Andrea Pizzi. La fotografia pubblicitaria fenomeno artistico

Andrea Pizzi. La fotografia pubblicitaria fenomeno artistico

La carriera professionale di Andrea Pizzi nasce con lavori di fotografia. In realtà egli non si riconosce in questo specifico ruolo in quanto preferisce lasciar intendere la fotografia come stadio finale del suo lavoro.
Dall’intervista effettuata e più ancora da una successiva conversazione emergono le sue idee e le motivazioni che caratterizzano il suo impegno lavorativo.
La moda è rappresentata per eccellenza nel suo campo, interagire con gli stilisti diviene una impresa da non sottovalutare nel momento in cui essi hanno necessità di instaurare un rapporto molto personale con i fotografi a cui commissionano il lavoro. Armani, esempio al top della categoria, non si limita ad ingaggiare un’agenzia di fiducia ma esige di parlare con chi materialmente fa la foto. La spiegazione va ricercata proprio nel fatto che i paradigmi della pubblicità classica non sempre si possono applicare nel campo della moda quando la campagna pubblicitaria può essere rappresentata con una singola foto.
Compito del fotografo diviene quindi quello di individuare l’anima presente all’interno dell’oggetto da reclamizzare ed imprimere il valore aggiunto che egli stesso è in grado di produrre. Così la rappresentazione della donna fotografata per Armani e l’altra ripresa per Versace, corrispondono ad un marchio distinguibile d’impatto che perdura nel tempo. Ancora con riferimento ad Armani, il rapporto instaurato permette a Pizzi di non aver bisogno di usare metafore della pubblicità del tipo «la donna che vorrei», ma di proporre un casting partendo già dallo stereotipo di donna-Armani. Lo stilista, a sua volta, si rivolge ad un fotografo di cui sa già il tipo di lavoro che svolge e con il quale diviene superfluo discutere sul particolare affidandosi alla sua visione artistica generale.
Secondo il parere di Andrea Pizzi, definire la fotografia pubblicitaria fenomeno artistico è piuttosto soggettivo e spesso altalenante; l’arte è parte della collettività e viene catalizzata in un individuo che a sua volta la restituisce in modo personale. L’artista è colui che riesce a cogliere questo spirito collettivo e a modellarlo in un prodotto assimilabile. Il concetto artistico sorge da ciò che si possiede già nell’intimo e che corrisponde all’interesse di più o meno persone che si riconoscono in quel fenomeno. La pubblicità restituisce arte e ne diviene mimesi.
La maggior parte della campagne cosiddette artistiche, in particolare quelle relative alla moda, sfruttano elementi tramandati dal passato, che colti dall’artista del momento creano tendenze e incidono sul percorso di altri artisti, di altri fotografi, danno origine a mostre, a studi, a estremizzazioni di vario spessore. Quindi il rapporto tra arte e campagna pubblicitaria diviene un rapporto di subordine pur consentendo all’autore di liberare il potere creativo e di sfruttare a pieno il lato artistico che lo contraddistingue.
Fondamentalmente, sempre secondo Pizzi, il pubblicitario vende un’idea e non è sufficiente che questa idea sia ciò che desiderava il cliente, nel qual caso egli stesso e il prodotto sarebbero un puro oggetto di mercificazione, un ritratto abbellito per compiacere, ma deve cercare sempre di dare di più, di cogliere quel particolare, sia esso una luce o un colore, che rispecchi il gusto, il piacere di chi crea; in questo modo di sviluppa un parallelismo tra esecutore e fruitore al fine di raggiungere il risultato e automaticamente si rinnova la dicotomia tra arte e pubblicità.
Con un’osservazione facilmente verificabile, Naomi Klein, riconosce quanto il ruolo svolto dall’azienda nel mondo dei media possa generare una posizione di vantaggio sulla concorrenza: «I consumatori non credono davvero che ci sia una grande differenza tra i prodotti. Ecco perché le aziende devono stabilire legami emotivi con i consumatori». Dunque non più comunicazione aziendale, ma l’azienda che trova il suo spazio nell’ambito della comunicazione, armonizzando strategie di marketing e risorse creative.
Così il laboratorio si presenta sul suo sito: «L’agenzia propone campagne realizzate con l’ausilio di validi contenuti visivi, concentrando il campo d’azione su progetti dove sia possibile costruire un significativo rapporto con il pubblico». Questo ha permesso di formare una piccola squadra capace di coordinare campagne internazionali senza organigrammi rigidi, uno spazio dove ciascuno porta il proprio contributo tecnico ed emotivo, dove realizzare i presupposti per una necessaria «fusione fluida» tra strategic marketing, creatività e media planning. La logica del dipartimento settario è sostituita dal confronto tra persone che intendono esprimere le proprie idee, miscelando conoscenze specifiche e punti di vista personali.
Lo Studio &rea Pizzi ha ricevuto premi e menzioni, nelle categorie graphic design, art direction e fotografia, in numerosi concorsi internazionali, quali «Lapis Award Italia», «Epica Cannes», «Best European Design & Advertising», «Archive», «Academy Award USA», ha pubblicato per Leonardo Arte il volume «Andrea Pizzi 161 pix» e ha curato, tra gli altri, campagne per: Giorgio Armani, Laura Biagiotti, Pickwick Colour Group, Revlon, Telecom Italia, Playtex Europe, TIM, Gai Mattiolo, Maria di Ripabianca, Antonio Marras, ANT, Essenza, Federazione Italiana Gioco Calcio.
Psoriasis: The itchy project e Italyville: il gusto dell’immagine. Dai «pruriti creativi» dello Studio &rea Pizzi nasce «Psoriasis: The itchy project» e Italyville, una serie di foto realizzate secondo i criteri dell’autore volte a scatenare la curiosità dello spettatore. Lo scopo non è quello di stupire ma di privilegiare l’originalità del quotidiano. In questo senso si riconosce in parte nella produzione artistica di Warhol, in parte ricorda il modus operandi di Oliviero Toscani per il quale il lavoro fotografico è orientato più alla diffusione di messaggi chiari ed inequivocabili che alla conquista del mercato. Dalle foto trapela la volontà di valorizzare vicende, fenomeni che in parte ridimensionano in qualche modo la sfrontatezza della società moderna, pervasa dal consumismo, dalla ossessionante necessità di avere per poter essere, dalla predilezione di modelli prestabiliti a cui è necessario adeguarsi per essere riconosciuti dalla altri. Sulla stessa linea si muove l’antologia di foto Italyville, commentate dall’autore stesso.

