Il fotografo e la giornalista di moda

Una bella mostra, a Pesaro presso Palazzo Mosca (3 luglio-31 ottobre 2015), dedicata a Pasquale De Antonis, oltre ad esporre pregevoli immagini di moda, racconta l’avventura intellettuale tra il fotografo e Irene Brin, probabilmente la più influente giornalista italiana negli anni in cui cominciava a diffondersi la narrazione che oggi definiamo Made in Italy.

Pasquale De Antonis Roma Marella Caracciolo di Castagneto vestito Battilocchi 1949
Roma Marella Caracciolo di Castagneto vestito Battilocchi 1949

Pasquale De Antonis (1908-2001) appartiene alla generazione di grandi fotografi italiani nata nella prima decade del novecento. Come formazione e curiosità fu un fotografo eclettico che, grazie ad una padronanza tecnica ragguardevole, riusciva ad essere convincente qualunque fosse l’oggetto sottoposto all’attenzione del suo sguardo. Per quanto riguarda le immagini fatte per la moda e relativamente al contesto italiano, gli unici fotografi della sua generazione che possiamo mettergli di fianco sono Elio Luxardo (1908-1969), Arturo Ghergo (1901-1958), Elsa Haertter (1908-1995). Aggiungerei a questa breve lista, non senza precauzioni, i nomi di Elsa Robiola (1907-1988) e Federico Patellani (1911-1977).

Arturo Ghergo si era specializzato negli anni trenta, in ritratti per l’aristocrazia e per i divi del cinema lanciati da Cinecittà, che eseguiva seguendo tecniche pittorialiste (ritocco con pennelli e matite, effetto flou, utilizzo di tecniche di illuminazione e stampa che donavano morbidezza alle figure). Nei suoi ritratti curava tantissimo la resa luminosa dei tessuti e le forme del drappeggio. Forse non è del tutto esatto considerarlo un fotografo di moda. Detestava avere rapporti con editori e aziende. Il suo contributo alla moda avvenne perlopiù grazie ad una collaborazione con il fascistissimo Ente Italiano Moda, per il quale documentò il look sofisticato delle aristocratiche e le pose Hollywoodiane delle attrici del nostro cinema.

Anche Elio Luxardo aveva cominciato a fotografare con piglio professionale facendo ritratti dei personaggi di grido degli anni trenta. Al genere ritratto alternava collaborazioni con riviste di moda. Il suo stile risentiva moltissimo dell’influenza nefasta dell’ideologia dominante del periodo. L’ossessione dei burocrati fascisti era l’emancipazione radicale della moda italiana dall’egemonia francese attraverso la rimozione netta di ogni contaminazione. Era chiaramente un programma delirante che tuttavia creava grattacapi sia ai couturier e sia ai fotografi di moda. Luxardo risolse il problema grazie ad una sensibilità fuori dal comune per il “corpo glorioso”, interpretato secondo il canone della bellezza classica, al quale aggiungeva una evidente patina di poesia che conferiva ai suoi migliori scatti una seduttività estetizzante, non priva di ironia.

Elsa Haertter, era di nazionalità tedesca e professionalmente come giornalista di moda si formò a Parigi. Nel 1950 si trasferì in Italia è cominciò il suo lavoro redazionale per la rivista “Grazia”. Oltre a scrivere e ad essere una brava stylist, Elsa con l’esperienza aveva maturato un buon occhio fotografico. Divenne presto una affidabilissima fotografa di moda. I suoi servizi su “Grazia” suggerivano una presa sulla moda che si incanalava lungo i solchi delle tendenze internazionali rappresentate della testate americane e parigine.

