Il Visitatore

Il Visitatore

Teatro Duse. Metti un testo di grande interesse, due attori che non hanno bisogno di presentazioni e ottieni il teatro pieno dalla platea alla seconda galleria: semplice. Pare proprio che la formula funzioni o almeno così si è verificato, alla seconda replica dell’opera di Erìc Emmanuel Schmidt de “Il visitatore”, testo vincitore di numerosi premi sin dal 1993; questo che verrà proposto fino a domenica è l’intelligente adattamento teatrale a cura di Valerio Binasco qui traduttore e regista insieme.
IlVisitatore-Haber-Boni-1-771x1158Il setting è quello di Berggasse 19, l’indirizzo viennese del padre della psicoanalisi, durante il 22 aprile 1938. A seguito dell’Anschluss (l’annessione dell’Austria al Reich) abbiamo – fra gli altri ospiti- anche la Gestapo, qui in visita. La stanza ci appare nel caos, ben diversa da come le foto dell’epoca ce la rimandano: confusione, libri un po’ sugli scaffali e altri sul pavimento, quando la Gestapo passava a “fare visita”, non faceva troppe cerimonie; ma allo stesso modo, questo “interno” riflette ciò che “all’esterno” pure accade e che ritorna anche attraverso il suono: i rumori, i canti dei soldati tedeschi, gli anfibi pesanti dei militari in marcia.
Il tutto dà la percezione di un set cinematografico un po’ astratto. Lo psicanalista ottantenne e malato che morirà da lì a un anno poiché affetto da un tumore maligno alla mandibola, è solo con la figlia Anna (Nicoletta Robello Bracciforte), “trattenuta” dalla Gestapo impersonata dal Caporal Maggiore (Alessandro Tedeschi), e sarebbe in procinto di lasciare il Paese ma qualcosa ancora lo trattiene, lui ebreo poco ebreo in quanto ateo “in sinagoga non l’ha mai visto nessuno” non vorrebbe lasciare i suoi “confratelli” o anche perché “a Vienna lascia la giovinezza”.
La scena è illuminata per tre quarti, sul lato destro c’è una parte oscurata da un drappo nero, una sorta d’inconscio figurato, sarà non quindi casuale che proprio da quel punto Boni (il Visitatore) farà la sua comparsa a dialogare con Haber (alias Freud).
Secondo le intenzioni dell’autore, lo scopo è precisamente quello di mettere a confronto due lati opposti della stessa medaglia: scienza e fede, perché come aveva riferito Alessio Boni durante l’incontro con il pubblico, l’autore “ha preso questo pretesto intelligente e ha messo insieme il massimo dell’agnostico dell’ateo che è Freud, sulla Terra, per confrontarlo col massimo della fede che è Dio, (…) Schmidt voleva che ci fosse un dialogo veramente altisonante, aristocratico, nobile fra Freud il massimo dell’aristocrazia, dell’intelletto spirito intellettuale altissimo e un dandy che allora veniva ricevuto come se fosse una prassi nobile, aristocratica e cominciasse questo dialogo”.
Viceversa, in questa produzione il regista farà scelte differenti, optando più per un “disadattato” quale visitatore, confortato nella scelta anche dal testo stesso dove, per sviare, lo spettatore si riporta come un “matto” fuggito da un manicomio; in questo modo viene accentuandosi la fragilità di Freud uomo, vecchio e malato. Ciò a cui assistiamo è anche l’incontro fra due differenti filantropi malgrado le opposte estrazioni: Terra e Cielo.
Innegabile la forza del testo, dove Freud è solo umanità, fragilità, vecchiaia ma ancora raziocinio, lo scienziato che si rivolge a quel Dio che pur rinnega, asserendo: “niente di sopra, tutto di sotto”, aggiungendo come Dio, in fondo, “è un’ipotesi” e che “Dio non è all’altezza di Dio”, dicendogli poi che “il mondo è una grande casa vuota dove uno chiama aiuto e nessuno risponde”, ma il visitatore se è lì, lo è proprio per dimostrargli che “c’è sempre qualcuno che risponde”, proprio lui: Dio. Dio è da lui Freud e non da un prete o un rabbino anche perché è un Dio che trova noioso rivelarsi a chi già lo ammira.
IlVisitatore-Haber-Boni-2-771x513Con il procedere dell’azione dialogica, assistiamo al ribaltamento di ruolo, Freud dottore dell’anima che da sempre rassicura e fornisce ogni spiegazione ai pazienti, qui è invece il malato smarrito, preoccupato per la sorte di Anna che ancora non ritorna, pieno di interrogativi e di fronte a un Dio che gli dichiara come il suo ruolo sia non di quello di agire sul mondo risolvendo le magagne create e volute dall’uomo stesso, capace di creare “il Novecento, secolo dell’uomo” con tutti quegli orrori che stanno lì avvenendo, ma vuole “che l’uomo sia libero di fare tutto” poiché lui ha fatto tutto per amore.
Il finale – una volta che le parti si sono ricomposte – vede il ritorno di Anna, esattamente come predetto dal visitatore; il caporale che desiste dalle sue minacce al fine di estorcere altro denaro a Freud il quale con uno stratagemma di sicuro umorismo, aveva saputo istillare al giovane nazista, il dubbio di poter essere anch’egli, forse, ebreo. Il sipario si chiude dopo che il Visitatore, uscito dalla finestra e incurante dei ricatti di Freud che vorrebbe che lui facesse qualche miracolo proprio sotto ai suoi occhi, e poiché non si ferma neppure dopo che questi l’ha minacciato con la pistola in mano che usa poco dopo, dicendo prevedibilmente: “l’ho mancato!”.
Un’ora e quaranta minuti senza intervallo, senza cedimenti di tensione, fra umorismo, citazioni dotte ma anche un linguaggio concreto, molto fruibile e di grande effetto. I quattro interpreti sono stati richiamati dal pubblico plaudente ben sei volte, lascio al lettore decidere se gli attori siano stati o no bravissimi e se la serata abbia avuto o meno un meritato grande successo…

Daniela Ferro

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