Dolce & Gabbana, la moda e i cigni neri

Dolce & Gabbana, la moda e i cigni neri

MILANO – A distanza di mesi, la crisi comunicazionale subita dal prestigioso brand italiano Dolce & Gabbana, continua ad essere uno dei casi più emblematici dell’era social.

Partiamo con una fiction.

Immaginiamo di essere nel Sancta Sanctorum di due famosi stilisti, Cip & Ciop, magnificamente allestito nello stile “barocco ubriaco” del quale i due, se non proprio gli inventori sono magistrali interpreti, in una delle riunioni plenipotenziarie di valenza strategica più importanti dell’anno. Infatti, il tema del ristretto incontro è come valorizzare al massimo un super evento che il loro brand intende organizzare nel cuore del mercato più importante per la crescita dei fatturati. Tuttavia, malgrado siano presenti i maggiori responsabili delle funzioni aziendali congruenti al tema, ciascuno di essi sa bene che l’ultima parola sulle strategie è da sempre una prerogativa che i due stilisti riservano solo a se stessi. Il problema è che, il più delle volte, anche le prime lo sono, ovvero il significato pragmatico di quel genere di riunioni è confermare in forma giubilatoria le decisioni della coppia, a meno che non ci si voglia immolare sull’altare traballante della propria professionalità. Tutti sanno che i due stilisti hanno un ego smisurato, l’insulto facile e corrosivo che, forse in buonafede, pensano sia una sorta di appello alla chiarezza, alla conversazione sburocratizzata, come in una grande famiglia; dulcis in fundo, i due detestano essere contraddetti.

L’investimento di risorse che l’azienda ha intenzione di investire nel super evento, non è esagerato definirlo eccezionale. Una sfilata da milioni di euro, migliaia di invitati, decine di vip provenienti da mezzo mondo, è prevista la presenza tutti i giornalisti e blogger di moda più importanti, campagne pubblicitarie pronte a devastare il mercato, vogliamo stupire e sedurre – dicono, alternandosi, i due creativi – abbiamo ancora ottimi margini di crescita, quella gente ci ama, alziamo l’asticella, vogliamo che le altre marche del lusso concorrenti abbiano una specie di shock anafilattico, vedrete, vedrete, per un po’ saranno allergiche agli eventi. La prossima sfilata che organizzeranno verrà percepita come il botto sgonfio di un petardo artigianale, perché faremo un tale casino che la soglia emotiva necessaria per esistere per chi fa moda verrà riparametrata e chi sta sotto non esisterà mentre noi saremo quella soglia che divide i grandi dai molluschi. Vi piace la nostra strategia? Siete pronti ad agire?

Usciamo un attimo dal decorso della fiction. Potrebbe risultare interessante ora, se riusciste a farvi un’idea della reazione dei manager apicali presenti alla riunione. Riesce difficile poterli pensare impegnati a elaborare qualcosa di critico, del tipo, ma se siamo così forti perché prendere tanti rischi?  Se alziamo troppo l’asticella, poi non saremo noi i primi a doverla saltare rischiando di abbatterla? Quanti abiti in più dovremo vendere per far ritornare in cassa i soldi investiti? Tutte domande o perplessità che nessuno avrà l’ardire di sottoporre ai due stilisti. Meglio associarsi al giubilo che tutti enfatizzano con sorrisi plastificati. Interpretare il ruolo dello iettatore in situazioni come questa, produrrà solo la temporanea emarginazione del capitano coraggioso, che rischia la pioggia, fa a pezzi il gelo, e per salvare un sogno rischia la pelle (1). Fan’culo i capitani coraggiosi, la pelle è la mia, se proprio lo volete, giocatevi la vostra! questo pensano i manager della fiction, alla quale tra l’altro torniamo subito a bomba, per ascoltare ancora la fantastica coppia di creativi nel preciso momento in cui presentano la loro “mossa del cavallo” (2) sulla scacchiera del mercato principe della loro marca. Per preparare un tappeto di emozioni a noi favorevoli – dicono Cip & Ciop – lanceremo tre super spot che testimonieranno il nostro amore per quella gente. Li bombarderemo a ripetizione con i nostri messaggi. Prima dell’evento, vogliamo che la nostra megasfilata venga vissuta come un dono e un nostro riconoscimento a tutti. Vogliamo che tutti in quel paese, proprio tutti, anche i gatti, sappiano quanto siamo bravi. E poi, parliamoci chiaro…Non penserete che investiamo una pazzia nello show così perché siamo dei fessi? Grazie al fall-out comunicativo che comincierà con lo spot che vedrete, contiamo di riportare a casa ben più delle risorse che stiamo investendo…Ma ora guardiamolo insieme…Nel silenzio si spengono le luci, sullo schermo appare una ragazza esotica che tenta di mangiare con le bacchette asiatiche un cannolo extralarge e long long, non ci riesce, appare in sovrimpressione la scritta Forse è troppo grosso per te. I manager apicali ridono, i più untuosi, avendo cura di essere sentiti dai due creativi, si lasciano sfuggire a ripetizione commenti del tipo geniale, forte, ma si facciamoli ridere. L’unico che commenta con una smorfia è Johnny Scorreggia, per la prima volta presente nel Sancta Sanctorum, solo perché è l’incaricato del monitoraggio sui social asiatici che interferiscono col mercato on line e, dicono i sapientoni, influenzano le scelte di tutti. Dei penosissimi anni trascorsi nel grande paese asiatico Johnny Scorreggia ha imparato ben poco della gente del luogo. Ma di una cosa è assolutamente certo: i giovani benestanti sui quali puntano le marche del lusso sono molto patriottici… e poi, cazzo, non ridono quasi mai! Pensa subito. Non hanno la nostra ironia, soprattutto quando il senso allude a qualcosa che ha a che fare col sesso. In pubblico sono molto più pudici degli occidentali. sono permalosi, molto reattivi quando si tratta di difendere l’identità nazionale. La smorfia di Johnny Scorreggia è la derivata della risposta neuronale che in pochi attimi i lobi pre frontali gli presenteranno anche nella forma di un pensiero esattamente contrario al sentimento improntato all’entusiasmo dei colleghi. Lo spot sarà una catastrofe, questo gli dice il pensiero. Ma come condividerlo con i presenti? È evidente che i due stilisti hanno già deciso tutto. E per giunta il loro stile egocentrico, cioè organizzare riunioni il cui senso è “guardate come siamo bravi” esclude un contraddittorio razionale. Bisognerebbe avere il coraggio di sopportare le prevedibilissime drammatizzazioni necessarie per togliere dalla faccia dei presenti, l’impronta delle risate isteriche che sono pur sempre un segno di accorata adesione allo spirito dell’azienda. Per togliersi di dosso l’invisibilità che lo caratterizza, Johnny dovrebbe dire ad alta voce che quello appena visto è uno spot di merda, un messaggio che porterà l’azienda alla rovina. Ma chi sono io per mettere in discussione le decisioni di due persone geniali? Pensa, tra sé e sé. Si perché non può non ammirare l’incredibile e duraturo successo dei due creativi, tra l’altro dipinti dal giornalistese come degli abilissimi strateghi della comunicazione nella moda. In definitiva lo spot familiarizza con lo stile provocante e impertinente che i due hanno eletto a vangelo aziendale. Ha sempre funzionato. Perché stavolta no? Gli chiederebbero. E allora dovrebbe lanciarsi a disquisire sulla mentalità asiatica, sul perché i regimi autoritari soffochino dentro le persone quella specie di bandiera della libertà concreta che sono l’ironia, il riso, le cose dette con leggerezza per provocare una reazione…Johnny dovrebbe parlare a lungo, in modo articolato, presentando anche le proprie esperienze. Ma nel Sancta Sanctorum è prevista solo l’enunciazione breve, sintetica, brillante, possibilmente di conferma alle decisioni già de facto operative.

Johnny Scorreggia quindi non dirà una parola.

Il brand dei due stilisti, per colpa dello spot, andrà incontro a una inaspettata catastrofe comunicazionale. L’imprevista e veloce reazione del social travolgerà in un attimo le significazioni attese da Cip & Ciop. La sottovalutazione dello stato di crisi e la prevedibile reazione umorale di Ciop, il più nervoso tra i due, unitamente ai comportamenti passivi dei manager descritti nella fiction, produrrà un cigno nero d’immagine con forti propensioni ad intaccare il fondo semantico e finanziario su cui si regge la struttura del brand (3).

 

La fiction che vi ho presentato ha valore d’apologo. Ovvero è una storiella creata per suggerirvi una riflessione su questioni che oltre a rilievi tecnici, costringe a prendere sul serio modalità organizzative che rientrano nella dimensione tipicamente umana dei comportamenti auspicabili in vista dell’efficacia di un team. Con alcune note etiche, aggiungerei.

Per esempio, se ci pensate un po’ ovvero fate dire al testo cose che non esplicita direttamente ma presuppone, non dovrebbe sfuggirvi che il brand della fiction viene descritto come robusto nei fatturati ma fragile di fronte a ciò che abbiamo chiamato “cigni neri comunicazionali”.