Elsa Robiola era essenzialmente una giornalista di moda che aveva imparato a padroneggiare tutte gli aspetti che rendevano efficace un articolo. Aveva cominciato a pubblicare pezzi firmati nei primi anni trenta, nei quali la moda veniva intrecciata con tematiche economiche e culturali. Nel 1941 diviene caporedattrice della rivista “Bellezza”, organo ufficiale dell’Alta Moda italiana sotto il fascismo. Dopo la caduta del regime, conquistò la direzione della testata trasformandola in un moderno mezzo di comunicazione a sostegno della nascente moda italiana. Come direttrice della testata, oltre a scrivere, si prese la responsabilità e il piacere di pubblicare anche foto che riprendeva in prima persona. Niente di eccezionale se paragonato ai grandi fotografi in circolazione negli anni cinquanta, ma assolutamente ragguardevole se proiettato nel contesto editoriale italiano. Per quanto riguarda Federico Patellani diciamo subito che l’etichetta di fotografo di moda gli stava decisamente stretta. E’ senz’altro più corretto considerarlo, prima di tutto, un grande protagonista del foto giornalismo italiano. Il suo contributo più importante alla foto di moda fu senz’altro l’interpretazione neorealista che diede negli anni cinquanta, portando modelle e abiti di lusso per strada, in situazioni popolari, dinamiche, chiassose. I suoi servizi erano dei veri e propri reportage giornalistici nei quali la moda affrontava scenari sino a quel momento poco frequentati.

Pasquale De Antonis Irene Brin Galleria Obelisco vestito Carosa 1946
Irene Brin Galleria Obelisco vestito Carosa 1946

Il lavoro per la moda di Pasquale De Antonis sono il rovescio dello stile di immagini prodotte da Patellani. La teatralità e l’estetizzazione classica delle foto che produceva quando lavorava per i magazine dedicati al pubblico femminile, lo collocano più vicino a Ghergo e Luxardo, dai quali si differenziava per una maggiore sensibilità per la “cosa della moda” e per una delicatezza che gli ultimi due riuscivano a raggiungere più che altro nei ritratti in stile pittorialista.

E’ quasi certo che la sorprendente pertinenza moda delle sue immagini, in linea con il gusto editoriale dominante del suo tempo, non fosse interamente farina del suo sacco.

In realtà Pasquale De Antonis era, per formazione, scelte culturali e probabilmente anche per carattere, indifferente al mondo della moda. Un giorno, nei primi anni del secondo dopoguerra, in uno dei rendez vous  tra artisti e intellettuali che regolarmente organizzava nel suo studio romano, incontrò Irene Brin, scrittrice, giornalista e raffinata esperta d’arte dal momento che, insieme al marito dirigeva le attività dell’Obelisco, probabilmente in quei giorni la più vivace galleria d’arte di Roma. Tra il talentuoso fotografo e la bella, elegante intellettuale nacque subito un rapporto di stima e fiducia reciproca. Il fatto che Irene Brin fosse  sinceramente appassionata a tutto ciò che poteva definirsi “arte”, affascinava il De Antonis, aiutandolo a superare i pregiudizi nei confronti di un genere fotografico considerato dai puristi della fotografia e dagli artisti, deplorevolmente banale, dalla significazione scontata, troppo dipendente da una committenza interessata soltanto al business. E’ chiaro che ben pochi fotografi potevano permettersi di chiudere la porta in faccia ai ricchi compensi offerti dalla moda. Ma spesso lo spirito negativo con cui lavoravano traspariva dalla superficie significante del loro lavoro, tradendo il disprezzo di fondo che animava la loro visione sulle fotografie che dovevano trasformare gli abiti in narrazioni seduttive.  La sofisticata visione della moda di Irene Brin fu fondamentale per narcotizzare i pregiudizi del De Antonis. Guidato dalla sapiente regia della giornalista seppe raccontare sulle pagine di “Bellezza”, la rivista femminile italiana più importante del periodo, la nascita del mito della moda nazionale, meglio di tutti gli altri fotografi italiani.

Infatti Irene Brin, come tutte le grandi interpreti del giornalismo di moda di quel periodo, oltre ad essere la più brava a scrivere brillanti articoli, con l’eccezione di Gianna Manzini alias Vanessa, progettava e organizzava i suoi reportage in perfetta autonomia: sceglieva il fotografo, la location, suggeriva il mood dell’immagine, interpretava il ruolo di stylist e spesso perfino quello di modella.

I suoi “pezzi”, forse, non avevano la valenza letteraria di quelli scritti dalla Manzini. Tuttavia lo stile leggero ma preciso e consistente, elegante e colto ma sempre attraversato da una ben calibrata ironia, le conferirono un ruolo di primo piano nella diffusione di una cultura femminile capace di trascendere l’ordinaria autoreferenzialità del messaggi moda. Le parole di Irene Brin suggerivano una visione dell’abito/moda lontana dalle banali descrizioni e dal linguaggio ingenuamente magnificativo della pubblicistica standard. Le sue parole intendevano restituirlo alle sue lettrici, trasfigurato in un elemento dinamico/estetico che evocava una specifica forma di vita elegante, impegnata, catalizzatrice di valori orientati a far emergere un modo italiano di interpretare la moda.

