Viktor&Rolf, Fashion as Art Experience

Viktor&Rolf, Fashion as Art Experience

ROTTERDAM – Una grande mostra al museo Kunsthal (20 maggio- 30 settembre 2018) celebra i primi 25 anni di carriera dei due stilisti olandesi.

Quando nel luglio 1999 Maggie Ritzer, una delle modelle più apprezzate della sua generazione, apprese di dover sfilare per Viktor&Rolf durante la settimana di presentazione delle collezioni couture autunnali a Parigi, probabilmente si attendeva qualche eccentricità ma certo non poteva immaginare a cosa andava incontro. Al posto della tradizionale passeggiata sulla passerella i due stilisti avevano immaginato una sorprendente performance. Collocata la modella sopra un piccolo podio ruotante, cominciarono a rivestirla sovrapponendo gli abiti che avrebbero dovuto sfilare uno dopo l’altro. Dopo una quarto d’ora, Maggie si trovò ricoperta da una decina di outfit dal peso di circa 60 kg.

Nella foto 1 potete osservare le fase iniziali della istallazione/performance. Nella foto 2 una fase intermedia. Infine nella foto 3 il gran finale.

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                                                                                                                                                                      Foto 1,2,3

Se volete farvi accarezzare da un’emozione probabilmente più vicina a quella che provarono gli intermediari della moda presenti alla sfilata in oggetto, guardate su YouTube il video che

documenta la performance. L’accumulo dei look che sommergono Maggie, generano un percorso passionale che, dopo numerose trasformazioni, plana in un territorio emotivo attraversato da momenti ansiogeni: non sappiamo più se risulta dominante la nostra ammirazione per il virtuosismo creativo di Viktor & Rolf oppure un sentimento di disagio nel prendere atto della progressiva scomparsa della modella.

Dal punto di vista commerciale l’atto moda dei creativi sembrava puro non senso. Ma dobbiamo ricordare che si trattava del loro esordio nell’Alta Moda e, in uno dei momenti decisivi della loro carriera, non volevano certo negare il loro personale Vangelo estetico. Parigi rappresentava lo scenario ideale per ricordare a tutti lo stretto legame che la couture aveva da decenni suggellato con il campo dell’arte. Ma oltre a prestiti, citazioni, ibridazioni, sembravano dire i due stilisti, l’Alta Moda ha una fondamentale dimensione artistica che le è propria. Se spesso si rifugia o prende spunto da opere di grandi artisti, l’oggetto per il corpo che viene a configurarsi, grazie alle materie che le sono proprie e alle tecniche ad esse congruenti, finisce col proporre una esperienza estetica autonoma, capace di rivaleggiare con le opere di altri campi artistici. La Moda, sembravano suggerire, potrà sopravvivere solo se manterrà fede al contratto non scritto con la forma di cultura entro cui opera, contratto che prevede certo la funzione di rivestire un corpo altrimenti insignificante, ma anche un confronto serrato con le pulsioni creative che animano ciò che i filosofi definiscono l’essere dell’individuo, per il quale l’abito diventa non un semplice contorno dell’involucro-corpo ma, per l’appunto, la pelle dell’essere. A questa metafisica dell’abito ci si arriva con una completa adesione ai modi dell’arte. A quale forma d’arte pensavano i due stilisti olandesi? All’arte liberata da ogni sudditanza con codici rigidi (la tradizione), capace di emanciparsi da materia e forma per mettere in gioco idee e concetti. Questo libero spirito ribelle, iconoclasta, secondo Viktor & Rolf è fondamentale per sperimentare sintesi efficaci come culmine dei processi creativi che permettono a uno stilista, a livello di fruizione, di far emergere tumulti passionali tra i valori decisivi di una forma di vita e, ai loro occhi, sarebbe identico a quello che anima gli artisti tout court. La libertà espressiva dunque rappresenterebbe la stretta via che consente alla couture di essere simultaneamente contemporanea ed erede di una lunga e per certi versi misconosciuta tradizione artistica ribelle. Ecco perché, oggi, secondo Viktor & Rolf, per la couture creare abiti belli è troppo poco. Piuttosto deve proporre meta-abiti cioè oggetti per il corpo suscettibili di produrre sintesi valoriali emergenti. Per tornare alla trasfigurazione di Maggie, forse il messaggio che intendevano metaforizzare era semplicemente una sorta di critica alla bulimia della moda, all’accumulo non sostenibile di abiti. In questa prospettiva il rifiuto di un défilé di look significava senz’altro manifestare la propria estraneità al gioco delle tendenze, funzionali all’idea di mercato del momento proiettabile nel futuro ma anche asservite a progetti di indiscussa mercificazione.  Al posto di una moda normale quindi utile, Viktor & Rolf proposero una sorta di elogio rituale all’inutile, dando al lusso risonanze semantiche già esplorate da Georges Bataille nei suoi libri dedicati alla part maudite e alla nozione di dépense. Non senza marcare una significativa differenza con il pensatore francese: la perdita (dell’utile e della bella forma) in Viktor & Rolf, non sembrava rinviare tanto all’orrore quanto al gioco ironico praticato con successo dagli artisti delle avanguardie storiche. È chiaro che la trasfigurazione finale del look di partenza ( fig.3) è un monstrum, a patto però di intenderlo nel senso latino del termine cioè in qualche modo connesso con il sacro (il mostruoso porta i segni che fanno pensare al prodigio terrificante; tra l’altro, derivando da monere, avvisare/ammonire, può evocare un presagio che suscita ansietà).

