I mezzi di propaganda. Ridiamo valore alle parole

I mezzi di propaganda. Ridiamo valore alle parole

Breve analisi di alcuni subdoli mezzi di propaganda del potere.

Il linguaggio è anche un sottile mezzo di controllo, imporre nell’uso comune una certa parola, una certa espressione, un particolare modo di dire significa anche orientare il modo in cui la gente percepisce e giudica certi fenomeni. Provate a pensare quanto sarebbe differente il mondo se non fossimo abituati a dire “quello è pazzo”, o “quello è malato di testa” ma piuttosto “quell’uomo sfugge ai soliti schemi” oppure “quella persona non riesco a comprenderla”.

Le parole e le espressioni che abitualmente utilizziamo contengono spesso in sé una sfumatura di giudizio (positivo o negativo), ed essere forzati ad utilizzarle per adeguarci all’uso comune è una delle tante subdole forme di indottrinamento. I nostri governanti, i nostri uomini di potere, sanno bene queste cose, e se non le sanno loro le sanno le agenzie di pubbliche relazioni (che costruiscono le immagini di aziende, lobby, partiti, uomini di governo e dei governi stessi) cui essi si affidano.

Si tratta di un percorso iniziato quasi un secolo fa ma che adesso è così perfezionato e rodato che ce ne accorgiamo con difficoltà..

Per capire quale possa essere l’uso strumentale e politico delle parole pensiamo a come è stato stravolto l’uso di certi termini e come sia stata cambiata la loro “destinazione d’uso”.

Elezioni: deriva da eligere, selezionare, scegliere, ma, quando avremo in mano la scheda e la matita con cui votare, come analfabeti, per questa disgraziata legge elettorale, non ci sarà concesso niente altro che mettere una croce vidimando così scelte fatte da altri. 

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Riforma: Una volta questa era una parola tanto cara alla sinistra, al movimento operaio, ai contadini, che auspicavano una riforma della legge elettorale per dare a tutti il diritto di voto, una riforma dell’orario di lavoro per portarlo a 8 ore al giorno, una riforma agraria con la ridistribuzione delle terre e la fine della servitù della gleba. Adesso la parola riforma si usa per la “riforma delle pensioni” che peggiora di volta in volta la condizione economica dei pensionati presenti e futuri, per la “riforma della scuola”, che da 30 anni a questa parte significa peggiorare la qualità della scuola, escludere dall’istruzione superiore i ceti più poveri, ritornare alla creazione di una scuola suddivisa per classi sociali.

Democrazia: A prescindere dal fatto che la parola in sé non mi piace troppo visto l’origine e i precedenti (la parola deriva dal greco e indicava in origine l’ordinamento politico delle città stato schiaviste e spesso imperialiste sul modello di Atene, città che nel mondo greco aveva un ruolo analogo a quello degli USA odierni), una volta era una parola utilizzata dalla sinistra, dal movimento operaio e contadino per chiedere uguali diritti per tutti, l’accesso al voto per tutti, la stessa garanzia di giustizia per tutti. Ma a partire dall’inizio del 1900 la parola cominciò ad essere trasformata, e si cominciò a usarla in contesti del tipo “rendere il mondo sicuro per la democrazia” quando si voleva che gli USA entrassero in guerra per espandere la loro sfera di influenza (curiosamente nello stesso periodo in cui questo slogan veniva utilizzato dal governo, gli uomini appartenenti alla minoranza nera degli USA, venivano sfruttati, torturati, massacrati nella quasi totale apatia delle istituzioni “democratiche”). Da allora assistemmo ad una continua escalation del valore di questa parola che fu sulle bocche di molti dei governi più guerrafondai e repressivi, e che è stata utilizzata soprattutto dagli USA per giustificare le decine di guerre che essi hanno intrapreso nell’ultimo secolo in tutto il mondo. Ormai la parola democrazia è un velo dietro il quale si nasconde l’aggressività dei prepotenti, l’accettazione della legge del più forte.

