Carolina Venosi e la sua Rome is More: raccontare la Città Eterna tra dialetto e romanità

Carolina Venosi e la sua Rome is More: raccontare la Città Eterna tra dialetto e romanità

MONDO – Tra un Daje, un Mejo me sento e un Eccallà, Carolina Venosi spiega agli stranieri, ma anche a noi italiani, cosa voglia dire essere romani e vivere nella Capitale. Perché Roma è cuore, storia, architettura e tanto altro. Semplicemente perché Rome is More.

Lasciare un contratto a tempo indeterminato per spiegare agli stranieri cosa vuol dire Se lallero? È quello cha ha fatto Bionda con la Smart, all’anagrafe Carolina Venosi, architetta romana – ma che non fa l’architetta – mente creativa e founder di Rome is More. Pagina sui social aperta nell’ottobre 2019, su cui traduce in inglese i più famosi detti romani e che oggi conta 349.000 follower su Instagram e 177.000 su Facebook.

Una guida internazionale per «cavarsela a Roma senza sbrocca’», diventata poi anche un libro, Veni Vidi Daje, pubblicato da Rizzoli, e da un anno anche uno store nel quartiere Testaccio. Ma Rome is More non è solo umorismo, è molto di più: è una vera e propria dichiarazione d’amore, che arriva dritta al cuore di chi, per un motivo o per un altro, si sente fortemente legato alla Città Eterna, perché la vive tutti i giorni o perché la sogna da sempre, seppur da lontano.

Carolina, fino a qualche anno fa lavoravi come responsabile marketing in un’azienda di abbigliamento a Roma. Avevi una carriera avviata, che hai deciso di abbandonare per dedicarti unicamente al progetto Rome is More. Raccontaci cosa ti ha dato la spinta e il coraggio di lasciare un percorso sicuro per investire su un progetto, nato e cresciuto sui social network. E, quando hai capito che potevi farne effettivamente un lavoro?

In realtà sono arrivata a questa scelta in maniera molto graduale, anche perché sono sempre stata molto focalizzata sulla carriera e quindi sul lavorare per gli altri. Piano piano, con l’avviarsi del progetto, mi sono resa conto però che poteva funzionare. Già la proposta del libro mi aveva dato maggiore consapevolezza. Quando mi ha contattata Mondadori per la prima volta pensavo fosse una mail di spam perché mi hanno contattata proprio all’inizio; sono stati bravissimi scouter perché la pagina era aperta solo da due mesi.

Il team che ha fatto la ricerca ha avuto la lungimiranza di comprendere il potenziale del progetto. Ecco, devo dire che quello mi ha dato una base un po’ più solida per iniziare a ragionare su un discorso di brand a tutti gli effetti. Rome is More è nata perché io volevo un mio portfolio. Doveva essere una dimostrazione delle mie skills come creativa, un curriculum parlante diciamo.

Non sono mai stata un’amante dello sfoggio verbale, preferisco siano le cose che faccio a parlare per me. Subito dopo ho deciso di avviare una piccola produzione di prodotto con le frasi di Rome is More, innanzitutto perché mi veniva richiesto e poi anche io volevo vedere che effetto avrebbe avuto sul pubblico. Tieni conto che ai tempi lavoravo ancora in azienda, facevo queste cose nei weekend e la notte.

Vedendo che l’e-commerce andava, il libro prendeva forma, la pagina cresceva, ho capito che questa idea mi stava appassionando moltissimo e che non volevo dedicarle solo i ritagli di tempo. Quindi ho iniziato a chiedere il part time, per poi decidere di iniziare a fare solo quello e costruire un piccolo team. Certo, mi sono licenziata quattro mesi prima della pandemia… un tempismo perfetto, ma non mi pento!

Quest’anno di pandemia è stato più un anno di crescita e scoperta delle potenzialità di Rome is More. Ho scelto poi di concretizzare il tutto con l’apertura di un ufficio nel quartiere Testaccio, che è un po’ più grande di quello che doveva essere, così ho creato anche un piccolo corner di vendita, su cui non speravo di fare grandi numeri, pensavo di riuscire a rientrare dalle spese dell’affitto, ma non ci contavo così tanto. Invece sta andando molto bene, soprattutto tenendo conto che in materia di gestione di un punto vendita non avevo esperienza. E invece devo dire è stata una bella sorpresa.

