Sarah Moon. Moda, arte e sentimenti

Sarah Moon. Moda, arte e sentimenti

MILANO – Dal 18 settembre e fino al 6 gennaio, due splendide mostre milanesi hanno focalizzato l’attenzione su una delle più importanti interpreti della fotografia artistica e di moda viventi.

Considero l’esposizione di un vasto repertorio di opere della leggendaria Sarah Moon (1941), a 10 Corso Como e presso Armani/Silos (aperte al pubblico fino al 6 gennaio 2019), l’evento espositivo fotografico più significativo dell’autunno-inverno.

Nella celebre galleria d’arte di Carla Sozzani, la fotografa di origini francesi naturalizzata inglese, ha presentato una raccolta di 22 foto intitolata Time al Work. Sono immagini inedite che presentano l’autrice sotto una luce diversa rispetto le fotografie di moda che l’hanno resa famosa tra il largo pubblico.

Nell’Armani Silos invece è stata organizzata una vasta retrospettiva (170 opere) che copre in modo esaustivo la lunga e leggendaria carriera della fotografa, autrice di memorabili campagne per i marchi più prestigiosi della moda ma anche protagonista di una personale ricerca estetica di sorprendente valore artistico. La mostra intitolata Sarah Moon. From one season to another, è allestita per aree tematiche ma facendo un po’ d’attenzione si può facilmente farsi un’idea della diverse fasi della ricerca fotografica dell’autrice, della straordinaria creatività delle sue visioni á rebours e della stupefacente varietà di esperienze visive che possono discendere da un modo di interpretare il mezzo fotografico che si lascia percepire al tempo stesso come coerente e ribelle alle convenzioni visive della moda.

Sarah Moon
Sarah Moon e Giorgio Armani
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Sarah Moon e Carla Sozzani

1. Saran Moon, nel 1968, dopo aver lavorato alcuni anni come modella per la moda, decise di passare dall’altra parte dell’obiettivo fotografico per cominciare una nuova carriera come image maker di settore. Possiamo immaginare che gli anni passati ad osservare come i fotografi di moda riprendevano lei e le sue colleghe, l’abbiano portata a maturare una vera e propria passione per la fotografia, corroborata dall’assorbimento delle fondamentali cognizioni tecniche. Ma nello stesso tempo, proprio perché coinvolta emotivamente, la sua attività fotografica si trovò profondamente ancorata a scelte espressive molto personali. Mi sembra utile aggiungere che, la lunga frequentazione con gli stilisti, abbia facilitato la sua resilienza alle finalità commerciali del suo lavoro, ritrovandosi immunizzata nei confronti degli eccessivi e un po’ ipocriti pregiudizi che animavano molti protagonisti della foto di moda del periodo (voglio dire che molti fotografi famosi sembravano sputare nel piatto dove mangiavano, lasciandosi andare a dichiarazioni del tipo faccio moda solo per i soldi, quando fotografo seriamente mi interesso d’altro…non rendendosi conto che finivano per l’accreditare le idee diffuse dai puristi dell’atto fotografico ovviamente contrarie alle contaminazioni con le necessità comunicazionali della commercializzazione).

Se guardo le foto della prima perte della carriera dell’autrice pubblicate dalle riviste di moda questo “doppio legame” ovvero produrre immagini per comunicare un certo campo di valori sfruttati dai brand per diffondere le proprie merci e l’estrema coerenza con i modi espressivi evidentemente maturati insieme alla sua sensibilità, non posso che prendere atto della convincente omeostasi stilistica raggiunta dall’autrice (le foto di Sarah Moon non risultano mai eccessive o contrarie alla moda, ma nemmeno omologate agli standard).

Gregory Bateson quando propose la teoria del “doppio legame” (Double Blind) intendeva demarcare una situazione emotivamente coinvolgente per il soggetto, tale per cui i processi di comunicazione nel quali si trovava come imprigionato, risultavano contraddittori. Per esempio, con le parole gli si induceva un significato e nello stesso tempo, con il tono della voce, con l’espressione del volto, con i gesti, gli si faceva capire il contrario. Gli psicologi che si ispiravano a Bateson e alla scuola di Palo Alto, facevano discendere i sintomi schizofrenici da doppi legami dai quali il soggetto non riusciva o poteva liberarsi. Negli anni settanta Deleuze e Guattari trasformarono la teoria in una spietata accusa ai modi di comunicare della società capitalistica. È chiaro che, in questa sede, quando parlo di “doppio legame” in relazione alla fotografa, uso il modello interpretativo di Bateson un po’ a modo mio per congetturare una ipotesi forte sulle modalità espressive che caratterizzano la pratica fotografica di Sarah Moon: l’effetto delle ingiunzioni contraddittorie (produrre immagini per promuovere x; seguire le tracce delle proprie spinte interiori) evocate sopra, oppure, se volete dirla con la scuola di Palo Alto, guadagnarsi da vivere e al tempo stesso dare fiato alle risonanze interne della sua patologia (che al tempo stesso potrebbe essere vista come una paradossale cura per chi rischia l’eccessiva esposizione alla moda), divenne l’ossatura del suo stile.