Ora, se al posto della quota di sacro contenuta nel monstrum mettiamo ciò che ne ha preso il posto a partire dal novecento ovvero modalità di fruizione dell’arte passionali e libere da codificazioni rigide in termini di materia,forma e concetti, allora risulta facile comprendere la filosofia creativa di Viktor & Rolf. La loro moda prima di essere merce vuole presentarsi come Arte e il processo creativo che dobbiamo vedere implicato nel loro fare, fonde la maestria artigianale con un approccio concettuale all’oggetto.

Permettemi ora di presentarvi una delle creazioni dei due stilisti olandesi che colloco nel mio personale Olimpo della moda (fig.4)

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L’abito appartiene alla collezione couture S/S 2010. La vulgata giornalistica ossequiosa nei confronti delle imbeccate divulgate ad arte dagli uffici stampa aziendali, diffuse l’idea che i buchi e i margini mordicchiati della gonna di tulle, dovevano essere interpretati come segni della crisi economica che ebbe il suo culmine tra il 2008/2010. Può anche darsi che l’appello ai rumori della realtà che troppo spesso la moda, nei propri territori simbolici, rimuove, fosse ciò a cui Viktor&Rolf pensavano quando concepirono la geniale soluzione del look con il buco.

Tuttavia, a mio avviso, l’abito colpisce per ben altro. Malgrado le evidenti e apparenti imperfezioni risulta irragionevolmente attraente. Naturalmente ci troviamo di fronte a un’ordine di bellezza surreale che spiazza le nostre attese, costringendoci, prima di rifugiarci nell’ekphrasis con cui descriviamo, apres coup, la cosa che ci colpisce, a subire un urto emotivo, una sorta di leggero trauma che genera stupore.L’abito appartiene alla collezione couture S/S 2010.

L’ekphrasis nell’antica retorica era una parola che serviva a categorizzare la pratica discorsiva che ambiva a restituire al pensiero e al linguaggio i contenuti presupposti dall’oggetto o evento da descrivere, con la stessa forza espressiva dei medesimi.

Ora, si può dire che a livello di fruizione dell’oggetto i due stilisti operano affinché l’emozione preceda il concetto. Questo anticipo logico (cioè creato o voluto) permette all’idea (o ai concetti in gioco) di non uccidere la cosa, trattenendola in uno spazio interiore che trasforma il concetto in esperienza.

Osservate il sorprendete oggetto per il corpo nella fig.5. Se fate un confronto tra le due immagini potete notare il trompe d’euil che emerge a partire dalla relazione con lo sfondo (quando la modella è asimmetrica alla pedana bianca il corpo sparisce, viceversa appare nei modi della silhouette). Non si può rimanere indifferenti al virtuosismo dei due stilisti. La soluzione tecnica deve aver richiesto estenuanti esercizi configurativi. Ma ancora una volta impressiona la sottile regolazione emozionale che porta all’emersione del concetto. Dobbiamo immaginare innanzitutto l’oggetto in movimento. Quando metà corpo sembra non esserci più subiamo uno spaesamento che ci turba; quando riappare ci sembra leggero, tutto da scoprire.

