Torna la jupe-culotte, riproposta da Marc Jacobs in chiave moderna, da indossare stretta in vita da una larga fascia.
    Ricordano il “Mythe”, un completo creato da Poiret nel 1919 composto da corpetto di lamé d’oro e gonna ricoperta di frange di pelo di scimmia e oro, l’abito da sera parte della collezione primavera 2007 di Alexander McQueen, con corpetto in organza e gonna di piume, e le gonne di frange proposte da Prada per l’autunno 2007.
    Il modello abat-jour, una sorta di jupe-culotte con una breve gonna rigida che Poiret utilizza anche nei costumi per lo spettacolo “Le Minaret”, viene riproposto in versione elegante da Giorgio Armani per la primavera 2007.
    La collezione primavera-estate 2007 di Matthew Williamson riprende Poiret nelle stampe e nell’ampiezza delle maniche di alcune creazioni nonchè nei complicati disegni creati da pietre applicate su mini-abiti e casacche.

    Poiret si ritrova inoltre nelle stampe, nei volumi e nelle lavorazioni degli abiti della collezione autunno 2007 di Roberto Cavalli, ma anche nei tessuti laminati utilizzati per realizzare abiti che ricordano un po’ le donne del couturier francese.

    Rimane ora da sperare che qualche designer contemporaneo, oltre a ispirarsi allo stile Poiret, riprenda una delle sue idee più interessanti, lanciando un nuovo Atelier Martine, dando così ai giovani la possibilità di liberare la propria creatività e collaborare allo stesso tempo con affermati nomi del sistema moda.

    L’innovatore Poiret ne sarebbe certamente fiero.

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  7. Gabriele   31 Gennaio 2015 at 10:36

    Mi sorprende lo spessore dell’articolo. Per anni ci hanno messo in testa che internet era funzionale solo a blog o a messaggi brevi, sintetici. E’ evidente che i suoi interventi vanno in un’altra direzione. Credo che Lei abbia pensato a questa distonia.
    Seconda questione: nel Suo articolo ho trovato per la prima volta una ricostruzione credibile delle sfumature che la sfilata possiede e che ritrovo spesso nelle attuali cronache giornalistiche. Sono sfumature casuali, legate a scelte soggettive, intuizioni del momento o sono il risultato di conoscenze fondate?

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Camtoni   31 Gennaio 2015 at 18:38

      E’ notizia di questi giorni che Andrew Sullivan, uno dei blogger storici della rete, ha deciso di smettere di aggiornare il suo famoso blog per dedicarsi alla scrittura. Si è dichiarato saturo della rete e desideroso di scrivere saggi lunghi e più profondi. Personalmente non ho mai seguito i suoi commenti ai fatti politici. Anche se riconoscevo l’importanza storica dei suoi schietti e immediati interventi, non mi ha mai convinto l’esaltazione delle chiacchiere e l’avventatezza dei giudizi che molti stolti hanno subito eletto come il “nuovo linguaggio del web”. Andrew è una persona seria; probabilmente molte volte ci prendeva. Scommetto però che altrettante volte si rendeva conto di avere scritto stronzate. Ma non è questo il punto. La vera cretinata è stato pensare che il web significasse solo frasi anoressiche, scritte senza pensarci troppo; un nuovo linguaggio per il quale solo l’immediatezza del significato aveva valore.
      Forse un giorno si scoprirà che il web ridotto a blog, e le protesi tecnologiche che lo hanno reso così importante, ha rappresentato per una generazione una sorta di psicoanalisi selvaggia che le ha permesso di esprimere nel simbolico desideri, fantasmi, incubi, speranze… Ma per ora io non lo vedo come una “cura”, bensì come un sintomo di una stupidità che pretende di ergersi a misura universale del linguaggio e del pensiero.
      Io non ci sto a questo gioco che massacra la ricchezza e la complessità del sistema lingua-pensiero. Il web è semplicemente un software che consente di trasformare milioni di computer in un incredibile strumento di comunicazione, condivisione, critica, partecipazione. Il linguaggio che abilita rimane sempre il linguaggio nel quale dobbiamo prendere posto e con il quale dobbiamo risolvere i nostri problemi. Non ho nulla contro le persone che decidono di restare per tutta la vita imprigionate in qualche centinaio di parole. Ma certamente non mi fido di quello che dicono e non accetto che interferiscano con lo spazio di linguaggio che mi è necessario per raccontare le cose come le vedo o le studio. La lunghezza di un testo lo rende immune da sciocchezze? Certamente no! Ma a volte rappresenta il prezzo da pagare per saperne di più.

      Per quanto riguarda la tua seconda questione direi questo:
      Non ho presentato sfumature; ho individuato delle forme emergenti di sfilata, a partire da delle pratiche. A cosa serve avere cognizione che la sfilata può assumere la forma di evento, spettacolo, rito, funzione commerciale? In primo luogo è utile per avere cognizione del tipo di narrazione che ogni forma si riserva.
      In secondo luogo, ci consente di regolarne gli effetti con maggiore consapevolezza.
      In terzo luogo ci fa capire che è probabilmente nella fusione tra queste forme o nel loro dosaggio che possiamo trovare oggi le ragioni dell’efficacia.

      Rispondi
      • Gabriele   1 Febbraio 2015 at 09:29

        Si sono d’accordo. Pensare che internet significasse solo un approccio frettoloso era una grande sciocchezza. Nel web c’è sempre stato di tutto. Il fenomeno del blog è stato sopravvalutato. Non ha mai rappresentato tutto internet, ma solo una parte.

        Rispondi
        • Luciano   1 Febbraio 2015 at 18:21

          Una prova che il bloggerismo oltre ad avere gli ovvi limiti cognitivi che tutti conoscono (c’è qualcuno che ha mai imparato qualcosa da un blogger? E se sì, cosa ha imparato?), non può rappresentare il web, sono i libri on line.
          Le percentuali di persone che leggono libro on line (gli stessi che troviamo in libreria) sono in costante aumento. Io credo che la differenza la faccia cosa si scrive e non quanto si scrive.
          Ho partecipato alla creazione di sfilate, ne ho viste altre e le trovo divertenti. Durando circa 15 minuti, anche le più banali possono essere digerite senza annoiarsi.
          Tuttavia ricordo che quando passai dal ruolo di fruitore a quello di costruttore di ciò che l’autore dell’articolo definisce l’effetto sfilata le cose cambiarono sostanzialmente. Ogni elemento della sfilata divenne un problema. Mi rendo conto che il saperci fare con questo genere di effetti presuppone in realtà una grande cultura non solo della moda.
          Io per esempio cercai ispirazione nell’arte.