Perché? Possiamo presupporre infatti che:

  1. Il brand non abbia una struttura preposta a prevenire i rischi (non ha un risk management)
  2. Di conseguenza non può velocemente allestire strategie di contenimento adeguate al brusco aumento di scala che i problemi di comunicazione subiscono nella sfide imposte dalla globalizzazione (e dalle tecnologie che ne hanno accompagnato il dominio)
  3. Le decisioni sono troppo accentrate nelle mani di persone certamente creative ma troppo esposte o coinvolte nel progetto, senza una reale conoscenza degli elementi in gioco nel contesto allargato in cui il progetto diventa azione concreta, attivando le reazioni che sarebbe logico prevedere
  4. Dal punto 3 discende che il brand è condizionato dal carisma dei protagonisti; carisma che in particolari situazioni può evolvere nell’eccesso di autorità che a sua volta intimidisce il pensiero critico e inibisce una reale partecipazione dei collaboratori.

Nel finale della fiction vi ho detto che lo spot si è rivelato una catastrofe. Prendete sul serio il significato di catastrofe: in questo contesto pensatelo come qualcosa che mette a repentaglio la vita del brand. Ora, provate a immaginare cosa può essere successo dentro all’azienda. Non essendo attrezzata a prevenire rischi, si può congetturare che la notizia della fallimentare reazione del pubblico allo spot, sia stata vissuta come uno shock paralizzante (d’altronde il problema dell’accentramento delle decisioni è proprio lo stato di incertezza in cui versano i soggetti che potrebbero essere utili ma che invece essendo abituati ad attendere ordini restano intellettualmente passivi). A questo punto l’uscita dallo shock può facilmente debordare in risposte umorali, rabbiose, di carattere locale, cioè scollegate dall’aspetto centrale del rischio.

In sintesi: si perde tempo, e si getta benzina sul fuoco. Comprenderete quindi come l’escalation divenga inevitabile e così può accadere che un banale spot possa arrivare a intaccare pericolosamente il capitale di fiducia e prestigio accumulato nel tempo dal brand.

Vi ho anche detto che la fiction ha un valore d’apologo. Significa che in qualche modo ci induce a riflettere su alcune conseguenze del cambiamento di scenario imposto dalla globalizzazione e dall’emersione del media più potente e destabilizzante creato dall’uomo cioè internet.

Se fossi uno dei lettori della fiction, la penserei più o meno così:

La globalizzazione corrisponde di fatto a un aumento del rischio di disordine e complessità. Di conseguenza le possibilità di subire crisi comunicazionali sono all’ordine del giorno.

Le modalità organizzative del passato non garantiscono il ripristino dell’equilibrio.

Occorre immaginare un nuovo livello operativo che coinvolge dimensioni tecniche e consapevolezza etica.

Ancora, direi che mi colpisce il ruolo esorbitante del fattore Tempo, assolutamente decisivo nei fenomeni di coda cioè quando si entra nel vortice dell’evento imprevedibile che abbiamo chiamato cigno nero comunicazionale.

Le fiction o le storie, lo sappiamo bene, piacciono a tutti. In un certo senso ci permettono di osservare con gli occhi dell’immaginazione, aspetti della realtà altrimenti assorbiti dalla disordinata ricchezza percettiva e cognitiva dei fatti tout court.

Sappiamo anche che alcune storie possono avere la proprietà di assomigliare a fatti realmente accaduti.

Per esempio, io credo che a molti di voi l’avventura di Cip & Ciop abbia fatto venire in mente una recente disavventura capitata a Dolce & Gabbana, brand tra i più autorevoli della nostra moda.

A tal riguardo, vorrei precisare che se pur esistono connessioni tra gli eventi provocati e subiti dalle due coppie di creativi, sono connessioni dell’ordine della caricatura. La funzione di una caricatura è raggiungere la verità su qualcosa, attraverso l’accentuazione di alcuni tratti. Deformando determinati aspetti del soggetto si fanno emergere le qualità che rappresentano con maggiore nitidezza e forza alcune sue caratteristiche particolari.

Concordo con i molti di voi che hanno avuto l’illuminazione che sotto sotto, parlassi dei due prestigiosi stilisti italiani, ai quali vanno le mie scuse per l’evidente caricatura proposta. È chiaro che il Sancta Sanctorum non esiste, e nemmeno conosco le modalità relazionali interne alla loro azienda.

Quindi, vi propongo ora di fare una brusca deviazione che ci farà planare sull’ordine dei fatti accaduti a Dolce & Gabbana, per allontanarli dalla straniante ombra di Cip & Ciop.

Collochiamoci verso la fine del mese di novembre 2018.

Sui social cinesi appaiono tre spot del brand Dolce & Gabbana, intitolati “Eating with Chopstick”.

Nei video, la modella cinese Zou Ye, viene invitata da una voce fuori campo a mangiare usando le bacchette, tre tipici piatti italiani: pizza, cannolo gigante, spaghetti al pomodoro.

Ovviamente incontra delle difficoltà e finisce col bisticciare con l’esotico cibo. Sembra divertita e al tempo stesso imbranata.

Nello spot del cannolone gigante, la voce fuori campo fa un commento che nell’era #MeToo annuncia prevedibili reazioni isteriche: “ È troppo grande per te?”. 2

 

 

Dobbiamo pensare che, malgrado l’evidente ironia, con questi spot, i responsabili dell’azienda italiana volessero rendere omaggio alla cultura cinese, per alzare l’interesse nei dintorni dell’attesa sfilata evento all’Expo Center di Pudong a Shangai.

L’immediata e durissima reazione dei millennials cinesi alla presa in giro della loro tradizione, si può dire abbia colto di sorpresa i titolari del brand italiano. Forse pensavano che il raggiante abitino rosso indossato dalla modella e l’effetto “look aumentato” prodotto da dorati bijou extralarge, catturasse l’attenzione dei giovani cinesi, attenuando il senso di ridicolo dell’azione di portare alla bocca con innocenti bacchette trance di pizza troppo grandi, superdotati cannoloni e spaghetti. Non è andata così. Perché? Vi propongo una mia congettura: la musichetta cretina e la voce maschile fuori campo, impegnata a far sembrare ancora più ridicoli i gesti della modella, hanno bruscamente deviato il senso emozionale del messaggio, polarizzandolo sullo scontro tra un brand straniero irriguardoso, arrogante e un grande paese asiatico dileggiato. A questo punto posso immaginare che il contesto emozionale dello spot sia imploso. La fragilissima superficie ironica del messaggio è stata di colpo bucata da sentimenti poco conformi alla modazione. Al posto della risatina attesa, guarda com’è buffa la cinesina che bisticcia con il cannolone, e quindi del sorriso che marca il piacere che proviamo quando vediamo situazioni comiche, è arrivata di colpo una ondata di indignazione che si è subito trasformata in rabbia, per via dell’infernale dispositivo a matrice esponenziale del web.

Io credo che la “rabbia” sia una delle poche passioni inassimilabili o quasi dalle narrazioni utilizzate dalla moda per eccitare i suoi pubblici. Comporta rischi di escalation emotiva il cui esito è imprevedibile.

Il filosofo Seneca, nel suo libro De ira ( lo scrive nel I sec. dopo Cristo), descrive la rabbia come una forma di follia di breve durata, nella quale ci comportiamo come animali selvaggi. Pensava inoltre, probabilmente seguendo Aristotele, che le cause di questa brusca involuzione, fossero il sentirsi sminuiti o insultati. Inoltre, aggiunge, la rabbia ci appare particolarmente motivata quando gli insulti arrivano da qualcuno che a nostro avviso non si può permettere di offenderci (4).

Aggiungerei a mia volta alle parole del filosofo, la constatazione che la rabbia è particolarmente contagiosa e si distribuisce in tutte le direzioni cioè può coinvolgere anche chi l’ha provocata (vedremo che questo rilievo avrà una importanza decisiva sugli sviluppi del caso D & G).

Fermiamoci un attimo per pensare a cosa potrebbero dirci Stefano Dolce e Domenico Gabbana se fossero qui con noi. Ve la metto giù così: Cari studenti, noi sapevamo benissimo che il mercato cinese valeva per la nostra azienda 400 milioni di euro. Il nostro obiettivo non era certo fare incazzare i nostri migliori clienti. Però dovete considerare che oltre al fatturato esiste anche il nostro stile, negli abiti e nella comunicazione. Il nostro stile ci ha portato ad essere quello che siamo cioè uno dei punti di forza del Made in Italy nel mondo. Come potremmo definire il nostro modo di confrontarci con il mondo? C’è una parola che a nostro avviso può definirlo meglio di altre: provocazione, nel senso di sfida alle banalità, alla noia, alle cose date per scontate. È chiaro che è uno stile che contempla il rischio di trasgredire, di collocarsi fuori dal coro. Ma cosa saremmo senza il nostro stile? Esisterebbe un brand che fattura 1 miliardo e diverse centinaia di milioni di euro senza il nostro stile? Se siamo arrivati così in alto non significa forse che funziona? Ora forse capite il perché quando per la prima volta abbiamo visto lo spot in oggetto eravamo convinti della sua sostanziale conformità. Oggi sappiamo di aver fatto un errore, ma eravamo in buonafede cioè come sempre desideravamo presentarci per quello che siamo ovvero un brand che non ha paura di dare una scossa alle rigidità che bloccano la fantasia,la creatività, il gusto di sentirsi diversi…

 

Devo dire, che se veramente i due stilisti, per non so quale miracolo fossero atterrati in quest’aula, ci avessero proposto il ragionamento sopra riportato, non avrei dubbi nel definirlo ragionevole e persino vero.