David La Chappelle- The house at the end of the world ( Victor & Rolf - spring/summer 2010)

 

David La Chappelle- The house at the end of the world ( Victor & Rolf - spring/summer 2010)                                                                             

                                                                                                                                                                          Fig.5

 

Molte soluzioni di Viktor & Rolf, mi fanno pensare all’ilinx che teorizzava Roger Caillois, in pieno fulgore surrealista, per categorizzare una strana eccitazione implicata da situazioni in cui c’è una mancanza, una perdita, una distruzione (un buco, il corpo che scompare etc.). Ilnix in greco antico significa vortice. Il sociologo francese cercava la forma dell’espressione verbale di tutti quei fenomeni percettivi nei quali la perdita del controllo produce una sorta di vertigine ludica. Nel suo libro più famoso, Il gioco e gli uomini (Bompiani, 2010), Caillois riconduce le origini dell’inlix alle danze rituali come quelle dei dervisci: girare su se stessi per avere delle visioni alternative alla realtà (entrare in trance).

Avanzo l’ipotesi che tra l’estasi della trance e l’ilinx la differenza risieda nella gradation passionale. Mentre nella prima il soggetto evapora in una esperienza interiore, la seconda preserva l’oggetto o l’ossatura formale della situazione che la materializza, mantenendo il soggetto in sospeso tra l’emozione e il concetto.

A mio avviso Viktor & Rolf possono essere definiti artisti concettuali nel senso che discende dal ragionamento precedente. Ovvero non giocano ad anteporre l’idea all’oggetto (come vorrebbe la significazione banale di arte concettuale), ma usano il secondo per dare al concetto una intensità semantica che eccede la logica lineare. Sono artisti e non dei filosofi; e nemmeno dei mistici.

Nella foto (6) troviamo un altro esempio di scomparsa del corpo, questa volta raggiunto attraverso un totale camuffamento, e che possiamo ascrivere all’oscillante gioco tra emozione e concetto descritto sopra.

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Foto 6

Il volto, la testa della modella sono completamente ricoperti da una enorme maschera a forma di camicetta sulla quale gli stilisti, grazie a un sapiente gioco di collage e sovrapposizioni, hanno disegnato un volto chiaramente alla Picasso. Si tratta di una delle creazioni della collezione S/S 2016, dedicata per l’appunto al grande pittore. Le performance delle bambole-sculture semoventi (potete trovare facilmente la sfilata su YouTube) presentano look che giocano sul rimontaggio asimmetrico degli elementi formali come vediamo nei quadri cubisti. Ma aldilà della fonte dell’ispirazione che oggi potrebbe, tutto sommato, apparire scontata, è la forza del concetto ad essere convincente. I due stilisti lo hanno definito Wearable Art, non solo per significare abiti artistici e indossabili, bensì per legittimare la loro visione della moda. Molti giornalisti descrissero quella sfilata con parole che cercavano di esprimere il loro stupore, ma anche come se in definitiva fosse una semplice imitazione con dedica a Picasso. Io credo che invece rappresentasse una vera e propria sfida per riaccendere le passioni narcotizzate dalla museificazione dell’artista.

Non metto in discussione che gli stilisti lo abbiano eletto a fonte ispirativa, aggiungo soltanto che gli esiti vanno ben oltre l’apparente prestito semiologico, nel senso che l’atto creativo di Viktor & Rolf, a mio avviso, è un tentativo per riavviare il potenziale eversivo o traumatico del cubismo per la moda. La presenza totemica nella foto citata penso che alluda alle pulsioni creative, in apparenza caotiche e disformi, che i due stilisti hanno voluto evocare. Il colpo di genio è la monocromia del bianco ovvero l’ordine emergente ai bordi del caos.

Trarre da una pseudo tradizione, nella quale si trova collocata la classe di artisti visionari e/o d’avanguardia, le energie per scuotere il Fashion system e nello stesso tempo misurarsi con sfide creative per diffonderne i concetti nello spirito della contemporaneità, rappresenta uno dei filoni di ricerca attualmente più frequentati dalla coppia di olandesi.

Come ulteriore esempio mi piace citare l’esempio di Van Gogh del 2014.

Se osservate la foto (7) probabilmente il riferimento ai paesaggi del celebre pittore è vagamente riscontrabile nei colori, nelle stampe dei tessuti e nel mood bucolico della messa in scena.

