SetUp 2018: del contemporaneo come “attesa”

SetUp 2018: del contemporaneo come “attesa”

BOLOGNA – Anche quest’anno, pur cambiando la location, la fiera dell’arte off di Bologna è stata un successo di pubblico (e di vendite), confermandosi come sintesi aggiuntiva essenziale per il rapporto tra ARTEFIERA e il contemporaneo.

Devo dire che sono andato a Palazzo Pallavicini per la sesta edizione di SetUp agitato da qualche pregiudizio. Infatti le prime cinque edizioni della fiera off dedicata ai galleristi giovani e ai loro talenti artistici, in qualche modo respinti dalla più famosa e severa ARTEFIERA (evento in contemporanea con SetUp), le prime cinque edizioni dicevo, avevano avuto come location l’inquietante Stazione delle Corriere di Bologna, un luogo malinconico e triste che riflette perfettamente le armoniche architettoniche dell’edificio nel loro fare il verso alle atarassiche vite semoventi di eroici lavoratori, studenti, extracomunitari che dalla provincia raggiungono quotidianamente la città. La Stazione era un perfetto non luogo per cominciare a raccontare, partendo dallo spazio, le frattaglie di contemporaneità raccolte e messe in campo dalle coraggiose organizzatrici, ideatrici di un progetto espositivo alternativo alle normali fiere d’arte. Per esempio, era difficile poter vedere opere esposte come diocomanda: i corridoi troppo stretti, la rete di stanze e stanzette anoressiche, costruite per piccoli grigi burocrati non permettevano ai quadri esposti di respirare aria buona. Ma il soffocamento spaziale garantiva un non so che di struggente all’esperienza della fruizione. Era come se l’oggetto artistico ti arrivasse addosso senza troppe mediazioni, per costringerti a sentirlo più che a guardarlo. L’effetto rave della gente, bambini urlatori a parte, generava una insolita euforia. Al posto della ordinaria sonnolente reverenza, tipica degli spazi dedicati all’arte, anche il pubblico di SetUp meno dotato (la gente sana di testa voglio dire) per comprendere l’insensatezza di fondo degli oggetti esposti, esibiva una ammirevole nochalance partecipativa: restavano pur sempre sostanzialmente indifferenti agli astrusi concetti esposti lasciando tuttavia che l’oggetto, per estesia suppongo, interferisse con il loro corpo senziente. A me sembrava un buon esempio di noncuranza intellettuale trasformata in un encomiabile e gioioso sentimento di presenza che, se ci pensate bene, è una delle esperienze estetiche che possiamo definire contemporanee. Insomma, per farla breve, SetUp Autostazione assomigliava a una gigantesca e casuale installazione con protagonista il pubblico preso nel gioco di sguardi con l’oggetto ma al tempo stesso garante del fatto che esistesse un gioco chiamato arte contemporanea. Ovviamente in questa occorrenza l’espressione arte contemporanea stabilisce la prevalenza di valori semantici legati all’idea di freschezza, novità, controtendenza… Insomma, per farla breve, la prevalenza di atti artistici che in qualche modo trasmettano qualcosa del nostro tempo, a prescindere dalle correnti estetiche, dagli stili consolidati dal mercato dell’arte. So benissimo che questa dimensione del contemporaneo è un mito. Tuttavia lo considero anche un mito fecondo, capace di mettere in moto le domande esistenziali che l’arte ha ereditato dopo il crollo delle grandi narrazioni sociali. Quando visitavo il vecchio SetUp mi sembrava di assistere ad un’esperienza estetica collettiva più che alla fruizione individuale dell’opera orientata a una possibile mercificazione.

Con la sesta edizione, appena conclusasi, il mood della manifestazione mi è parso deviare in direzione di una maggiore qualità espositiva e di una fruizione più mediata. La scelta della nuova location, Palazzo Pallavicini, ha avuto un ruolo determinante in questa trasformazione di SetUp in organismo evenemenziale maturo.