Intervista ad Andrea Pizzi

D) Quando nasce questo studio e come?
Andrea Pizzi: Inizialmente il mio lavoro era quello di fotografo. In seguito ho aperto questa agenzia, spaziando dalla fotografia in avanti. I miei sono lavori che hanno a che fare con la fotografia ma non solo.

D) Quale è stato il suo percorso professionale?
Andrea Pizzi: Sono partito come fotografo di moda, poi negli anni 1996-97 c’è stata la svolta con l’apparire del computer Macintosh che permetteva di avere ad un prezzo ragionevole una stazione grafica. Da qui nasce e si sviluppa il reparto grafico dello studio, conseguentemente aumenta il personale e si allargano le competenze.

D) Quali sono stati i risultati più eclatanti ottenuti in una campagna?
Andrea Pizzi: Il risultato più eclatante che ho riscontrato è stato con la Picwick: alcuni ragazzi si sono rivolti a me per gestire la loro campagna pubblicitaria; l’ho realizzata insieme agli studenti del liceo dove insegnavo e mi ha dato un’enorme soddisfazione. I ragazzi sono vulcani di idee e vincolati da chi aveva la preparazione adatta, hanno tirato fuori idee eccellenti, tant’é che abbiamo vinto anche un premio grazie a quella campagna. La più grande soddisfazione è stata quella di veder crescere il marchio per merito soprattutto di una campagna vincente, che nella sua semplicità (un modello completamente avvolto dal nastro Pickwick) ha catturato l’interesse delle persone, dei giovani in particolare, target del messaggio, e per finire quei ragazzi che si erano rivolti a me sono passati da un garage pieno di articoli a interagire e vendere su tutto il territorio nazionale.

D) Che target si è proposto di raggiungere?
R) Non ho target generalmente e sfortunatamente il più delle volte non lo ha neanche chi si rivolge a me, il mio compito in quel caso è anche far capire al committente che se pretendi di recapitare un messaggio indiscriminatamente a più persone possibile, in realtà non arriva a nessuno o perlomeno non coglie l’obiettivo desiderato.

D) Cosa è secondo Lei un «creativo»?
R) Un creativo in realtà è chi tramite lo studio riesce ad incanalare le proprie idee e le proprie paranoie e attraverso la conoscenza degli stilemi del passato riesce a trasformarli a suo gusto, proponendo gli stessi in maniera confacente ai tempi correnti, rendendo il prodotto più accattivante.

D) Le pubblicità creative sono sinonimo di pubblicità efficaci?
R) Non sempre. Ultimamente e parlo degli ultimi venti anni, le pubblicità efficaci sono quelle che mirano a far sentire il pubblico «intelligente», puntando su riferimenti a avvenimenti non troppo recenti (altrimenti non possono essere colti dalla massa) ma che possono subito arrivare al destinatario in quanto parte del bagaglio culturale acquisito tramite i mezzi di informazione. In questi casi facendo leva sulla capacità della gente di distinguersi è andato diminuendo l’interesse per la pubblicità creativa che non consente confronto.

D) A suo parere, la creatività è una dote innata o la si apprende attraverso adeguati studi tecnici?
R) Lo studio, come in ogni altro ramo della conoscenza, è fondamentale. Sembra scontato dire che alcuni hanno qualcosa in più, ma senza preparazione tecnica, fondamenti di conoscenza acquisiti con l’esperienza di chi ci ha preceduto, ogni forma artistica nel nostro ramo si banalizza. Ho insegnato per molti anni ed ho potuto constare quanto l’applicazione poteva a volte sovrastare il genio.

D) Quali critiche muoveresti nei confronti della pubblicità?
R) Con un paradosso potrei dire che la pubblicità equivale in realtà a un inganno, vendere idee quando in mano non si ha altro che un pugno di mosche, può essere delirante. Logicamente per chi è dell’ambiente è più facile esserne disilluso rispetto a chi ne è solamente un fruitore, ma essere all’interno aiuta a comprendere quanto siano approfonditi gli studi effettuati per vincolare un soggetto a un marchio a una moda a un’auto o a uno status symbol. Quindi ciò che era negativo diviene prodotto, industria e soprattutto lavoro.

D) Ha usato la frase «fusione fluida» relativamente al suo progetto. Parliamone.
R) La dicotomia tra arte e pubblicità fa venire in mente il movimento molecolare, all’interno del quale le particelle minime si attraggono e contestualmente si respingono, coese fra loro fino a creare un fluido vagamente illusorio pur rimanendo a loro volta ben separate. Questo intendo per fusione fluida, coesistere in un unico intento senza annullarsi o sopraffarsi.

Andrea Pizzi

LaCinque