Una bella foto del 1946 (fig.2) illustra perfettamente il senso che sto cercando di articolare. Irene Brin con indosso un abito di Carosa si trova seduta sul pavimento all’interno della sua Galleria d’arte. Ha nelle mani un disegno che sta osservando con autorevole disinvoltura; sparsi tutt’intorno si trovano studiatamente in disordine svariati altri disegni. A lato, sulla destra di chi guarda l’immagine, una statua delimita lo spazio simbolico della stanza. Un magistrale alone di luce incornicia la testa della protagonista, donandole un’aura da ispirata  sacerdotessa del gusto. Possiamo notare che la moda, la creazione di Carosa, è presente nel campo dell’immagine in modo discreto. Se volete, l’abito aggiunge una punta di rigore alla disinvolta ricognizione  estetico-critica della gallerista. Tuttavia, quando il mio sguardo, pilotato dall’alone di luce, si concentra sulla posa e sull’espressione seriosa del viso della Brin, caratterizzato dal profilo impercettibilmente rialzato, sembra vi indovini la traccia di una “recita”, ovvero l’intenzionale uscita dalla naturalezza della posa che, grazie ad un artificio espressivo, rende sfumato il processo significante facendolo planare nella ricercata e leggera ironia che evocavo sopra.

Come tutte le grandi donne del giornalismo di moda, Irene Brin, con la magistrale complicità del fotografo, non si limitava a raccontare come poteva o doveva essere l’abito del momento.  Bensì, spesso mettendo in gioco se stessa, creava l’illusione di una aderenza dell’indumento non tanto al corpo ma all’essere, facendolo divenire la vera pelle del soggetto (della moda). La giustezza (fotografica) dell’abito, era dunque una costruzione che includeva la partecipazione della modella come soggetto e la metamorfosi dello spazio interpretato come luogo significante.

Non vi sorprenderà dunque, se posto di fronte alle foto di Pasquale De Antonis, sento avanzare le pretese di una potente illusione cognitiva che mi porta a “vedere” parallelismi tra le immagini e le parole che Irene Brin distribuiva tra una foto e l’altra nei magazine di moda con i quali collaborava.

Come esempio, posso citare il “ritratto” di Carmel Snow che propose in un articolo della rivista Bellezza.

Dovete sapere che la celebre direttrice di Harper’s Bazaar nata nel 1887, verso la fine degli anni ’40 del novecento, era chiacchieratissima per via della sua propensione ad amare con cieca dedizione il buon vino. Quando alle sfilate, le invidiosissime colleghe la vedevano nascondersi dietro occhiali da sole o addirittura sonnecchiare, si davano di gomito e ironizzavano sul numero di bicchieri che aveva bevuto. In realtà, pare che questi comportamenti fossero il risultato di una studiata simulazione, resa necessaria dal fatto che tutte le giornaliste erano interessate a conoscere gli abiti che l’avevano colpita e che sarebbero stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Harper’s Bazaar, finendo così col diventare la moda del momento. Per depistare le colleghe Carmel fingeva di annoiarsi terribilmente oppure di essere stanchissima. In entrambi i casi la devitalizzazione del corpo poteva facilmente essere scambiata con gli effetti di sonnolenza prodotti dal buon vino, con grande sollazzo della concorrenza. Una delle infinite mitologie della moda, penserete. Non posso escluderlo. Ma è certo che Carmel Snow affascinava i propri interlocutori soprattutto per i suoi tratti poco convenzionali.