Van Gogh è chiaramente un pre-testo che permette agli stilisti di diffondere in modo immediato il concetto di Wearable Art e nello stesso tempo di continuare a esplorare forme dell’abito concepite come vere e proprie opere d’arte.

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Foto 7

Trovo comprensibile che per alcuni critici della moda in realtà tutto si risolva in brillanti prestiti o citazioni culturali. Ma vorrei insistere sul mio punto di vista: Viktor & Rolf più che perdersi in citazioni sono impegnati a decostruire il frammento di tradizione d’avanguardia che funge da pre-testo; il loro atto moda trasfigura la sorgente espressiva dalla quale traggono schemi compositivi che trasdotti con materie e tecniche specifiche della moda fanno emergere forme che sentiamo come a noi contemporanee. Ecco perché l’abito che vedete nella foto mi fa pensare meno a Van Gogh e più all’idea di natura sostenibile (e quindi di moda sostenibile) presentata forse con una sfumatura kitsch che rende più sfrontato (e quindi efficace) l’ordine di bellezza evocato.

Probabilmente la collezione che meglio racconta il particolare rapporto che Viktor & Rolf intrattengono con la tradizione artistica è stata la mirabile messa in scena presentata nella sfilata di Alta Moda del 2015.

Ovviamente ve ne raccomando la visione su YouTube. Ma potete farvene un’idea guardando la foto 8.

Le modelle indossano abiti la cui forma è profilata da vere cornici pittoriche opportunamente deformabili. I tessuti presentano segni espressivi che rinviano all’arte astratta, all’action painting. Non mancano i trompe d’oeil, ricami, applicazioni. È incredibile osservare la sensazione di grazia che l’occhio percepisce quando le modelle camminano, con una parte della mente che simultaneamente si ribella trovando in quegli abiti la dinamica caotica degli edifici di Gehry. Vi ricordate quello che ho scritto sopra a proposito dell’ilinx come l’emozione che scaturisce da un vortice, da un disordine voluttuoso? Se ritenete troppo intellettuale il mio approccio, usate pure le parole che più vi piacciono. Non sono poi così importanti. Ma sono convinto che anche voi proverete stupore per il perfetto bilanciamento tra grazia e percezione di disordine della silhouette.

Quando le modelle ritornano dalla brevissima promenade trovano Viktor & Rolf pronti a svestirle per poi appendere, con gesti sicuri, gli abiti alla parete bianca che fa da sfondo alla sfilata-performance. L’arte indossabile che diviene dunque opera nel senso tradizionale del termine. A questo punto l’ironia e un raffinato spirito ludico emergono dallo stupore e finalmente un sorriso, una rarità per una couture rigidamente incline a prendersi troppo sul serio, ci libera da ogni tensione.

Come avrete senz’altro capito, sono incline a pensare che Viktor & Rolf abbiano compreso che la dimensione artistica propria del Fashion sia l’abito indossato e che quindi l’oggetto sia concluso solo dopo la sua performance/istallazione.

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Foto 8

La mostra di Rotterdam

Gli abiti che ho commentato sopra insieme a una sessantina di creazioni esemplificative del programma di ricerca artistico dei due stilisti olandesi, saranno esposte fino al 30 settembre 2018 al museo Kunsthal di Rotterdam. La mostra riprende quasi integralmente l’insieme di oggetti per il corpo presentati alla National Gallery di Melbourne nel 2016 ed è stata organizzata per onorare i primi 25 anni di carriera  di Viktor & Rolf. I due stilisti, finiti gli studi all’Accademia di Arnhem nel 1992,  dopo uno stage presso la Maison Martin Margiela, nel 1993 presentarono la loro prima collezione. Anche se sopra ho scritto che raggiunsero una solida notorietà con la sfilata del 1998, anno in cui fecero il loro esordio nell’Alta. Moda, bisogna ricordare che avevano fin dall’inizio scelto di interpretare il mestiere di stilista alla stregua di artisti. Prendendosi dei rischi e dimostrando di avere cuore e coraggio quanto i protagonisti della moda che ammiravano, penso ai giapponesi Kawakubo e Yamamoto, a J.P. Gaultier e allo stesso Margiela, hanno operato nella couture sperimentando soluzioni visionarie di sorprendente bellezza e sempre (o quasi) perfettamente indossabili.