Infatti, mi ha sempre sorpreso registrare quanto Sarah Moon fosse determinata nel ripetere nelle numerosissime interviste a lei dedicate, rispondendo a domande che in qualche modo sottineavano la coerenza del suo stile, le stesse idee di fondo più o meno con questi contenuti: non sono capace di fare foto di reportage o di impegnarmi nel surfing tra generi fotografici come fanno tanti miei colleghi, per presentarsi alle riviste come fotografi pronti per tutte le occasioni. Riesco a lavorare bene solo se seguo la stretta via imposta dalla mia immaginazione. Anche le ripetute dichiarazioni a favore della sua primaria visione in bianco/nero della messa in scena fotografica, opposta alla vitalità del colore dominante nella moda, può essere un indizio della tensività tra i due opposti del doppio legame che mi permette di narrare l’avventura creativa della protagonista partendo da ciò che mi immagino essere stata la sua esperienza.

Dal mio punto di vista, questo scenario teorico permette di capire come i condizionamenti esterni, pur entrando in conflitto con le disposizioni maturate dal soggetto, non inibiscano affatto la creatività. Il campo delle costrizioni (pensate alle abitudini e alle attese degli stilisti, dei manager e degli editor dei magazine che in un preciso momento funzionano come pseudo regole del gioco fotografico) può dialogare con ciò che potremmo definire la disposizione creatasi nella mente del fotografo, configurando la traiettoria ondeggiante di una forma della creatività percepita come compatibile con l’asse dei condizionamenti e al tempo stesso evocatrice di novità espressive.

Ma aldilà delle descrizioni teoriche dal sapore olistico, infatti ciò che ho affermato sopra può essere riversato su tutti gli autori percepiti o investiti da un forte sentimento di originalità, come potremmo raffigurarci la specificità della deviazione dalla norma dell’autrice?

Osservate alcune fotografie che risalgono alla prima fase della fortunata carriera dell’autrice.

Il suo modo di raffigurare momenti di intenso raccoglimento interiore dei soggetti che metteva in scena catturarono subito l’attenzione dei creativi della moda.

Le foto 2 e 3 risalgono ai primissimi anni settanta e vennero create per promuovere Biba, a quel tempo una delle celebri protagoniste della swinging london. Le foto 3,4,5,6 vennero pubblicate più o meno nello stesso periodo su Nova Magazine e interpretano benissimo la visione romantica, un po’ retro degli abiti di Ossie Clarck e Jean Muir. La foto 7 è una splendida interpretazione della delicatezza decorativa del look di Cacharel. I foto editor delle riviste apprezzarono subito il feeling morbido, ottenuto sfuocando leggermente le immagini che Sarah Moon distribuiva nel campo fotografico. In quei giorni la lettura intimistica e romantica delle sue foto avvicinava il soggetto alla dimensione onirica che faceva da contraltare alla figura di donna disinvoltamente sexy esplorata dalla maggioranza dei fotografi che andavano per la maggiore. Le sue foto sembravano ricordi o momenti della memoria strappati alla vertiginosa accelerazione temporale che tutti subivano negli anni sessanta/settanta. La sessualità che trasudava dalla sue foto, anche quando si impegnò per il calendario Pirelli, mantenevano l’atmosfera intima, la naturalezza che espungeva dall’immagine ogni volgarità.

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1.2 Sarah Moon per Biba (1970)

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9,10: Sarah Moon per Giorgio Armani (2017)IMG_0520

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3.4 Sarah Moon per Cacharel (1970)

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9,10: Sarah Moon per Giorgio Armani (2017)moon1

5.6 Sarah Moon per la rivista Nova (1970)
5.6 Sarah Moon per la rivista Nova (1970)

Sarah Moon9,10: Sarah Moon per Giorgio Armani (2017)Sarah Moon

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7.8 Sarah Moon, Calendario Pirelli (1972)

 

9,10: Sarah Moon per Giorgio Armani (2017)