Ma al tempo stesso classificherei quel concetto di verità come non utile e paradossalmente troppo intellettualistica. Perché? Se faccio della provocazione il tratto dominante del mio stile (di comunicazione) devo essere pronto a prevederne gli effetti sistemici: se non riesco o posso calcolarne la valenza (perché per esempio non conosco il contesto culturale nel quale dovrà interagire il mio messaggio) è meglio lasciar perdere la provocazione che piace a me, anche se la media dei successi del passato parla a suo favore.

In questi casi fidarsi delle medie ( cioè ragionare guardando il passato) è una idiozia. Sono i fenomeni di coda a entrare pericolosamente in gioco. Ma i fenomeni di coda possiedono un altissimo tasso di casualità. In altre parole non sono prevedibili ( ecco perché generano i cigni neri comunicazionali). Ma allora cosa si deve fare? Per esempio si può optare applicando una sorta di “principio di precauzione” da utilizzare per i processi comunicativi estremi, ovvero riducendo la quota di “provocazione” del messaggio.

Facciamo degli esempi. Provate a togliere la voce fuori campo dal nostro spot e vedrete che la presunta accusa di sessismo non ha ragione di emergere. Visto che sono in ballo, aggiungo una ulteriore riflessione. Provate a immaginare che, senza la voce fuori campo ovviamente, provate a immaginare dicevo questa scena finale: la bellissima cinesina, dopo aver bisticciato un po’ con il cibo italiano, ripone delicatamente le sue bacchette di fianco al piatto, afferra elegantemente il cannolone, o la pizza, e prendendolo con due dita se lo mangia. Non trovate che in questa forma anche l’accusa di razzismo fatta dai millennials nazional/cinesi non abbia ragione di esistere? In definitiva cosa “dice” la modella con quel gesto? Qualche volta occorre sospendere la tradizione (le bacchette delicatamente, riposte), per risolvere empiricamente il problema del cannolone (è vero: con gli spaghetti la vedo un po’ dura, ma perché gli spot devono essere proprio tre? Forse bastano due). A questo punto la modella trasmette sia reverenza nei confronti della sua cultura e sia l’idea di essere intelligente in senso pratico. La provocazione c’è ma fa ridere e non incazzare. Missione compiuta.

Qualcuno di voi, maliziosamente, potrebbe sostenere che come ricordavamo sopra, nell’era #MeToo far vedere una modella che si infila in bocca un cannolone, corra il rischio di far rientrare dalla finestra il sessismo al quale pensavamo di aver sbarrato la porta. Vorrei però farvi notare che non c’è nessuna voce maschile che dà ordini; il gesto è l’espressione di una libera scelta della modella. E poi trovo veramente ridotto male chi mai dovesse immaginare simili contenuti a partire da un efficace quanto innocuo gesto che appartiene alle soluzioni euristiche di tutti i popoli ( chi non si è mai trovato a mangiare temporaneamente con le mani qualcosa alzi la mano?).

Ritorniamo alle questioni serie.

Gli esempi di re writing dello spot, forse un po’ cretini, che vi ho esposto, servivano a farvi capire qualcosa che reputo importante.

Le emozioni, quelle che sentiamo o subiamo, non sono le etichette verbali che le classificano secondo il registro di razionalità linguistica che abbiamo eletto ad equivalente generale dello scambio di pensieri. Le emozioni sono più dense e fluide delle parole. Le emozioni si muovono, cambiano in intensità e qualità.

Per esempio, l’ira familiarizza con la rabbia, con la stizza o il furore. Ma noi sappiamo che ci inducono a reazioni molto diverse.

Se è vero che le narrazioni preferite dalla moda sono quelle che mobilitano le emozioni dei fruitori, allora chi si trova all’inizio del processo cioè chi le crea, dovrebbe avere su di esse un maggiore controllo di chi eventualmente le subisce.

Io credo che Dolce & Gabbana abbiano perso il controllo sul grado di provocazione compatibile con il contesto nel quale dovevano agire.

Come sia possibile che un brand così esposto con strategie basate sulla provocazione (non era certo la prima volta che le pubblicità del brand avevano suscitato accese polemiche, ma, a mia memoria mai così devastanti), abbia sbagliato in modo così clamoroso, è la domanda che più o meno tutti si sono posti.

Di passaggio, vi ricordo che l’idea della fiction come apologo, mi è venuta proprio a partire da questa domanda. Ho immaginato che non ci fosse stata una analisi critica preliminare dello spot, sia per l’eccessivo accentramento decisionale e sia per la configurazione organizzativa sbagliata della parte di azienda preposta alla comunicazione globale.

Inoltre ciò che ha tradito il brand è la scarsa presa in considerazione di come funzionino i social nel web. L’aspetto più divertente di tutta la faccenda è che D & G è stato travolto dal modo più naturale per trasmettere le informazioni. Prima dell’invenzione della carta stampata e dei mass media, le persone si scambiavano le informazioni parlando tra loro. Erano cioè sia i destinatari che i mittenti delle notizie che circolavano. Il web ha ripristinato questo modo naturale di scambiarsi le notizie. Con una differenza fondamentale: l’enorme velocità di propagazione della notizia con la conseguente impossibilità di fermare il contagio (prima che si estingua per moto proprio).

Infatti, dopo sole 24 ore, lo spot era stato rimosso dai social. Ma nonostante questo intervento, l’andata di rabbiosa indignazione non ha potuto che crescere.

Facciamo un altro intermezzo. Se i fatti si fossero conclusi con la rimozione dello spot dalla rete, immediatamente seguito da una semplice dichiarazione di scuse per il disagio inflitto agli ipersensibili difensori della tradizione cinese, probabilmente il caso D & G avrebbe seguito il decorso di tante “crisi comunicazionali” che alla fine, non hanno comportato nessun costo visibile per i brand coinvolti.

In altre parole, molti brand della moda, incorrono in sottovalutazioni degli effetti sistemici negativi che arrivano a cascata dall’interazione con il web. L’ho già detto: il webnauta ha rispolverato l’antico “passaparola” che però oggi viaggia alla velocità di una astronave spaziale di Star Trek.

Bisogna anche considerare gli effetti della duplice funzione che più o meno consapevolmente interpreta. Il webnauta dei social è destinatario ma anche mittente, rovesciando così la gerarchia implicita venuta a cristallizzarsi nell’era della carta stampata e della Tv, nella quale, si fa per dire, poche testate e pochi esperti tenevano sotto controllo la situazione problematica (insomma, alla fine ti potevi sempre accordare, per esempio comprando pagine pubblicitarie).

Quindi, con il web, le bolle comunicazionali negative, sono molto più frequenti rispetto il passato. Le aziende-moda hanno imparato in fretta ad interagire con questa nuova dimensione del rischio. Se oggi tutti o quasi i grandi brand esibiscono come trofei protocolli etici, non lo fanno certo perché i loro manager sono diventati improvvisamente più buoni. Credo che si debba attribuire in parte al web questa assunzione di responsabilità.

Per farla breve: i brand della moda hanno capito il nuovo orizzonte del rischio che comporta lo sfruttamento del web e quasi sempre riescono a rimediare alle loro cazzate.

Al punto che, per molti sapientoni, in certi casi non risulta ben chiaro se una determinata bolla carica di energiche polemiche pronta ad esplodere, sia veramente casuale oppure calcolata pro domo sua da un brand. Potremmo definire strategia del negativo questo modo di incamerare una paradossale notorietà. Grosso modo la faccenda funziona così: scelgo deliberatamente una forma/contenuto polarizzanti, appena l’ondata isterica dei social prende quota, chiedo scusa a tutti, ricordando quanto sono buono e bravo con il protocollo etico ben esibito nel mio sito; prometto che sarò attentissimo e intransigente sull’etica, faccio un po’ di merchandising umanitario, e….incasso un premio di notorietà che non avrei mai raggiunto (in tempi così brevi) con una campagna buoni sentimenti. A questo punto gli isterici webnauti saranno soddisfatti e forse ne avrò tirato molti dalla mia parte (compreranno miei prodotti), i miei clienti risulteranno immunizzati dalle polemiche. Fine (provvisoria) del game.

Come vi dicevo esistono numerosi casi che potrebbero rientrare nelle cornici strategiche che vi ho velocemente delineato. Il maglione Blackface di Gucci, la modella battezzata dai social come un elogio dell’anoressia di una campagna di Patrizia Pepe (2011), cominciata con critiche pesantissime contro il brand e finita in sbaciucchiamenti tra la stilista e organizzazioni specifiche…Se smanettate sul vostro computer, in internet troverete facilmente altri esempi.

Non escludo che qualcuno in D & G, relativamente allo spot in oggetto, pensasse a una concatenazione di eventi simili a quanto vi ho descritto e quindi sottovalutasse i rischi di coda (per esempio l’orgoglio nazionalistico dei cinesi, molto diverso dal gusto tutto italiano di provare un inconfessabile piacere nell’assistere e/o partecipare al dileggio dell’italianità), dimenticandosi di una regola aura che mio nonno, eroico imprenditore agricolo, conosceva benissimo e mi ricordava in forma di adagio (così Erasmo da Rotterdam chiamava motti e proverbi popolari che discendevano dalla cultura dei classici latini): non gettare mai benzina sul fuoco, se vuoi spegnerlo.