Diversamente da altri grandi visionari, le loro creazioni, anche quando tentavano soluzioni impossibili e provocatorie (proporzioni intenzionalmente sbagliate, gigantismi di elementi, accumulo di ornamenti, ampiezze che davano l’impressione di difficoltà nei movimenti…) trasmettevano entusiasmo, ironia e riflessioni non banali sulla moda. Si può dire che tutte le collezioni che hanno presentato, portavano i segni di un duplice impegno: preservare l’oggetto della moda in quanto fondamentale esperienza artistica ( e non come merce impreziosita da un’estetica di comodo) e rilanciare ogni volta l’idea di una moda che si mette in gioco riflettendo su se stessa e sul mondo in cui opera.

Sappiamo tutti che dai primi del novecento in poi è quasi impossibile definire con certezza il canone dell’eccellenza nell’arte e a maggior ragione nella moda. Ma il relativismo estetico al quale ci siamo abituati e che a mio avviso ci ha arricchito, se evitiamo di trasformarlo in un paradossale quanto insidioso dogma, non ci impedisce di riconoscere l’impatto prodotto da oggetti che esperiamo come capolavori.

Come si riconosce un chef-d’oeuvre nel campo della moda? Attenzione puntigliosa ai dettagli, virtuosismo tecnico, forza del progetto (del design), intensità emotiva, estensione e plasticità del concetti via via coinvolti. Viktor & Rolf hanno dimostrato di saper ben orchestrare tutte queste dimensioni dell’oggetto moda che possono dare una misura provvisoria al concetto di capolavoro come esperienza. È lecito dunque attendersi che gran parte degli abiti/opere esposti al Kunsthal siano soluzioni creative che saranno a lungo ricordate.

Mi permetto una critica ai curatori. Al posto di molte delle bambole esposte avrei preferito video di sfilate su grande schermo. So benissimo che il tema della bambola è tra i preferiti dai due stilisti olandesi che si dilettano a rivestirle con la stessa passione creativa con cui affrontano abiti reali. Conosco a sufficienza la storia della moda per comprendere quanto siano state importanti le poupee fashion ai tempi di Rose Bertin; e ancora, quando, prima del New look la moda francese si reinventò spedendo in giro per il mondo bambole couture per sancire che Parigi era ancora la capitale del lusso; persino Martin Margiela le utilizzò per alcuni dei sue provocazioni situazioniste. Ma nel coso della mostra in questione presentare una trentina di bamboline, carine carine lo ammetto, e perdio niente grandi video di performance e zero pret a porter, lo considero il colmo dell’ironia cioè qualcosa che rischia di trasmettere significati bizzarri tipo: moda per adulte/bambine un po’ deboli di mente.

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Foto 9: la mostra al Kunsthal Museum di Rotterdam

 

 

 

Moda, Arte, business

 

Credo che in chi mi sta leggendo, a questo punto, aldilà dell’interesse che spero di avergli trasmesso per la dimensione artistica degli abiti creati dai due olandesi, possa sorgere una domanda niente affatto banale. L’appassionata adesione di Viktor & Rolf a un programma di ricerca artistico come si concilia con il business? Aldilà dei proclami, un Brand della moda deve per forza passare per la porta stretta del mercato e quindi fare rientrare dalla finestra i fondamentali dell’economia. Karl Lagerfeld in Il mondo secondo Karl (Rizzoli), scrive che: “La moda va consumata subito.La cosa migliore che possa capitare a un vestito è di essere indossato. Il suo destino non è certo quello di finire in un museo”. Con queste parole, voleva dire che l’arte non era mai stata una sua priorità.

Tuttavia nessuno può negare che da Diana Vreeland in poi (mi riferisco a ciò che fece come curatrice di grandi mostre al Met di New York), le opere di grandi stilisti siano entrate nei musei di tutto il mondo dalla porta principale e sarebbe ingiusto sostenere che un Capucci o gli stessi Viktor & Rolf non siano sinceri quando nelle interviste si descrivono più o meno con le stesse parole che userebbero nella stessa situazione scultori, pittori, musicisti, registi.