Facciamo un salto di mezzo secolo e osserviamo Sarah Moon al lavoro per le campagne di Giorgio Armani dello scorso anno. La loro qualità grafica è aumentata e più che uno sbiadito ricordo le immagini mi fanno pensare a uno scollamento del tempo interno all’immagine: un presente che si diffonde acquisisce un ineffabile spessore, un istante che la foto cattura come momentum, cioè come impulso che trasforma l’oggetto in poesia visiva. A proposito del Tempo, sicuramente fin dall’inizio della carriera al centro degli interessi dell’autrice, molti critici della domenica ci hanno riproposto la solita tiritera del fotografo capace di strappare all’irreversibilità che lo caratterizza il soggetto o l’oggetto raffigurato, per così fissarne la memoria, come se la specificità dell’autrice fosse quel fermare il tempo che, tra l’altro, ogni atto fotografico non può che attualizzare. Ma allora, dov’è la specificità? Io direi piuttosto che uno dei tratti tipici nei lavori di Sarah Moon non è la cattura del tempo alla Cartier=Bresson, per intenderci, bensì l’illusione di sentirlo come se fosse “esperito” anche dall’osservatore. La fotografa sembra proprio voglia farci percepire fino ad esserne coscienti, i qualia del tempo. In altre parole, le sue immagini dai colori devitalizzati, dai contorni sfumati, dalle pose ed espressioni incantate, sono una deliberata dichiarazione d’amore per i modi di essere autocoscienti implicati dalla memoria. Ora, forse ha ragione il filosofo Daniel Dennett quando scrive che i qualia semplicemente non esistono se non come modi in cui alla nostra coscienza sembrano apparire le cose intendendo con ciò che la realtà biologica assume, per essere vera nel senso della scienza, ben altre configurazioni. Ma rimane pur sempre che noi possiamo essere coscienti solo della forma finale delle nostre percezioni e per quanto riguarda la forma del tempo non c’è dubbio che le immagini di Sarah Moon siano state vissute, tra le altre cose, come  raffigurazioni sospese tra sogno e ricordo ovvero come pieghe della memoria che sembrano riaffiorare da quel è stato, è accaduto (pensate all’atto fotografico primario: un soggetto/oggetto ripreso in un preciso momento dall’obiettivo, restituito in un secondo tempo all’osservatore), considerato da Roland Barthes il paradossale noema della fotografia (paradossale perché ci presenta come reale qualcosa che non lo è più).

Ebbene, e torno al paragone tra le prime foto e quelle viste nei nostri giorni, a me pare che il lavoro nella moda di Sarah Moon abbia subito sostanziali affinamenti. I principali tratti pertinenti del suo stile ovviamente permangono. La sue immagini negano il realismo o il naturalismo fotografico cercando di raffigurare l’incertezza del reale psichico sballottato tra l’impulso emozionale e la traccia di una messa in scena che non è strappata al tempo (lo ripeto, Sarah Moon non è un arciere zen), bensì emerge nel tempo. Ma mentre nella prima parte della sua carriera il suo interesse è catalizzato dal problema di definire il soggetto femminile attraverso flussi emozionali che contraddicano l’euforia e il cinismo delle foto di moda dominanti del periodo, nella fase matura della sua carriera la fotografa sembra più concentrata sul sentimento e meno sul soggetto. I primi suoi lavori, visti con il senno di poi, rappresentano una coraggiosa ricerca sulla soggettività femminile volta a recuperare valori emotivi che il sexy allora dominante, unitamente alle prime ondate di foto fortemente trasgressive, avevano velocemente liquidato. Nella fase più matura, probabilmente cominciata con le campagne per Kawakubo e Yamamoto, per come interpreto il suo lavoro, vedo la fotografa aggrappata alla base emotiva (che nelle immagini viene tradotta con un’effetto macchia) sganciata dal problema di definire cos’è una donna per tentare di trasmetterci cosa sente quando si trova esattamente nell’esperienza interiore che evidentemente rappresenta qualcosa di molto personale per l’autrice. Non posso non aggiungere che da questo momento in poi le foto di moda di Sarah Moon acquisiscono una rara e struggente bellezza che personalmente vedo emulata da pochi altri fotografi, tra i quali annovero Gianpaolo Roversi.

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1.2 Sarah Moon per Bilba (1970)