 

Ma ora, non prima di porvi le mie scuse per la digressione, torniamo alla questione che ci appassiona, chiedendoci:

Cosa ha trasformato la “crisi comunicazionale” in cui era precipitato Eating with Chopstick, in un un cigno nero?

Probabilmente molti di voi lo sapranno già, ma è utile ricordarlo alla lettera.

Leggete cosa riporta l’immagine che vi presento.

 Dolce e gabbana

 

L’account di Instagram Diet Prada, certamente non posta un commento amichevole. Ma il suo punto di vista non è poi così inusuale. Lo sappiamo tutti che la pubblicità vive di stereotipi, così come spesso gli stilisti cercano ispirazioni studiando e quindi citando costumi storici. Lo fanno praticamente tutti i creativi. Molti però trovano tutto questo risibile. E allora? Non era poi così difficile dare una risposta pacata all’abile istigatrice. E invece Stefano Gabbana indugia a ripetizione nell’errore “conversazionale”, affidandosi a offensivi stereotipi…i cinesi mangiano i cani, il loro paese è una merda (merda scritta con gli emoticon, ma nei social questa precauzione da educanda non commuove nessuno).

Cosa passasse per la testa del grande creativo imprenditore non possiamo saperlo; possiamo però fare delle congetture, anche se, ve lo confesso, quando lessi la frase, “D’ora in poi dirò in tutte le interviste che faccio che la Cina è un paese di merda, e che puoi stare tranquilla, viviamo benissimo senza di te”, mi sono chiesto se non fosse il caso di prevedere l’etilotest o l’antidoping, per chi in una situazione di crisi si assume l’onere della presa di parola che significa, ve lo ricordo, compiere una vera e propria azione.

Stavo esagerando ovviamente. Stefano Gabbana era probabilmente troppo confuso e scioccato dalla crisi comunicazionale che stava velocemente montando, e quindi non si è accorto che rispondeva con rabbia alla rabbia. L’escalation passionale che porta inevitabilmente al cigno nero era completata. E così è stato.

È chiaro che Stefano Gabbana stava conversando, si fa per dire, con una singola modella e non con il popolo cinese. Ma in una situazione di crisi, sui social, queste distinzioni razionali non sono contemplate. È chiaro che le risate ostentate ah!ah,ah! o gli insulti tipo mafiosa cinese arrogante, in un contesto discorsivo privato ci evocano poco più di un banale litigio. Non sui social nei quali bastano una dozzina di influencers specializzati nell’esasperare i contenuti per scatenare l’inferno; non in una situazione di crisi, non se ti chiami Stefano Gabbana, fatturi un miliardo di euro e da te dipende la vita di migliaia di persone.

Si perché le conseguenze della rabbia tribale (mi riferisco alle logiche tribali che dominano nei social) posso essere devastanti. Provate a pensarci su: quando vi arrabbiate sul serio cosa vorreste fare del vostro antagonista? Liquidarlo con bacino riparatore? Invitarlo ad analizzare razionalmente la situazione? Lo invitate a cena e gli fate pagare il conto? Non ci credo. Penso che proviate la mostruosa fantasia di farlo a pezzi (o di fare a pezzi qualcosa). Ora, come individui abbiamo imparato a proteggerci da questa increspatura della sensibilità e da persone civili e timorate di Dio, la releghiamo tra le sceneggiature immaginarie nella stanza della mente dove raccogliamo le cose che non devono mai realizzarsi (per chi non possiede questa stanza interiore abbiamo creato solide strutture che si chiamano manicomio e carcere). Ma sappiamo tutti che il solo fatto di trovarci in gruppo (anche se solo virtuale), cambia la situazione. Bene, sembra che il web sia un grande catalizzatore di emozioni esasperate, estreme. Dal momento che sono solo chiacchiere e cinguettii, potendoci tra l’altro dissimulare usando pseudonimi, succede che ci abbandoniamo all’ebrezza delle emozioni del momento. Con estrema leggerezza ci trasformiamo in creduloni (fake news), siamo propensi a esagerare, godiamo nel partecipare alle mille forme che la crudeltà, il cinismo, la noncuranza verso “l’altro” indubbiamente ci procurano.

Voi sapete che è per questo che molte persone vivono con ansia il dominio dei social nella vostra vita.

Allora quale sarà stata la conseguenza della rabbia nel caso D & G? Ve lo dico in termini brutali. La logica tribale che discende dall’effetto sistemico dei social ha preso subito la strada della distruzione (simbolica, ma fino a un certo punto) della marca. Forse comprenderete ora meglio la reazione di Stefano Gabbana. Certo non per giustificarlo. Ma per capire quale era divenuta la posta in gioco della faccenda. Ebbene non ho remore a ribadire che la posta in gioco era la sopravvivenza del brand. Spero che a questo punto vi sia chiaro cosa significa cigno nero e il livello di rischio che comporta.

Comunque l’elenco di ciò che a tutti sono apparsi veri e propri errori di gestione della crisi, non è finito. Infatti, sembra che D & G abbiano voluto con struggente generosità consegnarci un caso veramente esemplare di idiozia comunicazionale, negando l’evidenza, nascondendosi dietro al presunto hackeraggio del proprio sito, effettuato evidentemente da sconosciuti che avevano l’intenzione di danneggiarli fomentando le polemiche.

dolce e gabbana

Come era prevedibile attendersi, nessuno ha creduto agli hackeraggi. Gli internauti rabbiosi hanno trovato nuova linfa per perseverare nell’opera di distruzione del brand (vi ricordo che in internet potete trovare dei video nei quali ragazzi cinesi incendiano magliette D & G, ci saltano sopra, le imbrattano etc.), mentre ai più moderati non restava che scuotere la testa e pur a malincuore forse, allinearsi ai primi con i like e commenti.

Una crisi comunicazionale di queste dimensioni, anche se può sembrarvi un’assurdità, la dovete pensare come se fosse una crisi ecologica grave. Chi vi si trova coinvolto ha in realtà pochissime opzioni. La migliore è dire la verità, tutta, subito. L’errore più grande è raccontare balle.

Questa nota raccomandazione o massima, decidete pure voi l’etichetta con la quale memorizzarla, nata dall’analisi di casi ben più gravi e letali, ben conosciuta da chi segue le euristiche legate alle strategie messe in campo dalle aziende coinvolte in eventi di grande impatto negativo sull’opinione pubblica, è stata finalmente raccolta dai nostri due stilisti dopo 4 giorni di tremenda esposizione mediatica.

Con un laconico videocomunicato hanno chiesto scusa alle istituzioni e ai ragazzi cinesi, ammettendo di aver imparato molto da questa esperienza.

dolce e gabbana

 

Devo tuttavia aggiungere che 4 giorni di esposizione sono troppi. In questi casi il fattore tempo è decisivo. Probabilmente, dopo il videocomunicato, il fuoco che alimentava la rabbia dei giovani cinesi si è attenuato. Ma la sua intensità prolungata troppo a lungo, ha quasi certamente depositato risentimento e sfiducia. Sentimenti meno letali della rabbia, ma più durevoli.

Tra l’altro la lunga esposizione comporta a cascata l’arrivo di problemi causati dall’accanimento analitico a cui viene sottoposto il testo in oggetto. Vi faccio un solo esempio. Yu Wei Wei, corrispondente dalla Cina per il Corriere della Sera, un paio di giorni dopo lo scatenamento dell’orda social, scrisse un articolo nel quale pontificava che la modella scelta da D & G per la campagna, avendo sottili occhi a mandorla e zigomi alti, anche se per noi occidentali risulta carina, per i cinesi era brutta. Probabilmente il giornalista voleva mettere a fuoco i rischi connessi all’uso disinvolto di stereotipi nella pubblicità. Ma, nel contesto polemico che ho brevemente descritto, il senso implicito dell’articolo finiva con trasmettere anche un messaggio ambiguo del tipo, D & G offendono la Cina mostrando una modella brutta…  o qualcosa del genere. Ebbene, qualunque cosa volesse dirci Yu Wei Wei, senza la prolungata esposizione ai social, quell’articolo non sarebbe mai stato scritto in quel modo cioè alla ricerca del classico ago nel pagliaio. Chiaramente, se le mie presupposizioni sono plausibili, l’accanimento analitico aggiunge all’indignazione, il dileggio che segue come un’ombra i segni dell’incompetenza, aggiungendo nuovi elementi negativi alla assordante sinfonia emotiva che il brand deve subire.

A distanza di mesi, il caso che vi ho riportato, fa emergere con maggiore evidenza rispetto a quei concitati giorni, tutte le esagerazioni nate a partire da uno spot senz’altro irriguardoso e troppo ironico per il pubblico cinese. Ma da questo a considerarlo, al di là di ogni ragionevole dubbio, uno spot razzista o sessista o dissacrante la tradizione di quel paese, ce ne passa.

Come mai non si è levata una sola voce, non per difenderlo, ma per così dire, rimetterlo con i piedi per terra? Possibile che tanti giovani che hanno studiato in Occidente, vestono alla moda come noi se non meglio, possibile che nemmeno uno di loro abbia tentato di dare la giusta proporzione ai fatti?