Eppure l’abitudine a concepire la moda solo come merce (seppur spesso impreziosita da artigianalità e materiali costosi) induce a pensare all’esistenza di una soglia tra la creatività di un abito e quella di un’opera d’arte. Perché l’evidente commercializzazione dell’arte non viene mai presa in considerazione? Io credo che troppi intermediari culturali pensino più o meno questo: la commercializzazione dell’arte è un processo post quem, cioè interviene dopo che un opera è stata concepita; nella moda attuale invece, soprattutto per il pret a porter, le istanze del business intervengono ante quem  e condizionano le pratiche creative. Appare bizzarro che lo stretto legame tra committenti e artisti non induca quasi mai a riflessioni più accurate.

Comunque la mettiamo, la figura dello stilista-artista ha sempre generato dubbi per via della forte connessione tra moda vestimentaria e business. Da qui alla domanda con la quale ho esordito sopra, il passo è breve.

A tal riguardo, il mio pensiero sulla faccenda ricalca il senso di procedure della modazione del lusso oramai ben conosciute.

Fu Yves Saint Laurent, nei settanta del novecento, dopo che nei sessanta aveva osannato il nascente pret a porter (considerava infatti Rive Gauche, il marchio che aveva creato per il suo pret a porter, il ricettacolo più importante delle sue pulsioni creative), a dimostrare che l’Alta Moda avrebbe avuto un futuro solo se si fosse trasformata in un laboratorio sperimentale di soluzioni estetiche d’avanguardia. Più che a un magistrale artigiano, il couturier diveniva un creativo il cui approccio all’oggetto poteva definirsi artistico. La ricaduta del colpo creativo riuscito, sulle seconde linee (pret a porter) e l’effetto sfarfallio sugli accessori avrebbe, in un secondo tempo, messo i conti a posto. Oppure, in alternativa, la notorietà acquisita con abiti belli, rari se non unici, presentati con curatissime sfilate osannate dalla stampa specializzata, poteva facilmente essere trasformata in un tipo particolare di energia chiamata “immagine” da utilizzare come forza propulsiva per il profumo della maison, ovvero il prodotto ideale per permettere a tutti quelli impossibilitati a comprarsi abiti costosissimi, l’emozione di possedere (e di sentirsi addosso) un frattale del mondo di marca altrimenti a essi precluso. In pratica, dalla fine degli anni cinquanta, nessuna Maison de couture poteva avere i conti a posto senza il business del profumo (o di una borsa).

Con l’internazionalizzazione dei mercati degli anni ottanta ( caratterizzata da apertura di decine di monomarca in tutto il mondo), i problemi nascono dal fatto che i fatturati veri, utili per attirare investimenti finanziari, si fanno proprio con il pret a porter e gli accessori, al prezzo di un vertiginoso cambio di marcia aziendale. Sostenere i ritmi di collezioni commerciali globalizzate e tutto ciò che ne consegue, rappresenta un carico di lavoro creativo, gestionale e intellettuale difficile da sostenere senza deleghe operative, facilmente sottoposte a una deriva manageriale sempre più autonoma dallo stilista.

Il caso di J.P, Gaultier mi pare esemplificare bene la sindrome del designer/artista travolto da stress gestionali, finanziari, relazionali, resi ancor più odiosi dalla noia creativa, che come un’ombra emotiva accompagna la nascita di collezioni dominate da continui compromessi. Ebbene, qualche anno fa, lo stilista francese probabilmente più geniale dopo la generazione di Yves Saint Laurent, dichiarò al mondo che non avrebbe più prodotto del pret a porter perché si era accorto della terribile mancanza di energia creativa necessaria per fare quello che aveva da sempre desiderato fare, ovvero ideare e costruire abiti pregnanti. Cosa voglio dire con l’espressione abiti pregnanti? Sono gli oggetti per il corpo che rimandano ad altro rispetto la loro apparente funzione, e che abbiamo preso la buona abitudine di misurarne la valenza come se osservassimo una forma d’arte indossabile.

Ora, non posso escludere che le ragioni del gesto radicale di J.P.Gaultier, in realtà fossero più articolate. Ma di sicuro annunciavano un ripensamento del rapporto con la moda seriale, da non sottovalutare. Di fatto J.P.Gaultier faceva la scelta opposta rispetto a quella imposta dalla globalizzazione dei mercati. Decidendo di creare solo per la sua Alta Moda, mantenendo ovviamente il controllo del suo famoso profumo, suggeriva come urgente la necessità di riprendersi libertà e forza per concentrarsi sull’atto creativo, sull’oggetto per il corpo, al di fuori dai troppi calcoli aziendali.