Leggete ora un breve accenno della descrizione che fece di lei Irene Brin: “I suoi piccoli piedi si muovevano con garbo tanto misterioso da non lasciare capire dove si dirigessero, mentre in realtà la sua strada l’aveva già scelta benissimo”. Trovo fantastica questa “istantanea” che in poche righe sembra confermare un gossip ma che al tempo stesso lo rovescia, ancorandolo a ben altri significati. Mi piace immaginare che tra lo stile della scrittura di Irene Brin e le immagini di moda che realizzava grazie a Pasquale De Antonis, vi fosse una impalpabile struttura di senso che arricchiva entrambi i dispositivi simbolici, consentendo alle sue lettrici, quando guardavano le foto, di udire l’eco delle parole scritte dall’autrice che rimbalzavano da qualche parte sulla superficie delle immagini, e al tempo stesso, quando leggevano, di cogliere dalla trama del testo l’emersione di improvvise sintesi visive.

Pasquale De Antonis Tempio della Fortuna Virile Ala Marinetti vestito Simonetta Visconti 1949
Tempio della Fortuna Virile Ala Marinetti vestito Simonetta Visconti 1949

Eccovi un altro esempio di come Irene Brin sapesse imbricare in un testo ironia, attenzione alla raffigurabilità e critica. Il tema generale è la perdurante sudditanza di buona parte della moda italiana nei confronti di Parigi, che rischiava di invalidare gli sforzi di molti nostri creativi, orientati a far emergere una autonoma moda italiana: “I sarti italiani sono tornati da Parigi con un bottino ambizioso ed incredibilmente monotono, che tuttavia ingenuamente credono perfetto. Sulle quaranta collezioni romane almeno venti hanno presentato l’abito di Fath con la lunga cravatta ricadente sull’orlo della gonna, ed io cominciai a riunire accuratamente le fotografie delle diverse versioni, pensavo di farne un articolo, certo, ma anche una raccolta artistica, ognuno di noi è masochista, ogni tanto, e si rallegra delle sue proprie torture” (Bellezza, n.5, 1950). Ricordo brevemente di passaggio al lettore, al quale le vicissitudini della moda italiana intorno al 1950 sono sconosciute, che Irene Brin fu una strenua combattente al soldo di una idea che ai più appariva temeraria: incrinare il dominio francese nel circuito internazionale della moda, diffondendo il mito di uno stile creativo italiano. In altre parole, diffondeva un messaggio con base a Roma in sintonia con gli effetti che Giorgini stava facendo emergere a Firenze con le famose sfilate della Sala Bianca a Pitti. Il marchese fiorentino concepì l’evento traumatico ( traumatico per la moda di allora, beninteso, cioè sfilate collettive, pochi abiti per ciascun soggetto creativo, Alta Moda che si fondeva con la moda boutique, location prestigiose…) capace in pochi anni di far arrivare buyer e giornalisti internazionali in una Firenze accogliente e perfetta per diffondere la narrazione di un modo italiano fatalmente compromesso con la bellezza, l’arte, i piaceri della vita. Anche Irene Brin contribuì con sfilate evento a far conoscere i sarti romani. Ma i suoi sforzi erano orientati ad organizzarle nelle capitali del mondo in quel momento strategiche per la crescita degli atelier romani.

Museo delle Terme di Diocleziano, vestito Antonelli 1948
Museo delle Terme di Diocleziano, vestito Antonelli 1948

Tuttavia il contributo più importante lo diede come giornalista e divulgatrice delle regole del buon gusto. Come giornalista, come ho già detto, divenne un punto di riferimento per le lettrici colte che amavano lo stile elegante, preciso e disinvolto dell’autrice. Ma io credo che vada rivalutato anche il suo lavoro di ideatrice di immagini della moda. Non ho dubbi sul fatto che Pasquale De Antonis fosse un fotografo raffinato e talentuoso. Ma se divenne l’image makers della moda italiana più importante dal dopoguerra alla fine del new look, lo si deve alla sapiente regia di Irene Brin.

Col passare degli anni, soprattutto dopo i ’70 del novecento, le foto di moda del De Antonis furono praticamente dimenticate. Irene Brin morì nel 1968. Anch’essa fu rapidamente rimossa da una nouvelle vague modaiola lontana anni luce dalla sofisticata forma di cultura che l’autrice aveva difeso e promosso. Nelle poche occasioni in cui ricomparivano le fotografie di moda del De Antonis, una critica approssimativa, le sviliva accusandole di cartolinizzare il genere, di eccessiva teatralità, di antiquata visione estetica. Non nego che la scelta di immortalare i look di Simonetta, delle sorelle Fontana, di Carosa… tra le rovine romane e lo straordinario barocco della città Eterna, non portasse in grembo il rischio di anacronismo o di passatismo. Ma in questo caso si tratta di una dislettura che cancella ogni valore storico all’atto fotografico. Far planare l’imago fluens delle modelle rivestite di novità tra le rovine di un grande passato, non era affatto banale. Roma era entrata nell’immaginario dei sofisticati trendsetter internazionali del periodo. Grandi giornaliste come Carmel Snow, grandi buyer, grandi attrici hollywoodiane amavano la città. La scelta di raccontarla anche attraverso l’arte classica o i meravigliosi interni barocchi e neoclassici si rivelò un successo.