          Rispondi
  8. Fiammetta Massetani   31 Gennaio 2015 at 17:42

    Da quest’articolo ho ricevuto un ulteriore conferma sul fatto che si presta sempre più attenzione a raggiungere un livello elevato, mettendoci il minor impegno e tempo possibile, tentando di intraprendere la via più semplice, ma che non sempre coincide con la più efficace.
    Tutto viene reso commerciale, perdendo l’autenticità dei prodotti e del modo in cui vengono realizzati, si mira al successo immediato, e non a un successo duraturo acquisito passo dopo passo.
    Tutto é facile, poiché é una continua occasione per vedere e essere visti…
    Viene da domandarmi qual è il vero valore di queste sfilate? Oggi si mira a stupire a eccedere, ma andando a perdere il valore con cui tali sfilate erano nate…. Non sarebbe meglio tornare alla semplicità delle origini?

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  9. Alice Petralli   1 Febbraio 2015 at 12:18

    L’articolo “origini del dispositivo moda”, si riferisce alla nascita del fashion show. Ritengo che a tal riguardo non ci sia niente da obiettare vista la dettagliata e molto interessante narrazione. Per questo motivo ho deciso di fare una mia riflessione riguardo il fashion show contemporaneo dando a quest’ultimo un titolo:
    “Fashion show: tra evento e spettacolo”
    A mio avviso possiamo trovarne due tipi dominanti: l’evento e lo spettacolo.
    In una sfilata del gran tour della moda (New York, Londra, Milano, Parigi), tutti coloro che lavorano in questo mondo aspettano con ansia di sedere di fronte alla passerella e vedere cosa ha da proporre lo stilista per la nuova stagione. Certo l’insieme di tessuti che creano volumi, indossati da modelle mozzafiato, dovrebbero essere il vero protagonista della sfilata. Si dovrebbe cercare di capire quale sia il “concetto” che lo stilista vuole trasmetterci, i colori che ha usato, il perché ha usato delle forme piuttosto che altre. La sfilata permette a chi sta guardando di analizzare in toto cosa lo stilista ci sta proponendo poiché la nostra attenzione si focalizza esclusivamente li. Ma i fashion show più attesi ci dicono dell’altro. Per fare un esempio recente senz’altro citerei la sfilata della maison Martin Margiela by John Galliano. Tutti fremevano, bramavano per la voglia di vedere cosa lo stilista “ribelle” proponeva. Tutti erano concentrati su questa prima apparizione di uno dei grandi della moda, dopo il suo licenziamento da Dior. L’attesa della sfilata era talmente adrenalinica e le pressioni per essere presenti talmente numerose, tanto da costringere i responsabili ad effettuarla solo per un pubblico ristretto (100 persone tra addetti ai lavori e giornalisti, quando una sfilata di questo livello ne coinvolge di solito almeno 1000). E’ chiaro che le intenzioni dei manager erano di concentrare l’attenzione solo sui ogni dettagli utili per poter commentare e trovare differenze o similitudini con lo storico stilista Margiela. Ma il tutto a livello di design stilistico. In realtà della sfilata ha parlato tutto il mondo dal momento sia il ritorno di Galliano e sia l’imprevedibile matrimonio con un creativo totalmente diverso dal suo stile British, hanno trasformato il fashion show ristretto, nell’evento del giorno.
    Parlando dello spettacolo renderò più chiaro qual è il concetto che voglio esprimere. Voglio iniziare con degli esempi per rendere meglio l’idea. Ne basta uno per avere le idee chiare: Alexander McQueen. Beh! chi partecipava alle sue sfilate certo non focalizzava tutta la sua attenzione sugli abiti ma era estremamente incuriosito,affascinato da tutta la scenografia. Le sue sfilate erano delle vere e proprie “messe in scena teatrali” nelle quale scorrevano questi abiti scultorei,surreali,incredibili. Uno spettacolo che creava stupore negli occhi di chi lo guardava. Ma oltre ad essere uno spettacolo, lo show del grande stilista inglese, aveva la peculiarità di traumatizzare il pubblico, utilizzando la collezione per esprimere una visione della moda che trasmetteva potenti passioni.
    Vorrei fare notare che con McQueen il fashion show si presenta come uno spettacolo; ma se lo spettacolo riesce finisce col divenire un evento.
    Un altra sfilata-spettacolo, meno rilevante rispetto quelle di McQueen, ma che crea sempre molto entusiasmo, sono i fashion show di Victoria Secret. Le Angels che sfilano su una passerella accompagnate dalle note dei cantanti più famosi del momento dotate di queste ali che le rendono quasi “divine”. In questo caso lo spettacolo produce solo piacere; non ci sono messaggi particolari o visioni della moda eversive.
    Quindi per concludere, l’evento lo paragonerei ad un film che porta il pubblico a parlarne in modo ossessivo, trascendendo il fatto che in definitiva si tratta solo di un film. Lo spettacolo invece mi fa pensare ad un film che produce piacere, non traumatizza nessuno; se risulta ben fatto convince per un po’ tutti.