Questa svolta verso una logica della situazione creativa più vicina alle pratiche artistiche che alle decisioni mediate del campo manageriale, fu come uno shock tra molti addetti ai lavori, tra i quali certamente dobbiamo annoverare Viktor & Rolf. La sequenza di eventi che sto per presentarvi, a me pare confermarlo.

Viktor & Rolf dopo il successo mediatico del loro esordio nell’Alta Moda ricominciarono verso il 2000 a riproporre linee di pret a porter. Se rimaneva vero che la loro libertà creativa restava fortemente ancorata alla couture, bisogna aggiungere che appariva evidente il loro tentativo di implementare negli abiti seriali i concetti e le innovazioni compatibili, maturate nell’Alta Moda.

Nel 2008, coscienti che dovevano espandersi ( e quindi ascoltare e/o seguire con maggiori attenzioni il punto di vista manageriale) optarono in un primo tempo per una collaborazione con Renzo Rosso. L’esperienza si rivelò proficua per entrambi. Di conseguenza i due stilisti olandesi cedettero il controllo del loro marchio a Only The Brave, la holding con la quale il fondatore di Diesel stava assorbendo alcuni tra i più prestigiosi Brand di avanguardia (per es: Martin Margiela)

Il gruppo italiano si sarebbe occupato primariamente della commercializzazione e dell’apertura di nuovi negozi, mentre i due stilisti potevano concentrarsi sui loro progetti che avevano come momento chiave l’insight creativo focalizzato sulle collezioni couture.

Per farla breve, seguendo questa strategia Viktor & Rolf si sbarazzavano di un sacco di problemi tipicamente aziendali (e finanziari) che i manager di Renzo Rossa sapevano gestire al meglio, mantenendo la necessaria libertà creativa che suppongo sia sempre stata assoluta per quanto riguarda le collezioni d’Alta Moda e gli eventi ad essa connessi; i cui esiti, probabilmente mediati con intelligenza, avrebbero contribuito a rinforzare il concetto di sintesi utile per il pret a porter del momento e degli accessori.

Tuttavia nel 2015, quindi a un anno di distanza dalla clamorosa decisione di J.P. Gaultier, Viktor & Rolf annunciarono il loro disimpegno dal pret a porter con queste parole (rilasciate a WWD, magazine di moda tra i più autorevoli): “Sentiamo di avere un forte bisogno di concentrarci di nuovo sulle nostre radici artistiche….il pret a porter iniziava a essere una limitazione in termini artistici. Abbandonandolo acquistiamo più tempo e più libertà”.

Mi pare di poter scorgere nell’arrocco a difesa della couture, un ulteriore indizio di appartenenza della coppia di olandesi. Sappiamo tutti quanto sia difficile e suscettibile di argomenti contraddittori oggi, ragionare su cosa sia Arte e non arte. In definitiva non siamo più così sicuri che esista qualcosa che in modo incontrovertibile  possa essere definito così. Ma certamente esistono gli artisti ovvero individui che a rischio di mettere sottosopra le nostre fragili certezze, spesso ci forzano a vedere il mondo in modo diverso.

Personalmente non ho dubbi sul fatto che Viktor & Rolf appartengano a questa famiglia di visionari capaci di embricare negli oggetti e negli eventi emozioni, cognizioni e sentimenti utili per farci sentire curiosi, partecipi, eccitati, sorpresi, disgustati… in una parola “presenti” e quindi sensibili a ciò che abbiamo davanti agli occhi.

Ho un solo dubbio che investe sia la mostra di Rotterdam che la narrazione normalmente utilizzata per raccontare l’avventura creativa dei due olandesi.

Mi pare che al Kunsthal siano presentati solo abiti couture. Io vi avrei visto bene anche qualche elemento di pret a porter. Questo mi porta a sciogliere una ambiguità.

Ritornate alla citazione sopra riportata…il pret a porter iniziava a essere una limitazione in termini artistici. “Iniziava” significa forse che c’era stato un momento in cui anche il pret a porter era arte? Oppure solo la couture oggi può permettere l’autonomia dall’utile necessaria per sperimentare e/o agire come artisti tout court?