Se osservate la foto n.4 scattata al Museo delle Terme di Diocleziano (abito Antonelli, 1948), con negli occhi il pirotecnico riverbero delle immagini attuali, forse la recitata disinvoltura della modella potrà farvi sorridere, e la location difficilmente vi sorprenderà. Ma provate ad immaginare come la poteva vivere una lettrice di Bellezza verso la fine dei ’40. Foto di moda così intenzionalmente con/fuse con l’arte classica non erano la norma. Hoyningen-Hune e Horst, sulle pagine di Vogue e Harper’s Bazaar avevano creato suggestive contaminazioni tra l’oggetto classicheggiante e la moda. Ma aldilà di ovvie allusioni, il peso visivo della figura moda quasi sempre risultava dominante. Nella foto di Pasquale De Antonis che stiamo commentando invece, è difficile vedere una dominanza  dell’oggetto moda sullo spazio significante che lo contiene. Questa reticenza toglie all’oggetto l’autoreferenzialità tipica della foto di moda standard, suggerendoci le significazioni che illuminano la particolare visione della moda promossa da Irene Brin: ovvero l’idea che l’indumento significante (cioè l’abito provvisto dei valori conferitegli dall’essere nuovo), per avere la valenza del gusto adeguata, avesse bisogno di una legittimazione che poteva arrivargli solo dall’esterno, ovvero dai segni che mettono in primo piano una scelta di vita. La “lettrice modello” che emerge dalla messa in testo fotografica creata dal binomio Brin-De Antonis, ci parla di una Donna che vive la moda in connessione con un senso del gusto che trascende la pur evidente bellezza dell’indumento e la raffinatezza dello stile individuale, riportando entrambi a connettersi con l’idealizzazione di una forma di vita (ecco perché, a questo punto, l’abito può essere considerato la pelle dell’essere di un soggetto). Il fotografo e la giornalista usavano lo spazio storico non tanto per straniare l’imago della moda bensì per ricondurla a contatto con le potenti forze passionali rinchiuse nelle forme esemplari del passato. L’insight dell’abito italiano nei contesti archeoartistici, significava evocare la rinascita delle forze emozionali connesse all’imago fluens in motion, messe in luce da Aby Warburg nei suoi scritti sulla “ninfa”. La fanciulla dagli abiti fluenti e dal passo rapido, presente negli affreschi del Ghirlandaio, conservati nella Cappella Tornabuoni a Firenze, per il grande storico dell’arte erano un esempio di come schemi formali del passato potessero suscitare tumulti passionali in fruitori che non avevano più nulla in comune con la cultura che li aveva originati. La Ninfa, così Warburg definiva questo specifico tema visivo, era una testimonianza di come l’antichità potesse risvegliarsi/sopravvivere nel bel mezzo del dominio della cristianità e trasmettere ai soggetti inconsapevoli, potenti passioni pagane. Non sono sicuro del fatto che Irene Brin conoscesse le teorie dello studioso tedesco. Tuttavia è eccitante immaginare che a suo modo  progettasse fashion phatosformeln (formule passionali della moda) che avevano lo stesso significato che Warburg attribuiva al tema della ninfa: la sopravvivenza di potenti forze psichiche riattivate da immagini che si riconnettevano a schemi formali classici.