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Libertà: Sembra la gemella della parola democrazia, una volta veniva utilizzata per indicare la libertà dei sudditi di scrivere, leggere, pensare quello che volevano, di associarsi liberamente, di fare politica e di chiedere delle riforme (nel senso positivo che questa parola aveva un tempo) mentre adesso la si utilizza per indicare la libertà dei potenti di fare quello che vogliono senza ulteriori restrizioni, la libertà di vendere veleni su tutta la faccia della terra, di licenziare senza giusta causa, di fare guerra a chi si vuole, e le sue derivazioni (liberismo, liberalismo, neo-liberismo, liberale) indicano le forme di economia più disumane che il mondo moderno abbia mai sperimentato. In Italia la parola libertà viene utilizzata per indicare le formazioni politiche che più di ogni altre hanno attuato un governo repressivo.
Sicuramente queste parole continuano a mantenere un significato differente presso quelle minoranze che vorrebbero conservare per esse il significato originario, e che quando chiedono libertà e democrazia non intendono l’assoggettamento al potere, ma la sua sostituzione con un mondo realmente libero di popoli che possano auto-determinare il proprio destino. È grazie al fatto che ancora persiste un uso positivo di queste parole che l’ipocrisia dei potenti si regge in piedi; se smettessimo di chiedere libertà e democrazia, ma rivendicassimo la destituzione del potere, tali parole rimaste in bocca solo ai potenti, si svelerebbero forse in tutta la loro crudele menzogna.

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Esperto: Una volta era una persona che aveva dimostrato coi fatti la sua conoscenza e la sua cultura in un determinato settore, i cui consigli avevano condotto a dei risultati pratici positivi e verificabili. Il vasaio esperto produceva sotto i nostri occhi lavori artigianali di squisita qualità, l’esperto cavallerizzo volteggiava con destrezza sul suo destriero, il matematico esperto risolveva rapidamente problemi che a noi sembravano impossibili. Adesso la parola esperto indica chi viene investito di questo ruolo da parte del potere, chi diffonde, difende, teorizza interpretazioni e teorie utili al potere politico od economico. Abbiamo quindi l’esperto di politica estera che ci convince di quanto sia necessaria la prossima avventura militare, l’esperto di biologia che ci convince di quanto siano innocui gli OGM per la nostra salute (trascurando il fatto che i danni maggiori potrebbero vedersi solo fra qualche decina d’anni), l’esperto nutrizionista che ci dice che lo zucchero fa bene al cervello (che poi faccia venire il diabete e la carie se lo dimentica), l’esperto di medicina che ci dice che la diossina non è poi tanto pericolosa (il presidente Mario Negri), l’esperto di economia che ci spiega tutti i vantaggi dell’economia di mercato, l’esperto psichiatra che ci dice che i bambini troppo vivaci sono affetti dalla malattia del “disturbo dell’attenzione” e che vanno curati con un derivato delle anfetamine (Ritalin), i periti (altra forma moderna di esperti) che affermano e certificano (grazie alla loro altisonante qualifica) che i militari morti di leucemia non sono morti a causa dell’uranio o del plutonio che li ha contaminati.

Una cosa è certa, quelli che vediamo parlare in televisione o di cui leggiamo gli articoli sui giornali, al 90% almeno sono esperti in quanto qualcuno lascia loro giocare quel ruolo, sono uomini di fiducia del potere, pennivendoli del regime, manipolatori di opinioni e di coscienze. Non ci fidiamo mai di loro.

Per una maggiore comprensione del fenomeno è vivamente consigliata la lettura di Noam Chomsky “La fabbrica del consenso”, 400 pagine fitte di dimostrazioni su come il potere ci prende per il sedere e ci propina i suoi esperti.

Vorrei condividere la lettura di questo racconto di Italo Calvino, per turbare i vostri pensieri, questa favola allegorica ci aiuta a cogliere l’importanza della lettura come riflessione, ad afferrare il senso delle parole perché permangano nel significato più vero, rendendole senza tempo. 

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
di Italo Calvino

propagandaC’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.

Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”.

Anna Serini
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