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  10. Daria Di Marco   1 Febbraio 2015 at 16:38

    LA FORZA COMUNICATIVA DELLA SFILATA E LE SUE ORIGINI
    Nonostante le voci sulla crisi della moda, emerge con forza in questo articolo, la grande storia che ha accompagnato nel tempo il processo della ritualizzazione delle c.d. sfilate di moda, nelle sue varie forme e contestualizzazioni storiche-sociali.
    Anche se oggi ci può sembrare strano, trovo molto geniale l’idea di utilizzare le c.d. bambole della moda, le parate e le defilè di stampe, per rappresentare gli abiti dei grandi sarti parigini presso le corti di tutta Europa.
    Le bambole della moda, pur di arrivare in tutte le corti europee, sono state dotate di immunità o addirittura scortate da uomini a cavallo, per assicurare la consegna di queste bambole vestiti con abiti sontuosi o biancheria intima. Questa idea molto geniale ha permesso, durante la guerra, di ricreare il mito di Parigi capitale del buon gusto, del lusso e della programmazione del cambiamento che caratterizzava l’appartenenza di una certa classe sociale, negli anni in cui il mercato americano era agguerrito.
    Nonostante, la guerra, la crisi di risorse finanziarie e la fame, l’idea di fare delle sfilate in miniature con duecento bambole fu un grande successo- Parteciparono le più grandi maison parigine alla sfilata e fu immortalata la mostra presso il theatre de la mode del Louvre.
    Nel 1946 le bambole furono rivestiti degli abiti che rappresentavano la moda di Parigi e furono spediti in America per dimostrare la grande arte della moda parigina e la sua supremazia.
    Il messaggio chiaro è che la sfilata delle bambole in miniatura hanno rappresentato la ritualizzazione della sfilata intesa in senso moderno, hanno estetizzato il concetto della moda attraverso totem e feticci, ma ha attribuito quella grande forza comunicazionale e emozionale che si attribuisce oggi alla sfilata di moda.
    Ha costituito la novità, e non c’è sfilata di moda senza novità-
    Prima ancora delle bambole manichino-600-700- per comunicare le tendenze della moda sono state utilizzate le stampe che poi si trasformarono nelle riviste di moda, così come le parate. Quello che si coglie è sicuramento il fenomeno della moda e la sua evoluzione intesa come fenomeno di trasformazione nel tempo.
    Si passa dalle bambole alle maniquen alle modelle di oggi. La moda entra nell’era moderna man mano che si affilano le tecniche e le pratiche di presentazione degli abiti. Diventa una impresa creativa e spettacolo pubblicitario. In poco tempo si diffonde l’uso di giovani indossatrici. Si attua una tattica d’avanguardia, cioè si spettacolarizza e teatralizza la merce, la pubblicità che incanta e l eccitazione del desiderio.
    La sfilata si trasforma in un gioco di manipolizzazione seduttiva di un pubblico eterogeneo e perde la caratteristica di rivolgersi a pochi destinatari.
    Dallo spettacolo si passa alla ritualizzazione.
    La sensazione che ho è che oggi il Fashion Show sia diventato uno strumento di pubblicità, e si corre il rischio di farlo diventare uno spettacolo, dove si perde l’importanza dell’unicità dell’abito, per far prevalere l’evento, la location, le protagoniste ecc.
    La riflessione che mi sorge è questa: il defilè di moda deve essere un evento, uno spettacolo e un rituale,
    ma non deve perdere l’obiettivo principale che è la presentazione di un abito, di più abiti, che rappresentano fra l’altro, un messaggio di vita, di stile, di valori e di cultura del suo creatore.

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    • Matilde   1 Febbraio 2015 at 18:36

      Il pensiero di Daria sulla forza comunicativa della sfilata secondo me è giusto. Ma come facciamo a dare forza alla collezione senza utilizzare tecniche e modi dello spettacolo? Viviamo in un mondo che ha due strumenti di comunicazione potentissimi: la Tv e internet. Se una sfilata non interagisce con questi due strumenti non può avere la forza necessaria per i suoi scopi. Ma se lo fa corre il rischio di diventare pubblicità! Cosa dobbiamo fare?

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  11. giulia nistri   1 Febbraio 2015 at 16:57

    Buona domenica! Premettendo che l’articolo è di gran lunga interessante e coinvolgente, per quanto mi riguarda credo non ci sia il modo di aggiungere niente di più; d’altro canto spinge comunque a fare una riflessione riguardo al “dispositivo sfilata”: quello che si evince chiaramente è che essa sia sempre e comunque un flusso di informazioni, che però possono essere trasferite e trasmesse in molti modi diversi; essa può assumere un “aspetto formale”, quindi una significazione commerciale, oppure può prendere una piega ludica, trasformando la sfilata in un vero e proprio fashion show.
    Dato che sono mesi che studio e analizzo la grandiosa azienda di Renzo Rosso, non posso fare a meno di pensare ad essa:la Diesel ha un proprietario che sicuramente è un grande industriale e stratega, ma avendo da sempre indirizzato il suo stile, la sua moda ad un target “energico”, le sue sfilate sono caratterizzate da musica alta e moderna, il pubblico che viene attratto è giovanile e l’atmosfera è senza dubbio da festa.
    Riallacciandomi anche a ciò che ha scritto Alice, non vedo quale sia il motivo per cui una sfilata dovrebbe prendere un aspetto formale e di conseguenza noioso: ormai ai giorni nostri ciò che uno ricerca è fantasia e originalità, certo negli abiti.. ma tutto quello che sta intorno ad essi è diventato di gran lunga importante; attirare un pubblico risulta sempre più difficile, perchè le aspettative crescono continuamente, per questo credo si debba esagerare, scommettere e buttarsi: la monotonia, la precisione e le regole non piacciono quasi a nessuno, basti pensare che le sfilate più attese sono quelle di McQeen e Victoria Secret.

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  12. Marta Stangarone   1 Febbraio 2015 at 17:17

    L’aspetto che credo sia interessante e stupefacente del fenomeno moda, è il modo in cui dimostra le sue abilità nel tornare sempre alle sue origini, ispirandosi (per nuove tendenze), alle origini della sua storia stessa.
    Mi riferisco alle foto di Giampaolo Sgura per Vogue Paris 2015, nelle quali possiamo trovare immortalate nel suo obbiettivo 12 modelle raffigurate come modelle in plastica.
    Le cosiddette ” Barbie”, vestono le tendenze 2015 per brand come: Valentino, Gucci, Dolce & Gabbana, Chanel…giocando sul concetto di “modella Barbie” come oggetto da mostrare.
    Che siano le “bambole di moda” delle corti inglesi, italiane e francesi dei tempi di principi e principesse ad aver dato il via alla nascita del dispositivo sfilata credo si possa confermare anche grazie al servizio di Vogue Paris 2015.