Pasquale De Antonis Appia Antica 1955
Appia Antica 1955

Osservate la foto con la modella (la scultrice Maria Grazia Mariani) che attraversa un sentiero lungo l’Appia Antica. Il movimento per linee orizzontali crescenti dall’alto in basso, dell’abito di Schuberth valgono i drappeggi che tanto ossessionavano Warburg, anche se la posa suggerisce una grazia emendatrice di passioni estreme. La discesa verso il “luogo delle origini” (della forza traumatica delle immagini o se volete il luogo della loro efficacia), proposto da Irene Brin/ De Antonis, non raggiunge mai la vertigine di passione che Warburg pensava di poter collocare nella fase aurorale delle immagini, quando esse potevano raffigurare direttamente forze pulsionali successivamente rimosse dal cristianesimo. Nel mito che la giornalista visualizza grazie al talento di De Antonis, la moda è essenzialmente armonia formale e adeguamento ad una passionalità mai estrema. Del resto una Ninfa trasgressiva e dionisiaca non sarebbe stata tollerata negli anni del dopoguerra. La Ninfa new look deve dunque mascherarsi da Venere, e rimettere al contesto archeo-artistico l’attivazione del supplemento di significato capace di resuscitare l’ombra di Dioniso nei dintorni di una bellezza apparentemente sotto controllo, ma pronta ad esplodere.

Pasquale De Antonis Galleria Borghese, vestito Balzani 1947
Galleria Borghese, vestito Balzani 1947

Una ulteriore prova del fatto che il repertorio di immagini progettato dalla coppia Irene Brin/De Antonis tra la fine dei ’40 e la metà dei ’50, non possa essere classificato come un polveroso e antiquato passatismo, sono gli scatti nei quali risuonano gli echi di un surrealismo ancora in cattedra, prima della rottamazione operata dalla cultura pop degli anni sessanta. Guardate le foto n. 5/6. La pelliccia indossata da una statuaria Paolina Borghese in orizzontale, familiarizza certo con i contenuti proposti sopra, ma presenta anche il senso del fou che Breton ascriveva alle logiche del desiderio surrealista.

Pasquale De Antonis
Giardini della Farnesina, vestito Carosa 1948

La modella sospesa ad un ramo nei giardini della Farnesina, non è estranea ai detourment divenuti il marchio di fabbrica delle avanguardie storiche. Tuttavia la regia della giornalista trasforma gli straniamenti in piacevoli coup de theatre. Sono immagini che non graffiano; in compenso seducono. Nessuna pretesa rivoluzionaria dunque, piuttosto solo il giusto grado di stupore per una moda italiana che, nelle intenzioni della giornalista, doveva rassicurare, convincere, persuadere donne per le quali, in quel preciso momento, la riconquista di un canone di eleganza condiviso era prevalente sui contenuti reattivi che gli indumenti finiranno per simbolizzare di lì a qualche anno, quando maturerà la generazione di donne nate durante gli anni della guerra mondiale.

Trovo sia stato ingiusto analizzare l’insight dell’oggetto moda italiano proposto da Irene Brin/De Antonis solo attraverso le traumatiche lenti di chi considera l’invasione della giovinezza che attraversa i sessanta, come la soglia irrinunciabile del giudizio critico dalla quale osservare il passato con supponenza. Sono disposto a concedere che nei sessanta le immagini dei due protagonisti, pur formalmente interessanti, non possiedano più le valenze delle precedenti. A patto che si inquadri la produzione degli anni cinquanta in un contesto che non sia l’arbitraria preferenza del critico, bensì le sfide che che la nostra moda nazionale doveva superare per trovare assetti e narrazioni utili per la crescita.

Pasquale de Antonis
Pasquale de Antonis

A tal riguardo credo di poter affermare che lo stile d’immagine di Irene Brin/DeAntonis abbia rappresentato un modello di potente simbolizzazione di ciò che più avanti nel tempo verrà riconosciuto come tratto conforme ad uno stile italiano. Devo aggiungere che nel corso dell’ultimo decennio, numerose mostre e testimonianze critiche hanno di gran lunga rivalutato il lavoro per la moda del De Antonis. Di Irene Brin invece si sono perse le tracce. I suoi libri non vengono ristampati, gli storici della moda la ricordano frettolosamente con rassicuranti aggettivi e superficiali analisi. Della coppia creativa fotografo/giornalista, non parla proprio nessuno. Irene Brin morì nel 1968, dicevo sopra, dimenticando di aggiungere che da quel preciso momento Pasquale De Antonis smise totalmente di lavorare per la moda.