Come hanno fatto pochi rabbiosi commenti ad accecare milioni di internauti?

Io credo sia entrata in azione una derivata di ciò che il filosofo Karl Popper chiamava “regola di minoranza” (ovviamente il grande filosofo pensava a come si sviluppava la scienza e non certo ai mutamenti delle mode, a internet o agli spot). Come funziona questa regola? Ve la propongo attraverso le autorevoli parole di Nassim Nicholas Taleb: “A una minoranza intransigente (di un certo tipo) che si metta in gioco (o meglio ancora, che ci metta l’anima) basterà raggiungere una soglia irrisoria, diciamo il tre o quattro per cento della popolazione totale, per costringere quest’ultima ad adeguarsi alle preferenze di una minoranza” (5).

Nassim Nicholas Taleb, con i ragionamenti contenuti nel libro citato, mi ha convinto che un piccolo numero di persone intolleranti e virtuose, disposte a mettersi in gioco, possono, in un contesto dominato dalla complessità, governare, condizionare, guidare tutte le altre.

Se ci pensare bene il movimento #MeToo è cominciato proprio così e oggi lo ritroviamo così potente da arrivare persino a censurare i libri che leggevamo a scuola quasi come i classici, rimuovere quadri capolavoro dai musei, farci vergognare delle innocue espressioni colorite che usavamo con leggerezza quando si parlava tra amici di “oggetti immaginari” chiaramente attratti dal vortice della pulsione sessuale.

Il funzionamento dei social è paragonabile alle dinamiche dei sistemi complessi cioè ai dispositivi ad alta entropia, nei quali non è importante chi è veramente il partecipante, bensì è decisivo il tipo di interazione che lo dissemina e annoda ad altri elementi. Una delle proprietà emergenti dei sistemi complessi è l’imprevedibilità dei comportamenti che discendono dalle interazioni. Quindi le singole parti non contano quasi nulla, perché è l’effetto macroscopico del “tutto” a creare problemi. Queste proprietà emergenti non devono essere necessariamente complicate. La regola di minoranza è un esempio di proprietà emergente molto interessante per capire come mai pochi post possono mettere in crisi il prestigio, la reputazione di un potente brand.

Per concludere, vorrei ritornare brevemente da dove ero partito, dalla fiction/apologo. Spero abbiate capito che i problemi di quel brand senza nome, prima di materializzarsi nella campagna fallimentare, si presentavano nella forma di modalità discutibili se non proprio sbagliate, nell’uso di risorse umane. Insomma, manager che hanno paura di dire quello che pensano, non rispettano il loro mandato. Certo, il successo, il carisma e il pessimo carattere di Cip & Ciop contribuiscono a renderli un po’ sonnambuli. Lo comprendiamo bene. Ma Johnny Scorreggia, l’unico che ha l’esperienza e le informazioni utili per l’esercizio del pensiero critico sullo spot, non può essere completamente assolto. Cosa gli manca? Cosa manca a quel brand? Mancano le virtù morali che chiamiamo coraggio, condivisione, prudenza, responsabilità, temperanza (nel senso di equilibrio). Sono queste virtù morali che ci aprono a ciò che gli antichi chiamavano saggezza (equilibrio nelle decisioni, capacità di trarre dall’esperienza il consiglio utile). La saggezza può renderci immuni dai cigni neri comunicazionali? No! Però può suggerirci la strada verso il sapere utile per ridurre il rischio di essere travolti. Può rendere il nostro brand antifragile ( nel senso dato al concetto da Nassim Nicholas Taleb). E l’avvento del web con i suoi sofisticatissimo algoritmi, non ha affatto cancellato il bisogno di saggezza. Al contrario, io credo lo abbia rafforzato.

Cosa dire infine, di Dolce & Gabbana? Il trauma subito dal brand non toglie nulla al mio rispetto per creativi e imprenditori che non hanno mai avuto paura di metterci la faccia. Dal mio punto di vista, come avrete intuito, qualcosa nell’azienda dovrebbe cambiare (soprattutto in relazione ai social). Probabilmente l’assorbimento del cigno nero subito richiederà del tempo e comporterà delle perdite. Provate a riflettere sui presunti costi che ha subito l’azienda. Spot ritirato, i Vip hanno annullato la loro adesione alla mega sfilata, le Istituzioni Cinesi idem, sfilata annullata, i prodotti D/G rimossi da tutti i siti e-commerce cinesi, capi di abbigliamento calpestati e incendiati trasmessi da video virali a tutte le tribù di internet…Non credo che le ombre negative sul brand si dissiperanno in fretta.

Ma personalmente non suggerirei mai ai due fantastici creativi di perdere la propensione al rischio che li ha sempre contraddistinti, migliorati e irrobustiti. La loro creatività è fuori discussione.  Il loro stile caratterizzato da provocazioni e da robuste note di  irriguardosità, ci ha donato spesso collezioni di sublime bellezza. Semplicemente raccomanderei maggiore saggezza quando affrontano situazioni comunicazionali caratterizzate da una insopprimibile incertezza, situazioni che possono mettere a repentaglio la sopravvivenza del brand.

2

Addenda:

 

Il testo che presento ai lettori di Mywhere è il resoconto di una lezione tenuta presso il corso ITS McLuhan a Bologna. Il tema da sviluppare era centrato sull’analisi delle conseguenze di casi caratterizzati da distonia percettiva nei processi comunicativi. A tal riguardo il caso D&G è un’eccellente modello situazionale che mette in luce le illusioni percettive cognitive fatali anche per aziende blasonate. Più in generale, possiamo facilmente renderci conto che la gente quando esprime giudizi relativi a situazioni complesse quasi sempre si sbaglia, e non di poco. Le nostre percezioni personali in questi casi ci ingannano. Intuizione, introspezione, credenze non solo non ci aiutano bensì sono corresponsabili di cecità su cause ed effetti che contribuiscono a rendere esponenziali le conseguenze negative di uno una crisi comunicazionale (ma che diventa ipso facto anche economica e finanziaria) i cui esiti possono essere fatali a individui, aziende e istituzioni. 

 

Per assecondare il mio piacere di completezza didattica aggiungo le note euristiche implicite alla lezione, scritte in modo dogmatico.

 a) È impossibile arginare o avere il controllo delle conversazioni dei social, quindi è improbabile si possa prevenire ogni possibilità di crisi. Non sappiamo bene il perché e il come, ma nei social le fake news hanno maggiori probabilità di successo. Ecco perché le aziende più evolute preparano e simulano Piani di comunicazione di crisi, con l’obiettivo più o meno esplicito di prevenire i livelli di rischio eccessivamente pericolosi per l’immagine del brand che risultano in qualche modo calcolabili, ma che hanno una funzione primaria di allenamento del team agli stress che inevitabilmente comporta la crisi di comunicazione.

 b) La globalizzazione ha reso necessari atti comunicativi che attraversano velocemente contesti culturali molto diversi tra loro. I fraintendimenti interculturali sono molto più numerosi dell’eco che ci arriva dalla comunicazione standard (quella mediata dal giornalismo professionale). L’orizzonte dei rischi collegati agli atti comunicativi necessari per la modazione si è allargato in misura esponenziale. Quali sono i rischi che dobbiamo e/o possiamo correre? Tutti gli altri sono da evitare (lì comincia il territorio dei cigni neri).

 c) Quali sono le tattiche preventive che diminuiscono i rischi (di crisi)? Eccovi un breve elenco di virtuosità comunicazionali:

– Ascoltare i propri pubblici (soprattutto le cose che non vanno)

– Monitoraggio permanente di news, community, mutamenti di opinione, grandi temi che appassionano trasversalmente il pubblico del web. La rete rende facile per soggetti squilibrati praticare l’esercizio che li fa più godere, senza alcun rischio di sanzioni, cioè dire cazzate, con la speranza che funzionino come un petardo gettato in una polveriera. Occorrono dunque tattiche anti-cazzata alternative alla banale “strategia del silenzio” (la più praticata dai brand, un po’ per arroganza e molto per paura). Il silenzio spesso diviene complice dell’aumento di scala del problema ed è un segno di non esistenza della marca. Comunque vada esistere è meglio di non-esistere.

– Delineare in anticipo le procedure che sincronizzano i costributi delle risorse professionali che collaborano per arginare lo stato di crisi ( le procedure riducono lo shock iniziale e il caos interno all’azienda che ne consegue).

– Avere un piano di attivazione degli Stakeholder per sfruttare la loro influenza sui pubblici coinvolti nello stato di crisi. Se ben coordinati possono deviare le probabili negatività. Qualche volta assorbirle e dissiparle. La loro opinione diviene cruciale con l’aumento di intensità dello stato di crisi.