Palazzo Pallavicini è tra gli edifici bolognesi, in origine di base quattrocentesca poi trasformati in palazzi senatori, uno dei luoghi storici ricordati oggi per le grandi aristocratiche feste organizzate in passato nelle sale decorate dal Burrini (1690). Dopo l’arrivo dei Pallavicini come affittuari prima, poi acquirenti, le sale furono trasformate dai più importanti pittori, quadraturisti, stuccatori, decoratori bolognesi di epoca neoclassica (David Zanotti, Giuseppe Antonio Valliani, Emilio Manfredi, Francesco Sardelli, Filippo Pedrini, Vincenzo Martinelli, Serafino Barozzi, Flaminio Minozzi).

Mi piace ricordare che la festa maggiormente stigmatizzata dagli storici locali fu voluta dal conte Gianluca Pallavicini nel 1770 dal momento che fu allietata dalla musica suonata personalmente da Mozart e riuniva in gran numero dame dell’aristocrazia europea.

E’ chiaro che Simona Gavioli e Alice Zannoni, le due critiche che inventarono SetUp, con la scelta di Palazzo Pallavicini, hanno inteso collegarsi con la sua tradizione festosa, internazionale, prestigiosa per presenze, proponendoci uno dei soliti anacronismi con i quali i curatori di eventi artistici configurano il senso contrastato delle narrazioni del contemporaneo. Ma oltre alla scontata con-fusione tra il guazzabuglio dell’arte di oggi e l’ombreggiatura di un neoclassico ludico, le citate organizzatrici hanno voluto creare per SetUp un momento di stasi, di riflessione, dopo anni di crescita dis-ordinata. Da qui l’elogio dell’attesa, il tema di questa sesta edizione, interpretata evocando S.Agostino e quindi immaginata essere il momento in cui nel presente si deposita il futuro. Si tratta di una soluzione molto elegante nel dilemma di cosa sia il contemporaneo, declinato come fosse più che altro lo spazio vaporoso nel quale precipiteranno segni solidi del futuro. Soluzione utile tra l’altro, per orientare alcuni aspetti del citato evento verso una qualità artistica più in linea con le attese di una committenza in questa fase poco propensa a premiare la ricerca e le provocazioni insensate.

Devo aggiungere però che per la visione agostiniana del futuro come attesa, sembra più un modo per narcotizzare la questione del senso del contemporaneo ( quello con la freccia del tempo orientata in avanti) più che una sua possibile, sempre provvisoria, soluzione. Provate a immaginare i cubisti, i futuristi, i surrealisti e tutti gli innumerevoli gruppi di pressione che nel novecento hanno cambiato la percezione di cosa sia l’atto artistico, in relazione all’attesa. A me pare evidente il loro essere stati altrove rispetto la sostanziale e un po’ noiosa inazione agostiniana. Secondo Kierkegaard nell’attesa nasceva il desiderio (il motore emozionale del nuovo). Sarà stato anche così. Ma lo statuto del desiderio nel nostro tempo è molto cambiato rispetto alla sua versione ottocentesca. L’attesa (come stile di vita, come orientamento estetico) oggi assomiglia più a una fastidiosa rottura di coglioni rispetto all’innesco del fatidico desiderio (da parte sua, da Freud in poi, legato alla “mancanza” è non certo all’attesa). Io credo che l’arte contemporanea (cioè l’espressione artistica che deve lottare per trovare un posto nel nostro immaginario), come il desiderio un po’ psicotico del soggetto post-moderno, abbia bisogno di viversi nel futuro anteriore, un tempo dinamico dunque, non certo il tempo dell’attesa agostiniana e kierkegaardiana. Come ha mostrato Beckett, l’attesa è sostanzialmente inutile (se vuoi godere/creare devi darti una mossa). Solo i creduloni romantici alla Lessing si illudono di trovare tutto il piacere nell’attesa.

Quindi cosa concludere sul tema scelto dalle due curatrici? Solo una narrazione-cornice per dare un senso all’eterogeneità degli stili artistici presenti nel loro evento? No, non credo. Simona e Alice in questi anni hanno preso atto che il contemporaneo in realtà spinge in tutte le direzioni (anche verso il passato) e che nessuna tendenza è scontata o prevedibile. L’attesa per loro, è il punto di vista sul contemporaneo di chi come mestiere fa il curator e non l’artista o il divinatore. L’artista come un tempo faceva l’oracolo, oggi è chiamato ad anticipare il futuro (anche quando sembra guardare al passato). Per il curator di un evento che si presenta come la composizione di un provvisorio territorio estetico, l’elogio  dell’attesa è l’enfatizzaxiobe del momento di stasi in cui possiamo vedere le diverse traiettorie dell’arte convivere, mescolarsi, contaminarsi. Creare un’attesa allora può essere realmente la missione che nobilita un evento come SetUp, lasciando che sia il pubblico a compiere l’atto decisivo, lo sguardo, che fa esistere l’arte.