1.2 Sarah Moon per Bilba (1970)
9-10Sarah Moon per Giorgio Armani (2017)

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2. Per molti critici interessati al genere “foto di moda”, lo stile di Sarah Moon sarebbe caratterizzato da un sostanziale adesione con modi espressivi che familiarizzano con l’arte e la pittura. La formazione artistica della fotografa, viene citata come una conferma delle sue propensioni artistiche. È più corretto sostenere come scrive Nancy Hall-Duncan (History of Fashion Photography, 1977) che i lavori della fotografa ricordano gli effetti delle tecniche pittorialiste dei primi grandi fotografi di moda ovvero Edward Steichen e De Meyer. A tal riguardo tuttavia, ritengo necessaria una precisazione. Al tempo dei due fotografi citati, l’effetto flou, la vaporosità diffusa come se l’obiettivo faticasse nel focalizzare soggetti avvolti da una misteriosa atmosfera nebbiosa, l’eliminazione di ogni profondità, insieme a ritocchi di varia fattura, avevano l’obiettivo di avvicinare il lavoro fotografico alle pratiche artistiche. Per dirlo in poche parole, attraverso la manipolazione dell’immagine pura catturata dalla camera fotografica, si immaginava di riscattare il ruolo subordinato del fotografo trasformandolo da passivo registratore del reale a creativo tout court, forzando il pubblico a concepire l’atto fotografico con la stessa reverenza riservata ai pittori o scultori. Verso la fine degli anni sessanta, la legittimazione della fotografia come forma d’arte non era più un problema. Quando Sarah Moon ebbe l’intuizione di sperimentare tecniche pittorialiste non lo fece per scimmiottare l’arte, ma semplicemente perché riconosceva in una immagine velata, la raffigurazione del campo emotivo che avrebbe trasformato l’enunciato fotografico in un ineffabile messaggio motivazionale utile per far percepire la gamma di sentimenti dolci e contorti che l’immagine dominante di Donna alla moda del periodo aveva narcotizzato. Sarah Moon, invece che ritornare al glamour anni cinquanta, scelse di intraprendere una ricerca che potremmo definire “interiore”. Le sue immagini sembravano evocare enunciazioni sull’esperienza emotiva del soggetto colta nel momento in cui, non essendo ancora sottoposta a una descrizione cosciente, si realizza in mappature espressive del volto e del corpo, Ecco perché produssero una empatia immediata con la massa di lettrici che non si trovavano a proprio agio ne con la verve trasgressiva che gli editor stavano sdoganando e ne con la foto sexyglamour, basata sull’enfatizzazione del potenziale seduttivo di una modella vestita all’ultima moda. Con un gioco di parole, immaginando che queste acrobazie verbali scombinino il senso lineare che spesso non ci è utile per capire ciò che definiamo creatività, potremmo dire che Sarah Moon sedusse le lettrici di Vogue e di altri periodici femminili con i quali collaborava, proprio perché i sembianti di donna che metteva in scena e riprendeva manipolando la visione per conferirle la qualità esperenziale e la temporalità sfasata rispetto gli imperativi della moda, questi sembianti o modelli del femminile dicevo, non intendevano sedurre nessuno. A chi veramente si ispirava Sarah Moon quando senza alcun sforzo apparente riuscì ad imporre un modo di enunciare l’esperienza interiore femminile che bilanciava il cinismo dilagante diffuso dalle immagini di grandi fotografi come Helmut Newton e Guy Bourdin? Più che dai pittorialisti, le particolari atmosfere delle sue immagini sembravano discendere dalla sua ammirazione e amicizia con Lillian Bassman (1917-2012), allieva di Alexey Brodovich e in seguito attiva tra il 1959 e il 1965 come fotografa di moda di grande valore e un po’ fuori dagli schemi, soprattutto per Harper’s Bazaar, anche se bisogna aggiungerlo, si tratta di un lavoro creativo a lungo poco ricordato e riconosciuto proprio per via della sua originalità. Dopo gli anni sessanta Lillian Bossman abbandonò la foto di moda dedicandosi a ricerche che potremmo definire artistiche. A partire dagli anni novanta cominciò a ricevere i primi riconoscimenti per il suo lavoro. Sarah Moon dedicherà all’amica un commovente film documentario intitolato There’s Something…About Lillian (2001), dal quale si può facilmente abdurre la perfetta conoscenza che la regista/fotografa aveva del lavoro dell’amica. Tuttavia devo aggiungere che se pur sembra evidente il debito contratto da Sarah Moon con la visione flou, fortemente contrastata, spesso più esplosiva che vaporosa (forme che divengono macchie di luce) di Lillian Bassman, risulta altrettanto chiara la differenza tra i due stili: le foto di Lillian, bellissime e di rottura con il dominante neorealismo della foto di moda anni ‘50 (il decennio nel quale si dedicò maggiormente a foto “commerciali”), non hanno l’affabulazione delle immagini di Sarah Moon; Lillian idealizza la modella e l’idea della femminilità, trasformandola in macchie lumiscenti che irradiano una raffinata e severa luce/energia seduttiva; sono perlopiù ritratti che sembrerebbero alludere ad un glamour che si dissolve in un leggero intangibile erotismo. Anche Sarah Moon interiorizza la bellezza ma, rispetto all’amica nei suoi lavori è più evidente un interesse alla messa in scena e al contesto narrativo. Infatti, le sue foto negli anni in cui crea le ridondanze configurative che determineranno la riconoscibilità del suo stile, presentano un potenziale narrativo che le immagini di Lillian raramente esibiscono. Che tipo di narrazione potremmo ascrivere alla maggioranza delle foto che Sarah Moon produsse quando in pochi anni divenne una delle più gettonate image maker della moda? Io la metterei giù così: è l’istanza narrativa del “sogno a occhi aperti” ovvero quando dalle immagini-movimento della percezione reale passiamo a una immagine-tempo che narcotizza le risonanze di ciò che collochiamo fuori del corpo, precipitandoci in un flusso emotivo che si muove in uno spazio interiore. Secondo il mio parere è possibile concepire questo breve viaggio dentro l’immagine incorporata come esperienza del tempo, anche se a questo livello, le unità significanti non corrispondono ai tagli netti che il linguaggio verbale utilizza per separare le parole per poi organizzarne la concatenazione e allestire ciò che potremmo definire la realtà discorsiva. Di conseguenza l’esperienza che facciamo arriva ad essere cosciente come affetto, come sentimento nel tempo. Post quem, quando la coscienza agisce su scala diversa e cerca la razionalità lineare, utilizziamo la parola ineffabile per classificare gli effetti dell’immagine-tempo così come viene elaborata da fotografi che investo molto di se stessi nel loro lavoro. Va aggiunto che per molti ammiratori dello stile di Sarah Moon, il senso olistico del suo approccio risulta molto più semplice da descrivere: le sue foto, dicono e scrivono, sono particolari perché le percepiamo fuori dal tempo o senza tempo.