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    • Michela Pinci   11 Maggio 2015 at 20:08

      Mi trovo in perfetto accordo con il commento di Marta, mentre leggevo l’articolo la mia mente continuava ada andare per la tangente portandomi a riflettere su questa capacità innata che caratterizza da sempre la moda e che da sempre mi affascina. A volte ho pensato, per quanto fosse assurdo, che potesse essere paragonata alla fenice per quanto fosse in grado in qualsiasi momento di rinascere dalle proprie ceneri.
      Come afferma Eraclito nel frammento 19 ‘…alto e basso si danno dislivello tra loro / tono e nota si danno armonia tra loro / prima e dopo si fanno seguito tra loro’. In quale campo possiamo notare la realizzazione pratica di un pensiero così astratto e apparentemente lontano se non in quello della moda, dove heritage e avanguardia si fondono in modo così perfetto dal dare luogo alla moda del nuovo millennio?

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  13. Lucrezia Ercoli Malacari   1 Febbraio 2015 at 19:12

    SFILATE DIGITALI

    Leggendo l’articolo “Origini del dispositivo sfilata”, ritroviamo una dettagliata e fedele ricostruzione della storia della sfilata.
    Ciò ci fa riflettere sulla grande importanza di quest’ultima, ricordando le proto-sfilate di Worth fino all’emozionale fashion show moderno.
    Uno dei temi sul quale vorrei soffermarmi è quello della sfilata legata al digitale, una delle innovazione che più ci ha influenzato e cambiato negli ultimi anni.
    Inutile dire che la sfilata è un vero e proprio spettacolo (di cui Poiret ne è il precursore), sia per fini commerciali che per fini emozionali;
    La musica, le luci, le modelle e gli abiti ci raccontano ogni volta una storia, una trama visibile da noi spettatori attraverso il ruolo delle creazioni che sfilano durante l’evento.
    Le fashion week sono le sfilate più attese dagli amanti della moda di tutto il mondo e il particolar modo dalle “fashion victims”, nella speranza di conoscere le follie e le tendenze della stagione successiva.
    Nel mercato mondiale e anche nel mondo della moda stanno diventando sempre più importanti i social network , i blog e le app per smartphone.
    Il web è adesso uno degli strumenti di maggior investimento anche per il fashion, basti pensare ai video online dei fashion show che danno l’opportunità di poter arrivare a molte più persone e non solo a coloro che erano presenti.
    Da non dimenticare però che è anche modalità non solo di diffusione accessibile a tutti ma anche di risparmio economico del brand, in quanto meno costosa rispetto ad altre forme di pubblicità.
    Il concetto moda è destinato come detto in precedenza a creare spettacolo e per tanto, ciò viene fatto anche attraverso il digitale, creando veri e propri collegamenti emozionali , tra brand e cosumatore.
    Grazie a queste gestioni digitali si può perfino entrare nel backstage delle sfilate, ascoltare i commenti di vip , redattori e stilisti in tempo reale. Si creano metodi sempre più creativi per attirare l’attenzione di giornalisti e blogger , ormai sempre in collegamento con il web.
    Topshop è arrivato a mostrare in anteprima mondiale le sue nuove collezioni attraverso una sfilata digitale e nel 2013 ha lanciato la prima sfilata interattiva, dove le modelle indossavano delle microcamere mentre camminavano lungo la passerella , mostrando quindi un’ originale e nuovo punto di vista a chi guardava l’evento.
    Detto ciò possiamo affermare che il fashion show è anche tecnologia e concluderei sostenendo che secondo il mio punto di vista l’evento sfilata si inserisce perfettamente con l’evoluzione della comunicazione in tutte le sue forme.

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    • Antonio Bramclet
      Antonio Bramclet   2 Febbraio 2015 at 12:58

      Si certo! Soprattutto immagino il successo se quelli di Topshops avessero piazzato una microcamera sotto la gonna. Sai che visione originale e che punto di vista… Un successone! Io avrei pagato un super biglietto per vedere finalmente le modelle, invece dei soliti scontati posing, alzare le gonne davanti alle centinaia di reporter nevrastenici, di solito impegnati a fare migliaia di inutili foto.

      Rispondi
      • Lamberto Cantoni
        Lamberto Cantoni   2 Febbraio 2015 at 20:28

        Bramclet, io avrei una idea migliore su dove infilare la microcamera, anzi una macrocamera tipo telecamere Tv anni cinquanta, quelle che assomigliavano ad un pezzo d’artiglieria; ma non alle incolpevoli modelle, ma a te! Quante volte devo ricordarti che questo non è un blog!
        Lucrezia ha proposto un buon intervento al quale mi permetto di aggiungere una riflessione.
        Siamo tutti d’accordo che il web è uno strumento di comunicazione molto potente. Non c’è dubbio che le aziende tentino in ogni modo di utilizzarlo anche per le sfilate.
        Ma proprio perché è potente non sfugge alla sindrome di McLuahn. Cosa sosteneva lo scienziato canadese?
        Marshall McLuahn ipotizzava che fosse il mezzo tecnologico (negli anni sessanta la Tv; oggi Intenet) a determinare i caratteri strutturali della comunicazione, producendo effetti pervasivi sull’immaginario dei fruitori, indipendentemente dai contenuti dell’informazione veicolata. Quindi, se seguiamo il ragionamento del grande studioso, la sfilata nel web avrebbe un impatto che dipende meno dai contenuti moda previsti dalla collezione e molto di più dalla specificità di internet. Proviamo a estrarre i tratti significativi che appartengono al mezzo: maggiore condivisione, immediatezza della circolazione del messaggio, globalizzazione della comunicazione… Voglio dirlo con le parole di Derrik De Kerkove, celebrato allievo di McLuahn… La sfilata nel web avrebbe la caratteristica definita “augmented reality” del suo processo comunicativo. Ipotesi interessante. Purtroppo per ora io registro solo un aumento della noia e della vacuità dei suoi contenuti.