– Decidere chi sarà la Spoken Person cioè colui che rappresenterà l’azienda.

d) Con i social è importante dedicare inoltre una estrema attenzione alla dimensione emozionale degli atti comunicativi. Le emozioni non stanno ferme, si muovono, aumentano o diminuiscono la loro intensità…

L’attività dei social quando raggiunge una certa temperatura di ebollizione, fa emergere una semantica semplice del tipo bianco/nero, vero/falso, bello/brutto etc. Qualunque sia la direzione che prenda, al suo interno emergono sempre configurazioni estreme che risultano spesso dei concentrati di odio, irrazionalità, disumanità, opinioni al limite della salute mentale etc. Tuttavia non bisogna mai dimenticare che a livello olistico i social pretendono dai brand della moda comportamenti che sono esattamente l’opposto di quelli che animano i singoli elementi che incendiano una community. Di conseguenza:

  • di fronte a problemi (veri e pseudo) manifestare sincera preoccupazione (stringendo i denti potete anche simularla, chi volete che se ne accorga?)
  • Occorre mettere in campo empatia, sincerità, umanità (anche in questo caso a volte dovrete mentire a voi stessi; non rispondere a tono alle stronzate presentate come fossero il problema dell’umanità, è un esercizio utile, dopo un po’ vi scoprirete molto più empatici di quanto potevate immaginare e di fronte a problemi veri non tentennerete)
  • Non cessare mai di dare spiegazioni (o di tentare di farlo)…mantenete il contatto con chi esibisce problemi in qualche modo identificabili come tali. Non rispondete mai alle idiozie dei ritardati mentali. Mantenere il contatto con i primi trasforma il silenzio con i secondi in un intelligente meta messaggio agli internauti più numerosi e pericolosi: quelli che aspettano di vedere che piega prendono le cose per poi con i like farle decollare verso i guai.
  • Assumersi sempre le proprie responsabilità( metterci la faccia, sempre)

 e) Dotarsi di esperti nella comunicazione interculturale, possibilmente prima di subire un evento critico ( l’esperto interculturale sarà utile anche per diffondere in azienda una sensibilità verso la complessità dei pubblici impliciti nel progetto di globalizzazione del mercato)

 f) Attenzione estrema al fattore Tempo. Il tempo del web non è quello della famosa nonna in carriola, non è quello che scandisce le attività del vostro papà, e non è nemmeno il vostro tempo ordinario. Il tempo del web adora il caos.

 2

 

 

Note al testo:

 

1) Orrenda canzone scritta da Claudio Baglioni, cantata qualche anno fa insieme a Gianni Morandi, in un memorabile concerto per adulti invecchiati male. Dicono fosse ispirata al celebre libro di R, Kipling, “Captain Courageous” del 1897. I manager della fiction non meritano di essere associati al celebre romanzo. E nemmeno al grande Spencer Tracy, interprete principale del film hollywoodiano tratto dal libro, diretto da Victor Fleming (1937). La parafrasi della canzonetta dunque, mi è parsa più consona al carattere dei personaggi della mia fiction.

2) Si tratta di una citazione “ignorante” dell’omonimo romanzo di Camilleri (1999), nel quale avviene un rovesciamento di ruoli: il testimone diviene l’accusato. Uso la parola “ignorante” nel senso attribuitagli dai frequentatori dei bar sport, quando per esempio parlano di gol ignoranti (quelli nati da azioni sgangherate o da tiracci improvvisati, nei quali dopo la moviola il tifoso crede di scorgervi una certa illogica bellezza). Nella fiction in oggetto, si allude a due rovesciamenti: a un repentino cambio di marcia della marca su un mercato decisivo per la crescita; e agli stilisti che divenendo strateghi si mettono praticamente al posto del loro management.

3) Uso l’espressione Cigno nero, nel senso che gli conferisce Nassim Nicholas Taleb nel suo famoso e a mio avviso fondamentale testo “Il cigno nero”, pubblicato in Italia da il Saggiatore nel 2008. Si tratta di un evento improbabile, isolato, con effetti negativi o positivi esponenziali, di grande impatto. La sua casualità ci prende alla sprovvista e il più delle volte ci travolge. Visto a posteriori ci da spesso l’illusione di comprendere ciò che lo ha causato. In realtà quasi sempre ce ne accorgiamo solo quando il fenomeno estremo positivo o negativo è già avvenuto. Le presunte cause a posteriori, secondo Taleb, non contano nulla cioè hanno un valore euristico praticamente inutile. Io penso però che se sopravviviamo, l’esperienza di un Cigno Nero possa ritornarci utile. Forse il significato più alto o più profondo della saggezza così come la pensavano gli antichi filosofi, è il residuo interiore di questi eventi estremi che possono portarci alla rovina.

4) Potete trovare una brillante descrizione della “rabbia” nel libro di Tiffany Watt Smith intitolato “Atlante delle emozioni”, Gedi ed., 2018.

5) Mi spiace tanto per il lettore esigente ma questa citazione di Nassim Nicholas Taleb che ho tratto da una scheda redatta nel corso della lettura dei sui libri, non sono in grado di precisarla con esattezza ( titolo del libro, numero di pagina etc). Sono però sicuro che se leggerete la triologia “Incerto” non potrete non incontrarla.

Lamberto Cantoni
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48 Responses to "Dolce & Gabbana, la moda e i cigni neri"

  1. mau   20 Maggio 2019 at 18:26

    Devi dire che i due stilisti mi avevano deluso, anzi, fatto arrabbiare anche se non sono cinese. Però l’articolo mi ha fatto nascere il dubbio che tutto fosse esagerato, fuori misura, anche le critiche. E’ veramente strano che proprio nessuno sia intervenuto a loro favore. Ma allora la reputazione serve a qualcosa oppure no? Come si fa a condannare un brand per un solo messaggio discutibile? Anche i social non ci fanno una gran figura.

    Rispondi
    • Antonio Bramclet
      Antonio   20 Maggio 2019 at 21:53

      È successo tutto troppo in fretta. Ci mancava solo lo scontro nazionalista Italia contro Cina. Non credo che i post a favore servissero tanto. Francamente a me lo spot è apparso banale. Malgrado la modella c’è la mettesse tutta non faceva ridere. Come fa capire l’autore dell’articolo era meglio se Dolce e Gabbana avessero chiesto scusa subito senza tergiversare. Se avessero preso questa decisione diciamo dopo al massimo un giorno, non sarebbe successo niente di gravissimo. Invece che fare la figura degli arroganti, con un po’ di umiltà avrebbero minimizzato i danni. E poi con la sfilata avrebbero recuperato tutto.

      Rispondi
  2. vinc   21 Maggio 2019 at 12:57

    Per me è tutto molto semplice.Quando si fanno degli errori si deve pagare. Non è detto che l’intransigenza dei social sia poi così sbagliata. Alla fine anche i grandi brand capiranno che il tempo in cui potevano manipolarci senza pagare dazio è finito.

    Rispondi
  3. Marco   21 Maggio 2019 at 18:20

    I social sono un’arma a doppio taglio. I brand a volte hanno l’illusione di poterli usare per raggiungere i propri scopi. Per esempio io ricordo che proprio Dolce e Gabbana furono tra i primi a invitare blogger alle proprie sfilate mettendoli in prima fila al posto dei giornalisti veri. Non mi risulta che questi siano intervenuti dicendo che era tutta una esagerazione. Bisogna essere realisti ed ammettere che le dinamiche dei social sono qualcosa che le aziende non sanno ancora gestire. In questi casi la prudenza è la soluzione migliore.

    Rispondi
  4. ann   22 Maggio 2019 at 08:15

    Io credo sia mancato il rispetto per un’altra cultura. Ma mi chiedo: come si fa ad essere irriguardosi e al tempo stesso manifestare rispetto? Si può colpevolizzare uno stile?

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   22 Maggio 2019 at 08:50

      Conosco solo un modo per tenere insieme i due effetti di senso ai quali hai fatto riferimento. Giocarsi la carta del comico, del riso. Probabilmente era questo l’obiettivo dello spot. Il problema è che i ragazzi cinesi non sono stati al gioco. Perché? Il catalizzatore semantico dello spot è diventato subito un problema di identità interpretato come un’aggressione allo stile di vita tradizionale.

      Rispondi
  5. Lucio   22 Maggio 2019 at 14:14

    Concordo con il sospetto che l’autore dell’articolo ha cercato invano di nascondere, che vede come corresponsabili le persone dedicate ai social di Dolce & Gabbana. Dovevano essere loro ad allertare i capi sull’andamento sempre più pericoloso dei social cinesi e a suggerire soluzioni. Gli stilisti sono dei creativi, il loro mestiere è un’altro. Se pagano lo stipendio a dei tecnici esperti di internet, questi devono fare il proprio dovere. Avere paura di esprimere la propria opinione ai colleghi che hanno altre funzioni, in casi come questi non dovrebbe essere tollerata. Il tecnico web ottuso, capace solo di smanettare con il computer non serve a niente in aziende globali della moda. O entra in rete con le altre funzioni aziendali oppure fa danni. Dolce e Gabbana sono stati lasciati soli e hanno reagito come può reagire che si sente aggredito.

    Rispondi
  6. Luigi   23 Maggio 2019 at 08:40

    Quanto avrà influito nel casino scoppiato, la bruttezza dello spot? Da creativi come Dolce e Gabbana mi aspettavo di meglio.