Quello che è partito inizialmente come un gioco, ora è una vera e propria piccola realtà imprenditoriale che attualmente impiega, oltre a te, altre tre persone; come è stato passare da un lavoro in azienda all’interno di un team con cui condividere piani d’azione, strategie e soluzioni a un lavoro in solitaria, la cui responsabilità era tutta sulle tue spalle? Hai avuto momenti di difficoltà?

Li ho avuti e li ho tuttora. Io sto imparando sulla mia pelle cosa significhi essere imprenditori, soprattutto imprenditori in Italia. Poi c’è da dire che tendo a essere maniaca del controllo e perfezionista; sono molto autocritica, tendo a perdonarmi poco gli errori e ad aspettarmi molto da me stessa, anche su cose in cui non posso pretendere molto perché è qualcosa di totalmente nuovo per me.

All’inizio le prime difficoltà sono state quelle burocratiche; all’apertura dell’ufficio e del negozio eravamo in tre: una per il negozio, una per il back office che mi affiancava per la gestione dei venditori, la produzione, i contenuti social, la community, il customer service, ordini e-commerce… insomma, tante cose da gestire. Poi, difficoltà anche di natura tecnica: trovare programmi gestionali, capire come funziona la cassa, lo scontrino elettronico, la trasmissione all’Agenzia delle Entrate… senza dimenticare il fatto che ho aperto il negozio il 13 dicembre 2020, ancora in piena pandemia.

C’è stata questa aggravante che non mi ha consentito per tutto questo anno di esercizio di capire se i numeri che sto facendo siano più o meno buoni perché non ho uno storico, non so prima del Covid com’era. La più grossa difficoltà è stata anche la gestione delle risorse umane, che è un aspetto che io avevo totalmente sottovalutato e invece è molto importante, molto delicato. È stato ed è tuttora un aspetto del business in cui sto cercando sempre più di migliorarmi.

Gestivo dei team quando ero in azienda, ma è diverso quando sei tu il datore di lavoro. Io voglio creare un ambiente molto orizzontale, non ho l’ambizione di voler creare una gerarchia o un ambiente autoritario, però questo presuppone che anche dall’altra parte ci sia una maturità professionale e personale tale da gestire questo rapporto orizzontale. Il ruolo c’è, il fatto che io non lo faccia presente ogni giorno non vuol dire che non ci sia. Questo è l’equilibrio difficile da mantenere.

Ci sto lavorando, è una cosa a cui tengo, però non voglio cambiare modalità di gestione. Preferisco cercare di far capire alle persone che lavorano con me che per mantenere un ambiente più sano e amichevole, giovane e dinamico, dall’altra parte serve una grossa maturità, serve capire e tenere a mente che i ruoli ci sono ed è giusto che ci siano. Tra tutte le difficoltà che hanno segnato le prime fasi di questa avventura, devo dire che all’inizio ho avuto anche un grosso aiuto da parte della Banca del Fucino, che voglio ringraziare.

Avevo un business plan per poter prendere il negozio non avendo in quel momento i fondi necessari, che non volevo chiedere alla mia famiglia, per cui ho chiesto alla banca e devo dire che ho trovato una grande apertura e disponibilità che non mi aspettavo. Senza questo appoggio io non avrei potuto fare parte di quello che ho fatto. Per me è stata la base per iniziare a costruire.

A proposito dello store, considerando la tipologia di prodotti in vendita, immagino non sia così strano che un cliente entri in negozio chiedendo: “Ma non è che hai una tazza “Me coj…i?”. Ricordi qualche episodio che ti ha divertito particolarmente?

Ogni tanto mi faccio io qualche vendita in negozio, mi piace vedere come reagiscono le persone. È bellissimo vedere la gente che entra in negozio e inizia a ridere. E questa cosa, se ci pensi, non accade da nessuna parte. Questa è la cosa che più mi fa ridere in effetti, quando mi chiedono una tazza “Me cojoni”, un portachiavi “Sti cazzi”. La gente si imbarazza e non me lo dice, me lo indica. Io li obbligo! Anche alle ragazze addette alla vendita, durante la formazione dico sempre: “Scherzateci su questa cosa, perché è insolita”. Da noi non è una parolaccia Sti cazzi, è un modo di vivere, una filosofia di vita.

Qualche giorno fa è venuta un’americana di New York che segue Rome is More. Era in vacanza a Roma e visto che ci segue su Instagram, sapeva dello store ed è voluta venire in negozio a prendere dei regali. È impazzita là dentro! Insieme ad altri amici suoi amanti di Roma, ha un fan club romano, si vedono una volta al mese per parlare della nostra città ed è venuta a comprare dei regali proprio per loro. È davvero divertente vedere come reagisce il cliente. Perché la cosa bella è che è un prodotto che va oltre la cosa fisica, è qualcosa che ti va a smuovere un aspetto molto emotivo.