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  14. Carlotta Bigi   1 Febbraio 2015 at 21:02

    Di tutti i modi in cui possiamo parlare di sfilata, sicuramente ritroviamo le sue origini, come da lei esemplificato, ai tempi del secondo dopo guerra francese quando si raccontava della sopravvissuta capitale della moda, o ancora di quando si vestivano quelle bambole-manichino costruendo defilé in miniatura, o quando, per rappresentare le nuove tendenze moda si iniziò ad utilizzare una sfilata di stampe, antenate delle riviste moda di oggi.
    Ma in tutte queste rappresentazioni c’è un filo logico che lega tutte quelle menti geniali che per la prima volta hanno provato a far camminare uno dietro l’altro; preziosi abiti, o abitini, quando si trattava di bambole in filo di ferro.
    Ognuno di loro, cercava un modo di presentare quelle collezioni, cariche di significati e di storia vissuta da raccontare.
    Mi hanno colpito molto, nel suo articolo, una serie di parallelismi tra quella chiamata da noi, sfilata, i cortei e le parate militari e i cortei carnevaleschi.
    Ho interpretato in modo audace forse queste contrapposizioni, ma non è vero forse che i cortei militari, i cortei carnevaleschi e le sfilate, si portavano dietro un pubblico completamente attonito nell’osservare il movimento continuo di figure che con i loro corpi riuscivano a trasmettere emozioni e a comunicare una vera e propria narrazione?
    Non c’è forse una connessione tra militari, maschere e modelle? “Sono esse uno spettacolo in sé” diceva Alain, sono d’accordo!
    Oggi però, a mio avviso, il termine “sfilata” viene utilizzato con troppa facilità, nessuno, o forse pochi veramente sanno di cosa stiamo parlando.
    Attribuiamo per comodità la nascita del defilé a scopo propagandistico a Charles Frederick Worth, alla metà del XIX, ma nessuno sa veramente se prima di lui qualcuno ci avesse già pensato.
    In ogni caso, oggi, si può parlare di Fashion Show, e quando si parla di Fashion Show, si può parlare di supermodelle, di concetti creativi, d’immagine, di marketing, di vendite, di primavera/estate e di autunno/inverno, si parla di conferenze stampa, si parla di fotografi, di cinema, di scandali e di tutto quello che ne consegue, ma quando penso ad una sfilata oggi, penso al potere comunicazionale, e perché no, mediatico, che possiedono questi veri e propri show, rappresentano il motivo per cui, in questa società moderna il lusso è diventato accessibile, il motivo per cui, oggi, si vendono esperienze e non più prodotti di qualità, quelle esperienze che il consumatore di oggi, ricerca ovunque e quando le trova ne vuole far parte.

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  15. Giulia Cavaciocchi   1 Febbraio 2015 at 22:22

    Mi piacerebbe ricollegarmi al commento di Matilde, chiedendo cosa ci sarebbe di male se l’evento-sfilata rischiasse di diventare pubblicità? Io penso che il Fashion-Show sia il modo più geniale che uno stilista abbia per far conoscere la propria collezione ed essere ricordato. Prendo come esempio le meravigliose sfilate di Victoria’s Secret, milioni di ragazze aspettano con ansia questi veri e propri spettacoli, anche le modelle che vi partecipano sono diventate a loro volta delle icone, e sto parlando di un brand che è diventato l’emblema della lingerie femminile in tutto il mondo. Ovviamente non si può negare che le sfilate siano cambiate dai tempi delle mannequiens francesi, in cui l’abito era la parte fondamentale, ma credo che in questo preciso periodo temporale ormai non si guardi solamente al prodotto ma anche all’emozione che il prodotto stesso ti trasmette e l’esperienza che ne deriva dall’acquistarlo. Quando si compra un completino di VS, non si acquista un semplice capo di moda, ma anche un insieme di sensazioni che lo circondano e che a loro volta gratificano l’acquirente. Il consumatore sta cambiando e la moda deve fare altrettanto, usando tutti i mezzi possibili: e il migliore tra questi è il Fashion-Show, con la sua capacità di lasciare tutti a bocca aperta.

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  16. Elena Falcini   1 Febbraio 2015 at 23:18

    Penso che l’articolo sviluppi in modo chiaro ma soprattutto completo la crescita della sfilata nella storia partendo dalle sue origini.
    Le sfilate sono sempre state uno strumento di comunicazione nonostante tutti i cambiamenti che hanno affrontato durante gli anni, o meglio, durante i secoli. Inizialmente venivano utilizzate dalle sartorie per mostrare le proprie collezioni, per presentare gli abiti, le modelle infatti sfilavano negli atelier dei sarti per un pubblico molto ristretto. Le sfilate con il passare degli anni sono diventate dei veri e propri show come quelli presentati da Alexander McQueen (un esempio è la sfilata dell’Inverno 1998, dove, una modella si trovava al centro di un cerchio di fuoco) o un esempio più recente è la sfilata/show presentato da Karl Lagerfeld per la stagione P/E 2015. Gli stilisti che creano questi show innovativi cercano di reinterpretare le collezioni in chiave moderna senza scadere nel banale ma realizzando qualcosa di originale e di ricercato. Questi generi di show suscitano attesa e curiosità nel pubblico che ricerca qualcosa di nuovo rispetto alle vecchie e ormai antiquate, all’epoca innovative, sfilate di moda.

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  17. Federica Zannelli federicazannelli@hotmail.it   2 Febbraio 2015 at 18:15

    E’ bello come questo articolo ti faccia viaggiare nel tempo e scoprire il passato, percorrendo l’evoluzione della sfilata. Credo, però, che questo percorso si sia evoluto troppo velocemente e che abbia perso un po’ del significato del passato. Le sfilate oggi sono molto cambiate, è vero, ricche di emozioni, dei veri e propri show. Mi piacerebbe solo che si mettessero in primo piano l’importanza degli abiti, prima di tutto il resto.

    Rispondi
  18. Claudia   2 Febbraio 2015 at 19:11

    “l’atelier, lo spazio nel quale la moda diviene una forma di cultura, una specie di laboratorio creativo contiguo all’espressione artistica, e infine un’esperienza di acquisto estremamente raffinata ed elitaria.”
    La cito, perchè mi vorrei soffermare su questo frangente.
    Nell’evolversi la sfilata ha secondo me giustamente cambiato modo di essere, fino a diventare uno show, pur sempre elitario e raffinato e anche esempio di espressione artistica, solo con nuovi canoni, adattandosi ai cambiamenti della società e dell’informazione.
    La sfilata ha reagito, è diventata fautrice del suo stesso cambiamento portando però sempre con se i morbidi aromi, la seta frusciante, la pelle levigata delle modelle, la suggestione di preziosa eleganza, costruita con raffinate tecniche e modellata dai drappeggi dei grandi stilisti, pronta a fare scalpore!