Non sono d’accordo. Detta in questo modo sembra che la fotografa riprenda le cose che mette nel mirino come se fossero per l’appunto solo “cose” che con un trucco “eternizza”. No, non ci siamo. Io credo che invece Sarah Moon in qualche modo abbia capito che le cose valgono soprattutto in quanto eventi che la nostra mente continuamente rielabora a partire da tracce nella memoria lasciate dal disordine percettivo che domina la nostra vita. L’ordine del tempo interno al soggetto, dal mio punto di vista, è centrale per capire la ricerca della fotografa quanto il sapore delle madeline e il profumo di Combray sono importanti per capire il viaggio nella memoria e la mappatura letteriaria del mondo di Marcel Proust. C’è una espressione del filosofo Gilles Deleuze che può aiutare a comprendere il complicato lavoro fotografico di Sarah Moon: punte di presente e falde del passato. Tra queste due dimensioni apparentemente distanti tra loro, si attiva il gioco di trasformazioni delle immagini e l’alterazione del tempo cronologico della fotografa.

11, 12, 13, 14, 15, 16. Sarah Moon per stilisti visionari come Kawakubo e Yamamoto

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11, 12, 13, 14, 15, 16. Sarah Moon per stilisti visionari come Kawakubo e Yamamoto
11, 12, 13, 14, 15, 16. Sarah Moon per stilisti visionari come Kawakubo e Yamamoto

Sarah Moon

3. Quando Sarah Moon nei primi settanta divenne famosa, un’altra fotografa sembrava ne emulasse gli effetti fotografici. Deborah Turbeville (1932-2013), americana, dopo aver lavorato a lungo per Harper’s Bazaar, nel 1970 cominciò a praticare la foto di moda per divenire in breve tempo apprezzata quanto Sarah Moon. Indubbiamente sono riscontrabili molti tratti configurativi in comune nelle immagini finali delle due protagoniste. Entrambe alterano e rendono ambiguo il tempo fotografico percepito dall’osservatore; entrambe lo forzano a significarlo come tracce di una memoria quindi qualcosa di localizzato nell’intimo della soggettività. Ovviamente dal punto di vista tecnico entrano in gioco più o meno gli stessi trucchi per manipolare la scena da riprendere. Tuttavia i parallelismi tra queste due grandi protagoniste della foto di moda sono evidenti almeno quanto le loro differenze. Deborah cerca la rottura drammatica con gli stilemi della foto commerciale, ama l’inquietudine, un senso devitalizzante, la mollezza esistenziale, l’inazione, disagio; in molte sue foto, le innervazioni erotiche, sempre presenti in potenza quando il tema o il soggetto dell’immagine sappiamo essere confinato nel campo della moda, si risolvono nel flusso di sensazioni che normalmente ci fanno pensare a misteriosi intrighi vissuti da donne private della forza vitale del desiderio: “In my photographers there’s a gnawing feeling that samethings is wrong. My work isn’t complete il where isn’t some vestige of this frustration in final print”, diceva Deborah, e la fastidiosa sensazione che qualcosa non funziona nel verso giusto, nel contesto delle sue immagini, evocava qualcosa di violento, di mortifero. Sarah per contro ha una dolcezza che non è mai presente nell’immaginario raffigurato da Deborah. Sarah costruisce uno spazio di intimità nel quale nasce qualcosa, una vibrazione del tempo, un sentimento o altro, scegliete pure voi come raccontarlo; Deborah invece sembra interessata alla disintegrazione, all’annullamento di ogni possibile equilibrio vitale. Sarah a me pare interessata al mantenimento dell’omeostasi tra qualcosa che riporta la traccia del reale al suo fondamento emotivo o biologico; Deborah cerca di convincerci che l’omeostasi è spezzata per sempre.

