Recensione Legit con Jim Jefferies (nella parte di sè stesso)

Recensione Legit con Jim Jefferies (nella parte di sè stesso)

Legit è una serie diretta, caotica, divertente che punta a vivere liberamente i drammi di alcune ingiustizie della vita. Ecco la nostra recensione.

Negli ultimi mesi, per assoluta necessità di svago, ho sviluppato una certa dipendenza da serie comedy di 20 minuti a puntata. Un consumo mordi&ridi&fuggi adatto all’inguaribile propensione che nutro verso una filosofia che poco creativamente definirò: ”staccalaspinaognitanto”.

Ecco che allora le mie serate si sono riempite di zuppe alla Brooklyn 99, panini alla Big Bang Theory, hamburger doppio How I Met Your Mother, sformati di Community, frullati di (ahimé) Anger Management e beveroni di It’s Always Sunny in Philadelphia. Anger Management a parte (Charlie Sheen buttato lì dal solito Chuck Lorre nei passi dell’emule del se stesso televisivo – spero s’intuisca la ridondanza del personaggio – di Two Half And Men), il resto dei prodotti citati devo dire che no, non sono affatto male.
Uno su tutti, però, mi ha sedotto con particolare (e inaspettata) grazia: si tratta di Legit.
legit-castIdeata, prodotta e interpretata dal comico australiano Jim Jefferies (nella parte di un se stesso rivisitato), la serie statunitense risulta essere una commedia sui generis. Semplice (ma tutt’altro che banale), divertente, cinica ma sinuosa, tratteggia un vissuto che è il più comune, normale possibile attraverso personaggi di ogni giorno, ognuno portatore di valori o, meglio, fardelli che dietro l’angolo di casa possiamo ritrovare in un vicino, un conoscente, un amico.

Legit
Legit: recensione

Jim fa il comico e vive con Steve, ex venditore di enciclopedie online ora disoccupato, con problemi di alcolismo e separato dalla ex moglie (che ogni tanto porta loro figlia a fargli visita lasciando a casa qualsiasi sorta di rispetto). Con loro, troviamo il fratello di Steve, Billy, paraplegico seduttore che riesce a superare la monotonia e la tristezza di una vita ridotta ai minimi termini, vivendola in ogni sua piega. Janis, madre dei due fratelli, è invece un’accumulatrice compulsiva (di quelle che si vedono in Sepolti in casa, tanto per intenderci) che costringe il marito a vivere in una tenda in giardino.
Ogni puntata affronta delicati temi inerenti alle problematiche di ognuno dei suoi protagonisti, sbrigliando le trepidanti mascelle di chi vuole urlare forte la propria normalità a dispetto di un impedimento fisico o psicologico, togliendo il velo da discorsi tabù per vomitarli in faccia allo spettatore, tra una risata e l’altra, insieme all’amaro non più in bocca. O torcendo, infine, tematiche spinose (morte, razzismo, giustizia, come recitano alcuni titoli di episodi) fino a ridurle all’osso di situazioni circoscritte ad una sola persona, ad una singola, esemplificativa questione. Il tutto, con la delicatezza di un tratto d’aquerello vivacizzato dal tremolio della mano del regista, che con l’uso predominante della camera a mano riesce a togliere stucchevolezza alle immagini seguendo lo stile degli spettacoli dello stesso Jeffries, buttati lì come se niente fosse in maniera oltremodo sboccata, ma che trasudano sostanza da tutti i pori.
Ottima la prima stagione, discreta la seconda.

A proposito di tematiche spinose, FXX ha deciso di staccare la spina, togliendogli la vita, a questo piccolo gioiellino ancora (e forse per sempre) inedito in Italia.

Marco Leoni
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