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  19. Luigia Rossetti   2 Febbraio 2015 at 21:38

    Io credo che il “percorso” della sfilata si sia evoluto troppo velocemente negli anni a tal punto da perdere di vista il suo reale significato. Esse nascono come strumento di comunicazione, utilizzate dalle sartorie per presentare e far conoscere le proprie collezioni e non come show, dove tutto viene preso in considerazione furchè il motivo stesso per cui vengono fatte, ovvero gli abiti, che a parer mio devono essere messi in primo piano e indossati da modelle nel vero senso della parola e non da corpi anoressici.

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  20. Adri   3 Febbraio 2015 at 07:52

    Mi piace l’idea del dispositivo anche se non sono sicura di cosa significhi veramente. Mi da l’idea di qualcosa che trasforma. Mi piace anche l’imago fluens. Anche se ha lo stesso significato di modella o mannequin la trovo una parola che esprime l’eleganza di una sfilata. Mi piacerebbe sapere se sono parole usate per dare un tocco personale all’articolo, oppure se hanno una funzione diversa. A me sembra che l’imago fluens esprima molto bene l’essenza di una sfilata.

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  21. Martina   3 Febbraio 2015 at 12:23

    Se, ai tempi di Worth, un abito veniva fatto indossare da una bella donna, di modo che potesse valorizzarlo al meglio, ora questo uso non è poi così scontato. Il concetto della sfilata e dei suoi protagonisti (modelle, abiti,…) come ha esaurientemente spiegato lei, è mutato e continuerà a mutare, ma occorre però puntualizzare che nella moda di ora il concetto di bella modella=abito più bello non trova più lo spazio che aveva prima. Guardando gli show di Rick Owens, dove modelli e modelle sfiorano gli attuali canoni di bruttezza, o le sfilate di Maison Martin Margiela (e dei molti che l’hanno copiato) dove le modelle venivano addirittura coperte in volto, viene da porsi delle domande e ragionare su di esse. Si punta a scioccare i presenti, a farli sentire in sintonia col brand e coinvolgerli in un’esperienza quasi extra corporea che possa farli sentire come parte di una grande melma omogenea e disomogenea allo stesso tempo che è composta da individui diversi che sono proiettati verso un mondo che sentono loro, o che lo stilista vuole far sentire loro. Ed è solo questo il modo per spiegare tutto l’entusiasmo che si può creare attorno ad una sfilata che, seppur brutta, fa sovreccitare il pubblico e lo fa sentire pedina fondamentale di un evento unico. Poi c’è anche chi, ovviamente, non si fa coinvolgere e rimane distaccato. E allora è lì che nasce l’oggettività e la critica.

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  22. ELisa Marina Melagrani   3 Febbraio 2015 at 16:50

    La sfilata è un rituale.
    A mio parere.
    Un capodanno, anzi il capodanno della moda.
    Chiude una stagione e ne apre un’altra.
    E come ogni primo gennaio, anche se in data diversa, sembra spazzare via gli errori e la negatività dell’anno precedente per lasciare spazio a novità e ….
    Ciò succede due volte all’anno però.
    Due grandi possibilità per rinnovarsi, cambiare e migliorare, concretamente e stilisticamente parlando.

    Continuando con le metafore, ogni ragazza vuole arrivare a questa data impeccabile, anzi bellissima.
    Compra un vestito nuovo e un fiammante paio di scomodi tacchi, passa ore davanti allo specchio, magari va in crisi ma quando esce dalla porta del bagno, è una principessa.

    E non è poi così diverso per i défilé.
    Si scelgono le modelle, possibilmente le più belle, la location più scenica….
    Tutti corrono all’impazzata, tante formichine stressate che lavorano.

    E’ un evento che determinerà in buona parte la riuscita della collezione.
    In parole povere e tecniche, deciderà se i soldi investiti rientreranno.
    E’ quindi plausibile e poco biasimevole, se il brand pompa e spinge questo evento.

    Poi ci sono i fashion show, una dimensione a parte.
    Una performance, uno spettacolo teatrale.
    Ma non è una pratica e una licenza concessa a tutti.
    Servono i mezzi ma anche la creatività, o meglio un nome, una possibilità.
    Non tutte le opere, le mostre, vengono applaudite o comprese, e non sempre i fashion show sono apprezzati.

    Ma la logica porta a pensare che se essi sono messi in scena, c’è chi è quasi sicuro (se esiste ancora la modestia in questo mondo) della buona riuscita.
    E per la natura di questi eventi, il brand che li organizza ha le doti per farli.
    Non so se mi sono spiegata.

    Senza rinnegare le “semplici” passerelle che non precludono la bellezza degli abiti, sono i fashion show a tenere alto il nome “moda”.
    A ricordarci quanto essa non sia solo estetica, ma arte.

    Se recentemente o negli ultimi anni questa magia è scemata e le settimane della moda sono solo grandi e costosi ritrovi di fashion blogger, il problema è alla radice.
    Un albero morto non darà mai foglie e neppure un piccolo bocciolo.

    Concentriamoci sul risollevare questo fantastico mondo, che tanto ci ha dato e che ci può offrire ancora molto.
    Critichiamo, costruttivamente, altro.

    Nella mia ingenuità voglio credere ancora nella moda come arte, come espressione di un pensiero, elevato.
    Voglio difenderla da chi e da cosa la definisce, la rende banale e mediocre.
    Non sarò io a cambiare ciò ma spero che vi sia qualcuno con le capacità di farlo e non solo di usare belle parole, come faccio io ora.

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  23. Eva Bagnoli   3 Febbraio 2015 at 22:57

    Trovo il paragone della sfilata con la parata particolarmente interessante.
    Che cos’è infatti una parata in sé e per sé? Il vocabolario Treccani la definisce con le seguenti parole:

    “Rivista militare, rassegna di forze armate (terrestri, navali, aeree): assistere a una p.; sfilare in p., a passo di parata. Anche, schieramento di reparti in onore di un’alta autorità civile o militare; in marina, speciale forma di onore navale, costituita dallo schieramento dell’equipaggio sui pennoni, sulle sartie, sul capo di banda di una nave, ferma o in moto, durante il quale si può dare il saluto alla voce. 