Vorrei aggiungere che per comprendere il programma di ricerca delle due creative risulta utile chiamare sul banco degli imputati i due fotografi che in questa fase di profonda innovazione dell’immaginario creato dalla foto di moda, avevano agito con maggiore determinazione. Helmut Newton e Guy Bourdin, nei settanta del novecento misero sottosopra praticamente tutto ciò che fino a quel momento sembrava conferire efficacia alla foto di moda. Helmut spinse con forza il sexy nei territori della perversione. Guy demolì ogni residua certezza utilizzando immagini che presentavano per la prima volta nel campo della moda evocazioni e simulacri di cadaveri, scene di suicidio, ambientazioni cupe da film noir. Contro ogni previsione questo immaginario devastante si rivelò un successo commerciale per le riviste (e per i brand coinvolti, suppongo), diede luogo a controversie culturali che polarizzarono la pubblica opinione, suscitò l’indignazione tra le femministe militanti, ma divennero anche squilli di una sorta di avanguardia estetica e culturale che catalizzava attenzioni crescenti. Deborah Turbeville faceva parte di questa ondata creativa che metteva sottosopra i codici del buon gusto, del glamour, del piacevolmente sexy che avevano dominato l’immaginario della moda dal dopoguerra ai settanta. Le passioni estreme esplorate da molte sue immagini, frustrazione, angosce, inazione, probabilmente non avevano la portata trasgressiva di quelle di Newton e Bourdin, ma ne seguivano la traiettoria e di conseguenza la collocavano tra le avanguardie estetiche del periodo. Sarah Moon a mio avviso ha recitato un ruolo diverso. Il suo approccio all’informazione visiva per moda risultava dolce, leggero, piacevolmente romantico senza le mielose pesantezze seduttive del glamour commerciale. Anche se dal punto di vista formale e della ricerca, le sue foto non avevano nulla da invidiare a quelle dei colleghi citati, vennero vissute dalle lettrici senza gli attriti prodotti dalla logica trasgressiva che agli ingenui sembra promettere un energico appello al desiderio del fruitore, ma che in realtà era un sintomo di una significazione completamente diversa ovvero rappresentava le avvisaglie della scomparsa del desiderio di fronte all’imperativo del godimento che annuncia il dominio del mercato nei processi di sociazione. Nell’arco di tempo che stiamo considerando, gli anni settanta, i reportage di Sarah Moon sulle pagine di Vogue Francia bilanciavano creativamente (in modo dinamico o dialogico, voglio dire) le tremende picconate che Guy Bourdin, Helmut Newton e Deborah Turbeville infliggevano ai codici visuali della moda, conferendo una sorta di equilibrio al senso dell’immaginario prodotto dalla importante rivista. Credo sia stato soprattutto il confronto con Guy Bourdin a istradare Sarah Moon lungo gli stretti sentieri che la portarono a indagare i temi centrali della sua ricerca, anche se, dal punto di vista tecnico ed espressivo, la distanza tra questi due grandi fotografi risulta piuttosto evidente.

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17,18. Sarah Moon

Sarah Moon

4. Dopo la metà degli anni ottanta, lungo tutti i novanta fino praticamente ad oggi, il lavoro per la moda di Sarah Moon è punteggiato da continui sconfinamenti nelle tecniche audiovisuali, dalla creazione di spot commerciali e dalla regia di film documentari, come quello citato, dedicato a Lillian Bassman, ma ricorderei anche “Henry Cartier Bresson: point d’interrogation” (1994) e “Le montreur d’image: Robert Delpire” (2009). Tuttavia anche nel suo modo di esplorare le possibilità espressive dell’audivisivo permangono i fondamenti del suo personale Vangelo estetico, centrato sull’ossessione del tempo, sul trattamento dell’immagine conforme al grado di manipolazione necessario per strapparla al realismo allucinato che domina nella stragrande maggioranza degli audiovisivi contemporanei. Devo altresì aggiungere che le esperienze audiovisive, in qualche modo, sembrano aver migliorato la qualità del lavoro fotografico dell’autrice. A mio avviso il lavoro per moda, a partire da questa fase, presenta culmini di struggente bellezza di gran lunga superiori alle immagini della decade precedente. Anche se nelle rare interviste concesse alla stampa, Sarah Moon ripeterà come un mantra, di aver fatto sempre la stessa foto, la sua “intelligenza creativa” è un continuo work in progress che ha come fine l’affinamento delle pratiche artistiche con le quali trasfigura la presa sul reale dell’obiettivo fotografico, conferendo alle immagini, pensate per gli stilisti più sensibili al grumo di significati emozionali che oramai padroneggia, una serie strabiliante di variazioni sul tema di sublime qualità artistica. Quale parola/concetto potrebbe restituirci nei modi asciutti del linguaggio il tema che da sempre, quando fotografa per la moda, l’appassiona (o ossessiona)? Io lo definirei la grazia ritrovata. Mentre agli inizi della sua carriera probabilmente le sue immagini avevano più di una nota di leziosità, da un certo punto in poi, la perdono e rimane solo una stupefacente grazia. Perché ho aggiunto “ritrovata”? Per via delle contaminazioni con una mappatura emozionale che rinvia facilmente a idee come la solitudine, la desoggettivizzazione ( per esempio quando il taglio delle foto separa il corpo dell’immagine dal volto, dalle mani, dai piedi), l’instabilità della mesa a fuoco che aggiunge alla bellezza un senso di disagio, le imperfezioni cromatiche dai colori ai quali viene sottratta energia.