La pagina per come la vediamo adesso si è arricchita nel corso del tempo, non è più solo un dizionario ma un vero e proprio omaggio alla tua città: tra un quiz “Sapevatelo” e una foto che ritrae scorci mozzafiato, racconti la Roma più autentica a romani e non. È esattamente come l’avevi immaginata quando hai dato vita a questo progetto o c’è qualcosa che hai cambiato in corso d’opera?

In realtà già dall’inizio ci tenevo che non fosse solo umorismo, ma che ci fosse anche una parte divulgativa sulla storia di Roma, sulle curiosità che riguardano la parte artistica e monumentale della città, imprescindibile perché Roma è storia, è architettura e un sacco di altre cose. Mi faceva piacere integrare anche questa parte perché penso che la maniera più semplice per apprendere e conoscere cose nuove, oltre che per stimolare la curiosità, sia proprio attraverso l’ironia, attraverso un modo di raccontare le cose in maniera diversa rispetto a come siamo abituati a fare a scuola e a leggere sui libri.

La didascalia in romanesco pensi sia un modo per toccare maggiormente le corde emotive di chi legge?

Il dialetto rende tutto più umano secondo me, un po’ come per la serie di Zerocalcare su cui si sta facendo qualche polemica. Il doppiaggio in dizione un po’ mi allontana dalla storia, dalla parte emotiva e io credo che Zerocalcare non avrebbe potuto fare altro che farla in romano. Quella stessa serie in italiano in dizione avrebbe perso tantissimo. Sarebbe stato impossibile avere la stessa resa emozionale in un altro modo se non in romanesco. Anche perché ci sono già dei precedenti, come Romanzo Criminale o Gomorra…

Il dialetto è una cosa totalmente italiana; se vai in Inghilterra, in America, ci sono gli slang, ci sono gli accenti, ma non esiste un’altra lingua – e il dialetto è a tutti gli effetti un’altra lingua –  che venga identificata in un luogo. Questa cosa più che attaccarla, cercherei di difenderla perché è una cosa solo nostra che bisogna valorizzare e accentuare.

Il modo di comunicare di noi italiani è caratterizzato anche da una forte gestualità, difficilmente traducibile a parole, tanto più se in dialetto. In questo, a mio avviso, sei stata bravissima perché leggendo ogni tuo post, anche un “diversamente romano” credo riesca a dare la giusta intonazione e immaginare il gesto che accompagna quella determinata espressione. Cosa mi dici, invece, degli stranieri? Secondo te ne colgono in pieno il significato?

La difficoltà dello straniero è legata al fatto che gli manca un pezzo importante della comprensione di quel testo, che è il contesto. Probabilmente non riesce a capire fino in fondo la natura dell’espressione, ci può stare. Da internet è più difficile, da un post su Instagram non arriva appieno questa comprensione. Però ci lavoriamo; quando vengono in negozio e glielo spieghiamo dal vivo poi riescono a capire.

A giudicare dalle vendite o dai like sui social, qual è l’espressione che amano maggiormente?

Le cose più volgari sono quelle che vanno di più, insieme al Daje, che è internazionale, è diventata un’espressione veramente comune. Con il Daje riusciamo a raggiungere tutti.

Da cosa trai maggiore ispirazione quando traduci una nuova espressione?

Dalle cose più disparate… per strada, al supermercato, in macchina mentre ascolto la radio. Mi segno le cose e poi le sviluppiamo. La cosa bella del dialetto è questa: lo respiri per le strade, lo vivi tra le persone, sotto questo aspetto, gli stimoli sono continui…

Il tuo libro Veni, Vidi, Daje si apre con “Se lallero”, espressione a cui sei particolarmente legata perché ripetuta spesso da tuo nonno. Ma qual è quella che secondo te meglio rappresenta lo spirito della romanità?

Credo sia Mortacci Tua, quella forse più violenta. Letteralmente è un’espressione molto brutta, stai maledicendo i morti di una persona, la vai ad attaccare nella sua parte più delicata. Però per come la utilizziamo noi può essere anche un Te vojo bene. Se non vedo un’amica da tanto le dico “Mortacci tua, ‘ndo sei finita?”. Questa espressione riflette appieno il carattere del romano, che è di cuore e di pancia nel dirti sia le cose belle che quelle brutte.