    Rispondi
  7. anna   23 Maggio 2019 at 21:23

    Non credo che il messaggio ovvero lo spot centri tantissimo. Credo piuttosto che il signori Dolce e Gabbana abbiano lavorato male sulla funzione comunicativa che Jakobson chiamava funzione fatica, quella cioè inerente i destinatari del messaggio. si è prodotto allora uno scollamento con il popolo dei social. Bisognava che l’azienda ripristinasse un contatto. con le dichiarazioni citate dall’autore questo non è stato possibile.
    Vorrei aggiungere che per me l’accusa di sessismo era meritata. Quella di razzismo credo di no.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto   24 Maggio 2019 at 12:27

      Capisco quello che vuoi dire, ma permettimi di correggere qualche piccola imperfezione. Evidentemente utilizzi i suggestivo modello della comunicazione che il grande linguista Roman Jakobson notificò in un celeberrimo saggio verso la metà degli anni cinquanta. Ispirato dalle sue letture cibernetiche, postulò che ogni processo di comunicazione fosse la conseguenza dell’interazione di 6 elementi fondamentali: emittente, messaggio, destinatario, contatto, contesto, codice. A questi elementi associò le rispettiva funzioni ovvero f. espressiva/emotiva, f.poetica, f.conativa, f.fatica, f.referenziale, f.metalinguistica. Ora, se vuoi sottolineare il fatto che i problemi D&G sono collocabili a lato del destinatario devi parlare di f.conativa e non f, fatica, la quale corrisponde a ciò che nello schema è il contatto.
      Comunque ti invito a pensare che anche la mancata considerazione del contesto ha fatto problema, per non parlare del fraintendimento dei codici. Ancora, è evidente che anche modi, forma e contenuti del messaggio hanno suscitato polemiche infinita (f.poetica). Quindi se applichi il modello Jakobson con più attenzione, non puoi non accorgerti che tutte (e non solo una) le funzioni che strutturano la comunicazione, presentano problemi. Ecco perché l’effetto è stato un cigno nero negativo.

      Rispondi
  8. james   25 Maggio 2019 at 10:52

    Sono pronto a scommettere che questo caso si spiega con una semplice considerazione: la moda non ha ancora capito che il web marketing è una cosa seria. Grandi brand che usano oggi i social con l’approccio romantico, conviviale di dieci anni fa, ne vedranno delle belle!

    Rispondi
  9. Mario   26 Maggio 2019 at 10:02

    La tesi dell’autore è facile da capire: un maldestro commento di Stefano Gabbana ha causato un putiferio. Da questo fatto l’autore deduce la pericolosità dei social. Ma è proprio vero? Tutto qui?

    Rispondi
  10. maurizio   27 Maggio 2019 at 08:32

    Ha ragione chi scrive. Dolce & Gabbana sono un caso da manuale del marketing. Leggendo l’articolo mi è venuto un dubbio. E se fossero stati veramente attaccati dagli hackers? Non è poi così insolito che avvengano incidenti del genere. Il commercio globale genera molti conflitti.

    Rispondi
    • luciano   27 Maggio 2019 at 08:45

      con internet è facile risalire alle fonti di un eventuale hackeraggio. le tracce rimangono. Erano solo patetiche scuse. Però dà da pensare che un gruppo che fattura più di un miliardo faccia errori del genere. Ci sono cose che non tornano.

      Rispondi
  11. Lamberto Cantoni
    Lamberto Cantoni   27 Maggio 2019 at 10:39

    Non credo alla teoria del complotto. Fino a prova contraria preferisco attenermi ai fatti. Indubbiamente il brand Dolce & Gabbana è molto efficiente nel web, per quanto riguarda il numero dei follower. I dati a mia disposizione lo collocano al secondo posto dopo Gucci, con oltre 16 000 000 di internauti che perlopiù guardano immagini e video ( dati 2018; il tasso di engagement è però molto basso, 0,38, come quello di tutti i brand della moda del resto). Il mio intervento verte su un problema che molti fanatici della tecnologia sottovalutano: la tecnologia è importante ma solo se si sposa a una formazione adeguata che, nel caso riportato fonde questioni tecniche con considerazioni umanistiche. In definitiva, almeno sinora, gli utenti di internet non sono robot ma persone che come tutti noi, cercano di dare un senso alla propria vita.

    Rispondi
  12. alberto   27 Maggio 2019 at 11:23

    L’unico pensiero che mi sento di esprimere dopo aver letto questo articolo è che “errare umanum est”. Per quanti “Algoritmi” circolino nell’ universo all’ uomo e stata concessa ancora la possibilità di commettere un errore di valutazione. Il futuro che ci attende : e quello progettare una civiltà sempre più tecnologica dove ogni errore umano verrà previsto e successivamente annullato dall ‘ algoritmo”-. Valutazioni errate come quella perpetrata da Dolce e Gabbane, oggi frutto di una riflessione umana, quando l’uomo diventerà completamente succube dell’”Algoritmo” non accadranno più, ma questo vorrà dire anche che “l’Algoritmo” si è sostituito al nostro libero arbitrio .Grazie Dolce Gabbana per aver commesso un errore questo nel bene e nel male indica che siete ancora” uomini sapiens” capaci di commettere errori ,ma con il vostro intelletto capaci di ripartire con maggiore grinta.

    Rispondi
  13. Valeria   27 Maggio 2019 at 23:25

    Credo che un’agenzia pubblicitaria, interna o esterna che sia all’azienda (in questo caso dall’articolo deduco che sia interna), che faccia uno spot come quello che ho visto sia da depennare. Nei percorsi di vita si imparano alcune cose, una di queste é che l’ironia occorre prima di tutto farla su se stessi (l’autoironia é il punto di partenza), e poi, eventualmente, allargarla all’altro. Se immaginiamo il filmato “ rovesciato” vale a dire se ci fosse stato un italiano che prova a mangiare i suoi piatti ( pizza, spaghetti, cannolo) con le bacchette ( ricordiamo che l’ironia é prendere la realtà e capovolgerla!) e fosse poi alla fine stato affiancato dalla ragazza cinese che gli consegnava sorridendo coltello e forchetta, lo scopo sarebbe stato raggiunto: noi italiani vogliamo imparare dalla Cina (bacchette) mantenendo la nostra identità (piatti nazionali), la Cina ci apprezza ed é pronta a venirci incontro (anche in Cina si possono avere coltelli e forchette) la ragazza è orientale (identità), sorridente, graziosa senza essere particolarmente bella. Lo spot avrebbe strappato sorrisi, la presenza dell’uomo avrebbe cancellato ogni possibile accusa di sessismo: era l’incontro (progettato e chiaramente non riuscito) tra due culture che si valorizzano e si compensano reciprocamente. Purtroppo spesso il fatto di essere famosi ci fa lasciare indietro il concetto di umiltà e in questo modo anche quello di ironia, o più semplicemente di quell’ironia “dolce”, bonaria, (l’ironia cattiva distrugge e il confine tra ironia e sarcasmo a volte é impercettibile)), che serve proprio (nel suo primo significato di finzione) o per sottolineare qualcosa che ci interessa o che non é di nostro gradimento. Riassumendo: ironia significa “ridere con” non “ridere di” . Chi non usa in modo adeguato l’ironia vola troppo alto con la fiducia in se stesso e il tonfo prima o poi é inevitabile, nei messaggi di moda come in tutti gli altri messaggi, sia che questi siano in internet, nei mass media,nei cartelloni pubblicitari (quanti ne sono stati tolti), insomma in ogni tipo di pubblicità, perché i valori espressi dai concetti astratti, quali il rispetto e la considerazione dell’altro, seppur bistrattati esistono ancora. Compreso nella comunicazione di ogni giorno con le persone che incontriamo.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto   1 Giugno 2019 at 08:23

      Sono d’accordo con quello che scrivi. La distinzione tra “ridere di” e “ridere con” mi pare intelligente e da preservare.

      Rispondi
  14. maurizio   12 Giugno 2019 at 10:13

    l’articolo mi ha fatto riflettere sulla reale utilità dei social per le politiche dei brand. Non conviene farne a meno? Perché rispondere a tutte le questioni? Che utilità può avere? Mi chiedo anche se esiste per il web il reato di diffamazione. Nel mondo reale se accuso qualcuno devo avere delle prove altrimenti mi becco una denuncia. Vale lo stesso per internet?

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   12 Giugno 2019 at 11:36

      La diffamazione è un reato anche nel web. Ma è difficile da provare dal momento che moltissimi account sono fittizi.
      Comunque non credo che il caso D&G rientri nelle specifiche individuate dal legislatore relative al reato a cui fai riferimento.
      La questione vera è un’altra: i social sono equiparabili a un media oppure no? Se la risposta è sì allora esiste il diritto di critica, se la risposta è no, ogni eventuale critica può diventare un problema. Facciamo un esempio: immaginiamo che non ti piaccia la pubblicità di un brand perché ritieni che la modella utilizzata sia troppo magra; ebbene, non guardarla (chi ti obbliga?) e pensa ai fatti tuoi. Che diritto hai di utilizzare Facebook per discreditare il mio brand? Se Facebook non è un media, chi ti attribuisce la facoltà di seminare critiche che mi danneggiano?
      Naturalmente tutti sappiamo che se un brand della moda utilizzasse questo argomento, verrebbe stroncato dai social. E quindi prudentemente i web manager si tengono alla larga da questioni per ora indecidibili.

      Rispondi
      • luciano   13 Giugno 2019 at 13:29

        Io credo che i social siano molto importanti per recuperare i big data che in seguito consentono di fare previsioni. Non è pensabile che i brand della moda ne possano fare a meno. Come dimostra l’articolo ci sono dei rischi. Ma se i brand di tendenza non vogliono perdere il contatto con i millennial, devono stare al gioco.