Se guardate la scelta di immagini che ho selezionato, fatte per Kawakubo, Yamamoto, Issey Myake unitamente a quelle per Giorgio Armani segnalate sopra, potrete facilmente farvi la vostra idea del senso olistico (cioè complessivo dell’intera serie, o se volete della particolare inflessione o curvatura dei codici standard, riscontrabili nei creativi ai quali attribuiamo uno stile ) del lavoro di Sarah Moon. In tutte queste immagini commerciali è presente una forte impronta privata. È come se Sarah Moon volesse dolcemente forzarci a sintonizzarci con la mappatura fotografica dei suoi sentimenti, di ciò che prova quando la sua mente osserva un corpo che la moda pretende di significare. In questi ultimi decenni conosco un solo fotografo che può essere avvicinato alle significazioni visive di Sarah Moon. Si tratta di Paolo Roversi (1947), celebrato autore di campagne di moda di una bellezza da togliere il fiato. Anche nelle sue foto troviamo assonanze con le atmosfere predilette da Sarah Moon. Ma le sue sperimentazioni fatte essenzialmente con la Polaroid 25×25 non hanno la forza disgregativa di quelle della collega. E forse risultano più nostalgiche e malinconiche seppur più puntuali e precise nella fruizione degli effetti. Personalmente pur inchinandomi di fronte al talento di Roversi, non posso negare che trovo più stimolante perdermi nella figurazione delle mappe affettive create da Sarah Moon. La domanda che sorge spontanea è questa: Perché entrambi funzionano così bene e a quali condizioni? Sì perché, se ci pensate bene, per una moda dominata dalla ricerca di euforia e dalla ricerca di un’informazione visiva ricca e vitale, il lavoro della fotografa e del collega può apparire una anomalia. È evidente che la tecnica di Sarah Moon consiste nel sottrarre informazioni alle forme e ai colori. Probabilmente perché l’informazione non c’entra nulla con gli affetti, con i sentimenti, con l’esperienza interiore che a certe condizioni una immagine può mappare. Gli stilisti più sensibili a fare della loro arte un mezzo per trasmettere la possibilità di esperienze che vedono i sentimenti prevalere sul gioco di esibizione o sull’eleganza di superficie, non potevano rimanere indifferenti al suo personalissimo stile. In definitiva, i grandi fotografi che hanno lavorato per la moda, sono sempre riusciti a narcotizzarne i tratti commerciali, per fare irrompere nel suo campo una significazione eccedente il tacito contratto non scritto che questa forma di pubblicità intrattiene con i fruitori. Grazie al loro talento oggi la foto di moda viene spesso vissuta come una forma d’arte.

 

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19.20. Immagini dell’allestimento della mostra dedicata a Sarah Moon all’Armani Silos

 

Lamberto Cantoni
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2 Responses to "Sarah Moon. Moda, arte e sentimenti"

  1. Manuela V. (Laba)   14 Gennaio 2020 at 23:18

    ​“From one season to another ” è il titolo della mostra ospitata all’Armani Silos, una grande antologia che attraversa quarant’anni di carriera dove scorrono tutti i grandi temi della fotografa francese Sarah Moon e nella quale assistiamo in certe sezioni a un vero trionfo del colore. 
Si tratta di un viaggio emozionale in cui tutto contribuisce a sottolineare la forza del cammino fra i suoi lavori, datati tra gli Anni Settanta e oggi, un cammino pensato dall’artista stessa in tutti i suoi dettagli.
All’Armani Sylos sotto il titolo di “From One Season To Another” sono esposti oltre 170 scatti, di piccolo e grande formato, a colori e in bianco e nero. Lavori realizzati dalla seconda metà degli anni ‘70 a oggi dove però è inutile cercare un appiglio cronologico.
    Uno dei tratti distintivi nei lavori della Moon è proprio l’assenza della dimensione temporale, e come ricorda una citazione di T.S Eliot su di una parete “tutto ciò che può essere stato e tutto ciò che è stato conduce a un solo fine che è il presente”. Le sagome impressioniste con cui inquadra la femminilità, le giostre in controluce di Coney Island o le vedute dei cantieri al lavoro in città irriconoscibili, appartengono così a una dimensione a parte, perpetua.
    Pittorica, infantile, venata di quella lieve angoscia con cui i bambini immaginano i mostri.
    In tutti gli scatti ovviamente spiccano l’abilità e l’eleganza con cui la Moon sa costruire a partire un dettaglio piccole storie, narrazioni che spesso lasciano spazio all’immaginazione e al sogno. Perché quando guardi questi dipinti è quasi impossibile non porsi delle domande o iniziare a immaginarsi dove siano state scattate, chi fosse la figura magari anche sfocata che era stata colta in quello scatto o cosa stesse facendo. Sono l’inizio di una storia di cui ognuno di noi può dare libera interpretazione. Infatti la mostra, invita lo spettatore a interpretare la poesia personale dell’artista che esprime con i suoi scatti e a essere immedesimati con le narrazioni dello spettatore stesso, creando un collegamento sensoriale profondo.
    