(FIG. 8)

Il fotografo e la giornalista di moda

Lamberto Cantoni
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9 Responses to "Il fotografo e la giornalista di moda"

  1. gabriele   7 Ottobre 2015 at 13:00

    Non sono convinto che le giornaliste di moda siano così importanti a livello di foto di moda.
    Tutti sanno che le star sono i fotografi. Sono poche le giornaliste che possono avere la notorietà di un grande fotografo. E poi nella nostra società le immagini valgono più delle parole.
    Quindi i fotografi di moda valgono di più che le scribacchine. Con il marketing il discorso cambia. Effettivamente i manager (quelli che decidono il budget) credo abbiano più potere di influenzare i set fotografici.
    Attenzione, l’articolo riporta il numero delle immagini che manca nelle foto pubblicate!

    Rispondi
    • Vanessa   7 Ottobre 2015 at 19:34

      Non sono d’accordo con Gabrielr. Non credo che giornaliste come Wintour, Sozzani, Menkes solo per fare pochi nomi possano tollerare fotografi arroganti. Nella moda la sensibilità femminile conta assai.

      Rispondi
  2. Sue   8 Ottobre 2015 at 08:30

    Ci sono poche fotografe di moda. Sembra un ambiente dominato dagli uomini. Mi pare giusto che ci siano redattrici che li guidino. In definitiva nel caso delle riviste femminili chi meglio di una donna può conoscere i modi per rappresentarla?
    De Antonis mi piace moltissimo ma secondo me ha ragione l’autore si sente il tocco di una donna

    Rispondi
    • Luci   8 Ottobre 2015 at 12:40

      Si ha ragione. C’è il tocco femminile. E molta cultura. Raffinata

      Rispondi
  3. Rossana   9 Ottobre 2015 at 10:46

    Interessante la cit. di aby warburg. Ma la sua ninfa non era un simbolo di trasgressione? Io non ce la vedo la trasgressione nelle modelle di de Antonis

    Rispondi
    • Corrado   16 Ottobre 2015 at 03:40

      Per Warburg il tema della ninfa riallacciava alcune figure presenti in Botticelli e nel Ghirlandaio al recupero di immagini pagane. Almeno, questo è quello che ricordo. Se guardo le foto del de Antonis qualcosa di Warburg c’è lo trovo. Ma non so spiegarlo

      Rispondi
    • Valentina   16 Ottobre 2015 at 03:56

      In effetti Aby Warburg era interessato alla gestualità e al movimento violento interpretati come simbolo della cultura visiva dei primitivi. La forte carica di espressività della cosiddetta ninfa nei pittori fiorentini dimostrava secondo lui la sopravvivenza del paganesimo nella cultura cattolica. Come Rossana non vedo il collegamento con il de Antonis.

      Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   18 Ottobre 2015 at 10:01

      Sì, hai ragione, avrei dovuto articolare meglio l’uso del tema della ninfa. Provo a farlo ora. In De Antonis la gestualità delle modelle e la compostezza degli abiti fanno pensare ad un decoro che stride con la passionalità della ninfa warburghiana. Ma, ho anche suggerito una lettura diversa del significato del contesto. Le rovine di Roma o l’arte barocca che fanno da sfondo a molte delle foto a mio avviso più importanti, conferiscono al tema una tensività tonale che allude ad un pathos non lontano dalle teorie del grande storico. Potrei aggiungere per la ninfa moderna la trasgressione si pone in modo diverso rispetto al passato.
      Come scrive Didi-Huberman la ninfa moderna si caratterizza per la caduta del panneggio, per il suo inarrestabile movimento verso il suolo. È la capacità di cadere ad aprire alla ninfa la strada dell’arte. Ora, dalla moda arriva un’altra figura della sopravvivenza dell’immagine che condensa passioni: è la ninfa che si solleva in un mondo simbolico che ha normalizzato la sua caduta. In questo sollevarsi della ninfa io vedo il recupero di valori antichi da parte dell’AltaModa negli anni del New look.

      Rispondi
  4. Luciano   9 Ottobre 2015 at 20:20

    Considerato che le foto di De Antonis viste nell’articolo sono della fine dei 40/ inizio 50, penso che si debba considerarle molto giuste. È chiaro che oggi risulterebbero inefficaci.

    Rispondi

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