    Per estens., sfilata o esibizione in pubblico: una p. di maschere, di carri allegorici; p. carnevalesca; anche, manifestazione o esibizione ostentatamente solenne o pomposa per richiamare o colpire l’attenzione del pubblico: inscenare una p.; cos’è questa ridicola parata? ”

    Fra queste molteplici definizioni (di cui ho anche eliminato alcune parti), quella più importante e soprattutto quella che mi interessa è una: “manifestazione o esibizione ostentatamente solenne o pomposa per richiamare o colpire l’attenzione del pubblico”.
    Noi conosciamo le parate fin dall’antica Grecia e dall’antica Roma, quando i membri importanti della popolazione sfilavano di fronte alla plebe per manifestare il proprio potere, ma non possiamo allo stesso tempo affermare che queste particolari manifestazioni si riducano ad appartenere solo a quei tempi lontani. La parata esiste ancora oggi, e a mio parere non si svolge solo nelle piazze o nelle strade importanti di alcune città, poiché essa non è solo una semplice processione di molteplici personalità, ma rappresenta un atto simbolico, che racchiude in se una psicologia molto particolare che ritroviamo anche nelle sfilate della moda.
    La parte importante non è ciò che succede nella parata, ma ciò che la parata procura negli spettatori come fenomeno in sé. Mentre osservano personaggi importanti o al contrario divertenti (per esempio per le parate carnevalesche), oltre ad ammirarli, gli spettatori si immedesimano in essi, e l’emozione che prova chi in quel momento sta sfilando davanti ai loro occhi per una sorta di strano sortilegio sembra farsi loro. Ciò che è davvero interessante è che questo stesso meccanismo avviene sia per le parate sia per le sfilate di moda, ma anche nella vita di tutti i giorni. Chi dice infatti che la trasposizione di una parata non possa essere semplicemente una persona (che chi guarda considera di riferimento) che cammina con passo sicuro lungo il corridoio di un qualsiasi edificio? O perché no, una parata non può essere anche la passeggiata di una bella ragazza in mezzo a una strada affollata di mille occhi che la osservano ammirando il suo fascino?
    La parata non è semplicemente un fenomeno che si trattiene all’interno dei confini di alcuni eventi in cui pensiamo di trovarla, al contrario penso che lo stesso genere umano prenda ispirazione dalle parate quotidiane e programmate per decidere il decorso della propria vita. La parata, la sfilata di moda, ci permette di estraniarci per tutta la sua durata dalla vita reale, dai problemi che dobbiamo affrontare, e con la sua magnificenza sembra trasportarci in un mondo roseo e semplice, dove le difficoltà non esistono e l’animo può sentirsi sollevato per un po’. Mentre osserviamo le modelle sfilare, mentre osserviamo qualsiasi parata, dentro di noi abbiamo come la sensazione di avvicinarci almeno per quel poco alla persona che stiamo osservando, o meglio, a ciò che essa rappresenta. Così facendo riusciamo ad ottenere delle immaginarie soddisfazioni da un evento di nostra stessa creazione, tramite un’ipnosi quasi volontaria.
    E’ quindi tramite questo complicato meccanismo che la moda propone, dai fratelli Gagelin e Worth, con le loro “antenate” delle sfilate, passando poi da Lucy Sutherland ai designer contemporanei, i modelli e gli stili che vuole che il pubblico emuli, poiché vi è piena coscienza della potenza di questi eventi e dei loro prodotti sugli spettatori, che al contrario ignari di tutto ciò si recano nelle location delle sfilate credendo ingenuamente di stare per assistere ad una semplice successione di abiti in movimento.

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  24. Raffaella Di Sarno   3 Febbraio 2015 at 23:50

    Credo che questo articolo ci abbia fornito le giuste informazioni per quanto riguarda le origini della sfilata, di come si è evoluta negli anni e di quanto sia diventata sempre più il pilastro della moda. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, la sfilata interpreta il ruolo di strumento, per eccellenza, di comunicazione delle ultime novità create negli atelier parigini. Tuttavia, è solo durante la Belle Époque che la sfilata diventa un evento paragonabile ad uno spettacolo, basti pensare alle sfilate di Chanel, dove la stilista guardava le sue modelle attraverso uno specchio, seduta sui gradini del suo atelier. Ma il padre fondatore “delle origini del dispositivo sfilata”, fu Worth che introdusse novità come l’uso delle modelle, il concetto di collezione, l’etichetta firmata. A differenza del sarto, Worth non confezionava i vestiti assecondando i gusti delle clienti, al contrario, era egli stesso arbitro del gusto. Le sfilate rappresentano il simbolo dell’innovazione della moda, che si è realizzato con il passaggio dall’abito sartoriale identificato con un prodotto esclusivo, confezionato in un unico esemplare, all’abito sartoriale creato per una clientela numerosa, limitando la libertà di scelta del tessuto a una gamma ristretta di varianti, affidando alle guarnizioni il compito di rendere ogni abito diverso dall’altro. Col passare degli anni la sfilata ha avuto una grande evoluzione, che non è solo finalizzata all’abito stesso, ma va ben oltre: suscita emozioni, basti pensare alle sfilate di Mcqueen, o quelle di Victoria Secret,o un altro esempio recente è quello della sfilata p/e 2015 di Chanel. L’articolo riesce in modo chiaro e coinciso a descrivere il concetto sfilata, facendo comprendere al lettore le fasi che ha vissuto la moda durante il XX secolo, il tutto avviene attraverso una lettura piacevole e coinvolgente.

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  25. Margherita Anichini   4 Febbraio 2015 at 00:14

    Mi preme innanzitutto fare una piccola premessa, spinta dalla recente visione delle ultime “non-sfilate”: Non esiste moda senza corpo e senza il potere e la magia che il corpo dona alla moda e all’abito, cioè di suscitare desideri profondi e potenti come altre poche cose al mondo, dunque no, non può esistere moda senza sfilata.
    Se la trovata delle bambole, scaturita sicuramente da una necessità, può aver avuto successo proprio perchè legata indissolubilmente al periodo difficilissimo entro il quale era stata concepita, essa non può però aver suscitato quell’emozione, quel desiderare irraggiungibile, quella passione sfuggente che solo una sfilata, col rapporto di quasi due amanti tra abito e corpo, ha il potere di generare, e se oggi quel corpo viene nascosto, svilito, annullato in tutti modi, è perchè forse ci stanno preparando ed abituando ad una moda senza corpi, e dunque senza sfilate.
    In cuor mio confido che ciò non accada mai, perchè la sfilata, intesa come fashion show, intesa come Poiret stesso la concepì e mise in atto, è ciò che di più alto la moda possa aspirare a fare, che già in passato ci emozionò al pari, e, per quanto mi riguarda, oltre, di un’opera d’arte in senso stretto e che, come già detto, suscitò in noi desideri davvero poco comprensibili e replicabili.