Comunque la pensiate su queste faccende, mi fa obbligo aggiungere che SetUp nobilitata dallo spazio neoclassico, ha ben funzionato. I fondamentali sono stati abbondantemente rispettati: un pubblico numeroso, opere esposte con maggiore rigore, vendite in crescita rispetto al passato.

Insomma, proprio una fiera per bene, educata, rispettosa, molto in linea con le aspettative di un pubblico dall’immaginario castrato dalla crisi (non solo economica).

Nel racconto per immagini di SetUp che ho selezionato e che troverete sotto, in attesa di un vostro clic, spero che il lettore attento indovini le segnature di concetti che ho brevemente messo in tensione.

La sensazione di ordine e compostezza che vedete trasmessa da molte immagini è ciò che ho posto in con-fusione con lo spazio neoclassico. A me pare evidente l’intenzione delle curatrici di sperimentare l’evento espositivo come luogo favorevole ad una stasi dello sguardo piuttosto che una sua implosione prodotta da un sovraccarico emotivo e percettivo (come succedeva nella vecchia location).

Per come io vedo le cose, SetUp 2018 ha perso in energia guadagnando in compostezza, fruibilità e valore. Gli oggetti artistici, di qualità superiore rispetto alle passate edizioni, sottoposte all’anacronismo del luogo, hanno presentato un’intimidita attualità, appena necessaria per trasmettere la sensazione del contemporaneo in versione un po’ sottomessa e fragile. Ma molte di esse sono risultate di una qualità tecnica che raramente ho percepito nelle cinque edizioni precedenti.

Per fare un esempio di fragilità, posso citare l’installazione intitolata Countdown di un giovane artista dall’eccitante nome Solomostry. Guardate l’immagine di apertura del mio intervento: a mio avviso l’eccessivo rispetto del luogo ha castrato l’idea creativa trasformandola in una improbabile decorazione d’ambiente con tanto di amorini barocchi a farsi due risate. Invece, i grandi pannelli dovevano aderire lateralmente uno all’altro e chiudersi all’ambiente per accogliere il fruitore nello spazio dell’opera, fuori dal contatto con l’esigente genius loci. Senza questo impatto l’articolata opera risulta assente sul fronte delle emozioni e quindi inefficace.

Intendiamoci, l’installazione è solo un esempio estremo. Gran parte delle opere sono state presentate al pubblico in modo esemplare. Forse troppo.

ArteFiera

 

SetUP 2018

Lamberto Cantoni
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4 Responses to "SetUp 2018: del contemporaneo come “attesa”"

  1. Lucio   7 Febbraio 2018 at 16:17

    Effettivamente la stazione delle corriere mi sembrava molto idonea a SetUp. Ho visto l’edizione di quest’anno e il palazzo è suggestivo. Per me è migliorata e di molto.

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  2. Luigi   8 Febbraio 2018 at 08:31

    Ha ragione l’autore, il contemporaneo dentro al palazzo è deja vu, inautentico come vuole il postmoderno. Però quello che conta sono gli artisti. Il livello della manifestazione è aumentato. C’è stata più qualità. Mi piacerebbe che aumentassero le gallerie internazionali.

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  3. Antonio   8 Febbraio 2018 at 09:52

    A me gli anacronismi piacciono e il sabato della notte bianca a SetUp mi sono divertito. È scontato che il prestigio del palazzo imponesse una partecipazione diversa rispetto al passato. Ma dal casino totale all’affollamento ordinato è la sensibilità verso l’opera artistica che ci ha guadagnato.

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  4. Vincenzo   9 Febbraio 2018 at 13:26

    L’edizione di quest’anno sembra più una fiera d’arte alternativa. Quella in stazione era speciale. Sembrava un rave evoluto.

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