Avete appena lanciato un nuovo prodotto, Il Romano in Fiera, un’edizione limitata prodotta da Dal Negro. Com’è nata questa idea?

Questo è il primo prodotto che si distacca completamente da quello che abbiamo fatto uscire finora, rispetto a quello che il nostro pubblico è abituato a vedere nel nostro store. Il soggetto è sempre Roma, ma in una maniera un po’ diversa. La selezione e la scelta dell’illustratore, Valerio Paolucci, anche lui abituato ad illustrare Roma in un certo modo, e di Dal Negro, per la qualità e la storicità del marchio, sono state scelte per valorizzare questo prodotto.

Fatto con qualcun altro avrebbe perso in termini di qualità; sicuramente sarebbe stato un investimento più tranquillo, però avrebbe perso valore. Io cerco sempre di inseguire la qualità nei lavori che faccio perché è anche quello che io voglio quando acquisto, quando scelgo un prodotto o un brand. È un’attenzione che mi piace vedere negli altri e cerco di portarla anche sui nostri prodotti, e Il Romano in Fiera è proprio il punto più alto di questa filosofia.

All’interno del gioco c’è un leaflet illustrato e scritto, dove ogni carta ha la spiegazione del perché sia stata scelta, con una ministoriella divertente attorno al soggetto. Quindi è stato anche un lavoro di scrittura impegnativo. Per scrivere questo foglio illustrativo ci ho messo due mesi. Però volevo farlo perché anche se non conosci il gioco, se non conosci Roma, questa componente scritta aiuta ad entrare nell’atmosfera. E nel concept per cui è stato creato.

L’abbiamo legato a un’attività di un’associazione romana, Sanità di Frontiera, che lavora principalmente nelle periferie contro l’abbandono scolastico da parte dei giovani. Parte del ricavato verrà donato a questa associazione per il progetto che abbiamo chiamato RiCrea. Dove aiutiamo questi ragazzi a riavvicinarsi alla scuola facendo attività extracurriculari nel campo dell’arte, della musica, del teatro e del cinema. Insomma, intorno a questo prodotto c’è davvero tanto di più che la carta. Ci sono molto affezionata e mi sta dando grandi soddisfazioni.

Ultima domanda, ma non per ordine di importanza! Chi segue Rome is More, lunedì ha un appuntamento fisso con l’oroscopo settimanale – e diciamolo, Paolo Fox ormai ve spiccia casa, per restare in tema – rigorosamente in romanesco. Senza scomodare le stelle, cosa speri ci sia nel futuro tuo e di Rome is More?

L’oroscopo è un’altra di quelle cose che ci diverte un sacco. Ci becchiamo gli insulti di tutti in base a come è andato il segno quella settimana. C’è questo studio approfondito degli oroscopi degli altri, in realtà, per poi romanzarli in romanesco.

Per quanto riguarda il mio futuro, io mi auguro di rimanere sempre fedele ai miei principi e a me stessa nella gestione di questa impresa. Senza farmi condizionare dagli incontri sbagliati che si possono fare durante la vita lavorativa. Spero di rimanere fedele al mio concetto di azienda e di lavoro. Sono molto legata alle persone che lavorano con me e credo che insieme potremo fare qualsiasi cosa perché c’è una bella sinergia.

Spero di riuscire a mantenere questa atmosfera. Pensa che attualmente io sono quella con lo stipendio più basso in azienda. Io sto investendo nel mio progetto, ma anche le altre lo stanno facendo a modo loro, perché è una start up, Rome is More è un progetto nuovo; rispetto a un’azienda più grande con una storia solida alle spalle, può anche far paura lavorare in un contesto come il nostro. Ci devi credere, devi appassionarti all’idea.

Devi credere in chi la gestisce, quindi in me. Per cui ho preferito, e continuerò a farlo finché non avremo una stabilità economica diversa. Privarmi io delle risorse ma riuscire a far stare serene le persone che lavorano con me. Questa per me è una cosa fondamentale. Essendo stata dipendente ho interiorizzato anche questo punto di vista negli anni in cui ho lavorato per altri. Quindi so come ci si sente ad essere quella necessaria ma non indispensabile.

Sono le persone a fare l’azienda. Senza le mie ragazze non potrei fare un terzo delle cose che faccio. Rome is More non sarebbe cresciuta così tanto e se siamo arrivate a fare tutto questo è merito di tutte quelle che lavorano a questo progetto. Per cui per me è impensabile non pensare a loro.

 

Tutte le foto provengono dalla pagina Instagram ufficiale di Rome is More

 

 

Marianna De Mare

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