In ognuno dei suoi scatti si legge un’evidente metabolizzazione della storia della fotografia, da Muybridge, con i suoi animali in corsa, a Brassaï ad Atget. Scusate l’azzardo ma, in quanto spettatrice della mostra a cui ho assistito il 3 novembre 2018, mi sono sentita un richiamo fievole a un’altra grande fotografa degli anni ’70, Francesca Woodman che presenta scatti fotografici dove predomina un senso di evanescenza, narrazione, storia, al contempo anche mistero, direi quasi un senso di effimero, e mi ha ricordato gli scatti della Moon.
    Contenuto e contenitore diventano un unicum accompagnato da una colonna sonora che scandisce il tempo dello sguardo, un tempo che segna l’evanescenza del tutto.
Gran parte del lavoro di Moon si ispira al concetto di tempo: quanto brillantemente ci sfugge e quanto brillantemente lo evitiamo.
    
Ci muoviamo tra struggenti evocazioni di parchi e luoghi di divertimento come Coney Island (2016), colti nel loro abbandono, vuoti di folla e di calore, e animali e artisti circensi lontani dal pubblico, avvolti da solitudine che trasfigura i loro numero in una sorta di meditazione; tra nubi e fumi che invadono il cielo, trasformandolo in un quaderno di emozioni, e visioni di città marine attraverso vetri rigati dalla pioggia, che ci fanno vedere non solo il paesaggio ma, allo stesso tempo, il nostro sguardo e la nostra presenza dentro quel paesaggio. È ciò che mi ha colpito delle sue fotografie. Il voler rappresentare l’esterno, il catturare qualcosa che è reale ma al tempo stesso la Moon ci rappresenta all’interno di quella stessa fotografia, ti fa sentire parte di quel momento. 

Tutto quello che ci circonda in Sarah Moon ci riguarda e ci chiama in causa, come le enormi fotografie a colori di fiori e uccelli che ci avvolgono in una grande sala che fa da cerniera a metà percorso: monumentali creature misteriose, provenienti da un mondo diverso dal nostro, eppure nelle quali possiamo specchiare i nostri sentimenti e istinti, riscoprendo quella parte vitale e pre-umana che ci accomuna alle altre creature che abitano con noi il mondo nel quale viviamo.

    Un alone nero circonda oggetti, animali, figure, non come ombra ma diventa un colore costruttivo che dà sostanza stessa e corpo alle immagini creando quel senso di sfocatura e fugace. Questa predominanza di nero è affascinante, profondo, sfocato forse a simboleggiare la fugacità del tempo, dello scatto fotografico stesso in quanto prodotto di un meccanismo di millesimi di secondi o dei nostri sentimenti. 

E l’arte di Sarah Moon, con il suo coraggio di guardare in faccia la realtà senza infiocchettare con consolazioni di maniera il tragico dell’esistenza, ci suggerisce che probabilmente il tempo che tutto travolge e consuma non è l’unica risposta e l’unica nostra realtà, perché tutto, come lo yin (nero) e lo yang (bianco) dell’antichissima sapienza cinese, è “just a balance mixing bright and dark.”
    Cito una frase che secondo me rappresenta la giusta chiave di lettura delle fotografie della Moon. Davanti ai suoi scatti si è in una situazione di ““sogno a occhi aperti” ovvero quando dalle immagini-movimento della percezione reale passiamo a una immagine-tempo che narcotizza le risonanze di ciò che collochiamo fuori del corpo, precipitandoci in un flusso emotivo che si muove in uno spazio interiore”, si viene colpiti emotivamente, si percepisce una scossa sensoriale che difficilmente si dimentica per l’intera giornata.
    

L‘eleganza e il mistero della bellezza, il tempo e il suo inesorabile trascorrere. L’effetto flou per catturare l’istante, l’attimo evanescente che seduce lo sguardo.
    Con le sue visioni, volutamente evanescenti, ama evocare momenti e sensazioni provenienti da una realtà immaginaria, filtrata dal ricordo e dall’inconscio.
    Una frase mi ha colpito l’attenzione: “In tutte queste immagini commerciali è presente una forte impronta privata. È come se Sarah Moon volesse dolcemente forzarci a sintonizzarci con la mappatura fotografica dei suoi sentimenti, di ciò che prova quando la sua mente osserva un corpo che la moda pretende di significare.”

    Sarah Moon, capace come poche altre fotografe di tradurre l’attimo in visioni, ha firmato la campagna primavera estate di Armani, con scatti pensati per regalarci emozioni forti, tra sogno e realtà.

    
Merci madame Moon.


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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto   15 Gennaio 2020 at 21:26

      Manuela, hai scritto un testo interpretativo ragguardevole, pieno di considerazioni pregnanti. I miei complimenti.

      Rispondi

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