L’incompletezza di qualsiasi discorso su cosa sia arte oppure no, ci impedisce di dare risposte definitive. Bisogna aggiungere nessun artista, nel senso del termine accettato dal senso comune, è stato immune da contaminazioni di vario tipo con la committenza. Se interpretiamo il punto di vista manageriale come dei limiti per la creatività, dobbiamo aggiungere che nessuno di questi limiti ha mai cancellato la possibilità dell’impronta artistica.

Sappiamo tutti che dal Romanticismo in poi, si è diffusa l’idea che l’arte e il senso profondo dell’opera dipendessero essenzialmente dai tumulti interiori provocati dai demoni con i quali l’artista bisticciava. Ma è solo una delle tante mitologie con le quali cerchiamo una via d’uscita all’impossibilità di far coincidere l’eterogeneità del processo di assimilazione artistica con schemi mentali linguistici e logici.

Se c’è l’artista allora i limiti possono essere come i bordi di una strada che favoriscono il tragitto e l’arrivo.

Per farla breve, al netto di conflitti e tensioni con Only The Brave di cui non sono a conoscenza, Viktor & Rolf quando lamentano l’ostacolo del pret a porter, forse vogliono semplicemente dire che, per creare una collezione secondo i loro standard hanno bisogno di tempo, di ricerche, di esperienze, di sperimentazioni.

Questa fase di incubazione nella quale lo stilista procede per tentativi ed errori, è stata stravolta dalla modazione contemporanea governata da interessi finanziari e da una immediatezza delle performance economiche che hanno favorito la moltiplicazione delle collezioni, l’annullamento delle fasi storiche del processo (da una moda semestrale siamo passati a una moda che praticamente tutti i mesi dell’anno presenta nuovi prodotti). Le implicazioni del business suggeriscono di tenersi lontani dai rischi, dagli azzardi. La moltiplicazione dei mercati richiede costanti rimaneggiamenti geoestetici (ciò che piace in Europa può avere dei problemi in Cina o nei paesi mussulmani). La Brand extension con la quale si sfrutta il capitale di notorietà di una marca creato con investimenti comunicazionali impensabili nell’epoca in cui la Couture dominava la moda, contribuisce a generare nuove tensioni tra i creativi. Probabilmente, sulla scorta di tutto ciò che ho brevemente elencato, in molti casi, gli stilisti devono trasformarsi in direttori creativi e imparare a gestire il lavoro di altri.

Sembrerebbe dunque impossibile resistere a lungo ai ritmi della moda contemporanea e nello stesso tempo lavorare nel solco del tradizionale approccio artistico, seppur allargato e reso liquido dalle avanguardie artistiche del novecento e dal post modernismo.

In questa prospettiva, le scelta operative di Viktor & Rolf, aldilà di motivazioni tipicamente individuali, possiamo interpretarla come un monito agli strateghi della moda del terzo millennio, a un maggiore rispetto per un sistema di valori del quale non conosciamo alternative altrettanto efficaci.

Kunsthal Museum di Rotterdam

 

Viktor & Rolf: Fashion Artists 25 Years

 Kunsthal Museum

27 maggio 2018 – 30 settembre 2018

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David La Chappelle- The house at the end of the world ( Victor & Rolf – spring/summer 2010)

 

 

Lamberto Cantoni
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3 Responses to "Viktor&Rolf, Fashion as Art Experience"

  1. Ann   13 Giugno 2018 at 15:30

    L’articolo mi ha interessato dal momento che conoscevo poco gli stilisti. Io trovo che si usi la parola arte con troppa disinvoltura. Un tempo esistevano le arti minori che poi erano quelle decorative. In questo contesto io Viktor e Rolf ce li metterei senz’altro. Ma se per arte intendiamo Picasso, Van Gogh eccetera eccetera allora non sono d’accordo.

    Rispondi
  2. Vincenzo   13 Giugno 2018 at 15:59

    Coco Chanel realizzava i costumi per il teatro di Jean Cocteau. Salvatore Dali collaborava con Elsa Schiapparelli. Versace faceva costumi di scena per i balletti di Roland Petit, di Béjard, di Bob Wilson.
    A me sembra da provinciali chiedersi se la moda possa essere anche arte.
    Viktor&Rolf sono la prova che la questione é superata.

    Rispondi
  3. Antonio Bramclet
    Antonio   15 Giugno 2018 at 17:02

    Da quello che si può vedere ogni giorno la moda usa l’arte continuamente. È facile immaginare il perché: la mercificazione involgarisce mentre l’arte nobilita.

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