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  26. Mariapaola Giuliotti
    Mariapaola Giuliotti   4 Febbraio 2015 at 09:04

    Emozioni. Si, vorrei parlare proprio delle emozioni, dei sentimenti, di ciò che si prova quando ci troviamo davanti ad un fashion show che si rispetti; quando abbiamo davanti chi con abilità impegno e professionalità ha creato, pensato e reso possibile uno spettacolo tanto bello, tanto affascinante da farci stare a bocca aperta per qualche secondo. Purtroppo io sto parlando con gli occhi della mente ( per quanto alle volte siano anche più potenti e coraggiosi) non essendo mai andata fisicamente ad una sfilata, quindi parlo solo grazie a quello che ho capito e che mi è stato trasmesso da questo articolo o dalla mia passione durante il corso degli anni. Da ciò che abitualmente vedo da yuotube, dai vari siti ufficiali dei Brand. Io non credo fermamente alla crisi del fashion show perché a mio parere è come togliere ad un cantante la possibilità di fare dei concerti, delle rappresentazioni dal vivo. Le sfilate, le passerelle è il vivo, è il cuore di una collezione, è l’apoteosi dello stilista, la rappresentazione più vera più concreta della sua arte. Fin che ci sarà la moda, fin che ci saranno gli stilisti sono convinta che ci saranno anche i fashion show con tutto il mondo annesso che ne richiede. Ma ciò di cui voglio soffermarmi quest’oggi, è qualcosa che mi domando spesso e ancora non mi sono data una vera e propria risposta è il perché molte scuole di moda, prendendo come esempio il Polimoda di Firenze ( solo perché ne sono io una studentessa) oltre che studiare sui libri, e certo fare progetti rappresentazioni nella sede a fine anno davanti anche a molti, non ci portino proprio a vedere dei fashion show. Leggendo i commenti precedenti ho letto fra le righe Chanel, Alexander McQueen, certo non intendo loro, qui stiamo parlando di colonne indiscusse del fenomeno moda. Ma da qualche parte bisognerà pure iniziare no?! Quindi sto parlando di sfilate di artisti nuovi emergenti, di ragazzi giovani che anche loro per quanto bravi ed essere riusciti ad affacciarsi in quel mondo bello ma difficile,sono alle prime armi. Per farci ( noi, voi studenti )catapultare veramente in quel mondo. Un po’ come tante università italiane, per tutto il corso degli studi solo e soltanto libri e poi quando inizia l’ attività lavorativa non sai nemmeno da che parte rifarti, ecco io ritengo opportuno portare noi, chi frequenta questo tipo di scuola a delle sfilate. Ciò che ci potrebbe scaturire dentro, e ciò che si potrebbe imparare guardando il pre spettacolo, andando negli stage penso sia molto meglio, molto più istruttivo di qualsiasi libro o progetto fatto su Power Point. Quindi il mio invito è sia agli artisti emergenti di accogliere le richieste delle scuola di moda di poter fare entrare i nuovi “ragazzi della moda” nel loro mondo, e ovviamente alle scuole di creare queste occasioni. Il Fashion show non morirà mai. Ma chi c’è veramente dentro dovrebbe creare iniziative, eventi, coinvolgere più persone giovani ragazzi, altrimenti davvero il fashion show sarà qualcosa di statico fermo, dedicato solo alle vecchie direttrici dei giornali più importanti di moda e adesso negli ultimi anni all’esercito dei fashion blogger, si loro sono giovani ma oltre a fare pubblicità TANTA pubblicità cosa sanno della moda?, si stupiscano davvero di fronte a ciò che vedono, se forse nemmeno lo capiscono ? Insomma per adesso mi accontento di leggere articoli che trattano questo tema magari andando anche a ricercare notizie sul passato come ha fatto lei Cantoni che mai guastano,anzi sono da premessa e un buon “antipasto”per avere un occhio più vigile e critico verso il futuro. Oltre a vedere,come sempre sul mio divano gli spettacoli delle case di moda, se ce ne saranno in futuro alcuni che meriteranno davvero, come già accennato Mcqueen tanto per citarne uno a caso. Proprio uno a caso.

    Rispondi
    • Adri   5 Febbraio 2015 at 09:01

      Sono d’accordo con te Mariapaola. E’ uno scandalo che noi ragazze studiose della moda non abbiamo mai la chance di vederne una decente. Hai ragione anche quando dici che a forza di far entrare solo le viziatissime giornaliste di moda e buyer distratti, gli stilisti stanno uccidendo le sfilate. Pensa che energia porterebbero ragazze come noi allo show!

      Rispondi
      • Eliana   5 Aprile 2015 at 19:44

        Vi ricordate cosa successe alle sfilate quando furono invitati i primi fashion blogger? Le giornaliste erano tutte arrabbiatissime e non si capacitavano per la presenza di tutti quei giovani. Penso che sia una cosa molto stupida. Capisco che vogliano difendere i loro privilegi ma si sono mai chieste se c’è qualcuno che legge veramente quello che scrivono!

        Rispondi
  27. Michela Pinci   11 Maggio 2015 at 20:21

    Continuo a leggere commenti su commenti di ‘lamentele’ poichè le sfilate non hanno più lo stesso valore del passato, non è più l’abito stesso ne il genio del designer ad essere messo in primo piano ma solamente l’esile corporatura (quasi inesistente) delle modelle, i commenti o i post delle cosiddette ‘fashion blogger’ che non hanno neanche una base minima di cultura riguardante la storia del ‘fashion’ sono molto più importanti di giornalisti o esperti del campo che studiano l’evolversi del fenomeno fin dai tempi più antichi.
    Vorrei sottolineare che mi ritrovo in perfetto accordo con tutte le riflessioni precedenti, ma allo stesso tempo mi domando come si possa essere così stupiti di tutto ciò. In un mondo dove l’apparire è sempre messo in primo piano rispetto all’essere, e la causa di questo degenero non può essere attribuita a nessuno che non sia l’uomo, non poteva essere prevedibile tutto ciò?

    Rispondi

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