        Rispondi
  15. Greta   24 Giugno 2019 at 20:38

    Analizzando il caso in questione e facendo tesoro delle considerazioni del suo articolo, la simpatia dell’usare la fiction come modello, mi porta a valutare aspetti importanti della comunicazione usata, apparentemente in contrapposizione, se si parte dal presupposto che il brand ha sempre rivestito una posizione di predominanza sui mercati globali, testimonianza ne sono i successi indubbi verificatesi negli anni passati.

    Fatico a pensare che in una azienda all’avanguardia siano possibili errori così apparentemente marchiani, che si giustificherebbero soltanto se le posizioni professionali di management fossero cosi timorose da non opporsi alle voglie del deus ex machina, o peggio, fossero incompetenti/assenti.

    Non voglio qui entrare nelle considerazioni che determinano lo sviluppo di un management attivo e propositivo oppure da “yes Man” all’interno di una azienda.

    Per questo, provo nella sua stessa logica di fiction a formulare una ipotesi diversa, cercando di individuare un percorso che abbia qualche razionalità giustificativa, seppur facendo appello a una dose di creatività.

    Supponiamo quindi che la campagna adottata per il mercato cinese non sia un errore, ma che sia stata coscientemente studiata sia per proseguire nella logica comunicazionale dalle caratteristiche provocatorie tipica del brand, e che tenga in considerazione però anche dei rischi a cui si sarebbe andati incontro.

    Ciò che si osserva sui media subito dopo l’avvenimento mi induce a pensare che le conseguenze, che sia da un punto vista etico che economico, sono state di grandi proporzioni, siano giustificabili solo se ritengo che il mercato occidentale avrebbe potuto trarre vantaggi superiori ai rischi previsti sul mercato orientale.

    E’ indubbio che siamo in una fase storico-economica dove i contrasti tra il modello occidentale e quello cinese abbiano raggiunto livelli tali anche da influenzare le strategie commerciali.

    Senza entrare nell’analisi dei differenti modelli, sono significative le recenti guerre sui dazi e le polemiche sulla sicurezza nazionale in merito alle supertecnologie comunicative.

    E’ indubbio che stia crescendo in occidente un sentimento anticinese condito da razzismo e da timori competitivi.

    Dolce e Gabbana perciò avrà valutato in primis le dinamiche sociali attuali del modello economico e statale cinese essere in una fase di transizione ( livellamento sociale ) tali da innescare criticità in termini di domanda del target di riferimento del brand, anticipando in modo forzoso un calo naturale della domanda a vantaggio di una conseguente crescita della domanda sul mercato occidentale, potenzialmente alimentata da un fattore emozionale anticinese trasversale al prodotto offerto.

    Mi rendo conto che questo mio esercizio di interpretazione potrebbe scontrarsi con una buona parte delle informazioni in mano a tutti.

    Trattasi di una interpretazione della strategia del negativo del brand diversa e che giustificherebbe l’esasperazione della gestione dei tempi di smentita ( con conseguente grandissima ampiezza della risonanza mediatica ) e dei modi ( utilizzo di strumenti e toni non convenzionali per fare presa ).

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   25 Giugno 2019 at 08:25

      Come romanzo giallo la trama è ammirevole. Sacrifico il mercato cinese per le plusvalenze che otterrò dai consumatori occidentali, finalmente vendicati. Ma perché mai un brand che ha raggiunto fatturati considerevoli in un grande mercato dovrebbe effettuare questo sacrificio? Non conveniva evitare di arrivarci? Corro il rischio di essere accusato di razzismo e sessismo per protestare contro il dumping che ha favorito la Cina? Direi che come scrittrice di bestseller fantamoda hai davanti a te una luminosa carriera. Dal momento che immagino sia più probabile il tuo futuro come manager di una azienda mi permetto di suggerirti che il tuo intervento alla Trump, potrebbe funzionare benissimo all’inizio di un brainstorming, ovvero in quel preciso momento di una riunione in cui tutti i tuoi colleghi sono reticenti a metterci la faccia. Ecco allora che la tua capacità di creare visioni fantamoda, potrebbe contribuire a rompere il ghiaccio, trasformandoti per il gruppo, in una provvisoria leader. A patto però, che dopo aver messo tutti a proprio agio facendoli ridere, tu sappia poi costruire fiction più congruenti alla situazione problematica. Comunque a me la fantamoda piace. Quindi complimenti.

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  16. Marco Riccardi LABA   13 Gennaio 2024 at 17:54

    Credo che una delle principali cause della nascita di crisi del genere sul web, oltre alla facilità di esprimere la propria opinione, nascosti dalla maschera dello pseudonimo, sia la voglia dell’essere umano contemporaneo di indignarsi. Viviamo in quella che definirei senza mezzi termini come epoca del vittimismo, in cui il desiderio di offendersi sembra farla da padrone per soddisfare, in un malsano gioco, il bisogno narcisistico di protagonismo che sente l’uomo nel momento in cui, tra otto miliardi di persone, fatica a ritagliarsi un ruolo di primo piano. In quest’epoca del politically correct qualunque cosa viene censurata e depotenziata perché la maggior parte degli utenti si offende per nulla, buona parte delle volte. Non mi si fraintenda, ci sono casi e casi, ovviamente: tutto dipende dall’intenzionalità e da quello che è il processo mentale che sta dietro a ciò che ha offeso una determinata categoria di persone. Il vero problema sta nell’incapacità di buona parte del pubblico di discernere proprio questa: indiscriminatamente ci si offende -o meglio, ci si mostra offesi-, per avere quel poco di attenzione da parte del pubblico nel momento in cui si trova a dover difendere una povera minoranza presa di mira da, per esempio, un comico, una pubblicità o un film. Tutto questo, ribadisco, molto spesso accade a seguito dell’incapacità di in comprendere il senso dell’inserimento della presunta offesa all’interno del determinato prodotto: può essere un modo di mostrare uno stereotipo, un’esagerazione, che mostra -senza dirlo esplicitamente, e qui casca il grande pubblico- nella sua realtà per condannarlo implicitamente -vedasi il caso della tanto condannata black face di Robert Downey Jr. in Tropic Thunder; può trattarsi, nel caso di film, di contesto storico: se io, sceneggiatore, non inserisco un aristocratico di colore nel 1700 non è perché sono razzista, ma perché, storicamente, è raro che in quell’epoca a una persona di colore sia anche solo concesso di imparare a scrivere; o può trattarsi di un prodotto realizzato in un’epoca molto diversa dalla nostra: caso esemplare, la suggerita rimozione di Via col Vento da una nota piattaforma di streaming qualche anno fa perché considerato razzista, poi sostituita con un disclaimer per gli “spettatori sensibili” prima dell’inizio del film, cosa poi aggiunta in tantissimi altri prodotti, tra cui numerosi cartoni animati. Tutto questo quando si tratta di prodotti realizzati in epoche e da persone veramente razziste, ma non per questo, a mio parere, dovremmo censurarli o indignarci, bensì guardarli con consapevolezza. Cosa che, purtroppo, pochi riescono a fare.
    Tutto ciò porta poi, nell’ambito seriale, cinematografico, narrativo, pubblicitario… a soluzioni realmente stereotipate e banali, dal momento che cercare di non offendere nessuno nell’epoca in cui chiunque -compreso chi non ha giudizio critico- ha la capacità di scatenare, in un istante, il caos che può affossare intere aziende. Porta a idee vuote, prevedibili, irrealistiche: forzature e censure inserite a nome dell’“uguaglianza”, che portano a prodotti in tutti i campi di qualità a dir poco becera, nel momento in cui si cerca di osannare la differenza stereotipata, rimarcandola in ogni situazione possibile, anziché fare l’unica cosa che potrebbe portare veramente all’uguaglianza: non notarla. Senza rimarcare le differenze che per tanto tempo sono state oggetto di pregiudizio e odio in ogni buona occasione, si smetterà di guardare gli altri come diversi. A Morgan Freeman, in un’intervista, fu chiesto come, secondo lui, si poteva eliminare il razzismo; a cui lui rispose: “Non parlandone”.
    Tuttavia questo non accadrà mai: il bisogno del pubblico generalizzato di essere vittima impedirà la cessazione del vero essere vittima: perché una vittima attira l’attenzione, attira la compassione, la solidarietà, la vicinanza, l’accordo.
    La vuota banalità dell’ignoranza, della mania di protagonismo, che, dal pozzo da cui urlano, riescono a tirare giù chiunque tenti di calmarne la voce, o di combatterla, con intelligenza, sarcasmo, ironia o trasgressione.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   14 Gennaio 2024 at 07:06

      Come si fa a insegnare l’indifferenza di fondo verso valori o valenze conflittuali senza fargli perdere le proprietà che li distinguono cioè dare del senso alla nostra vita? Conosco un solo modo: ridere di chi sono cosa voglio cosa faccio… ma poi finita la risata quando devo agire posso trascendere da ciò che chiamiamo valori? E se questi valori fanno attrito con qualcosa o con altri valori come debbo agire? Posso applicare sempre il “non parlarne”? Siamo di certo immersi in un mondo nel quale prevalgono idioti e idiozie che seguono la regola della massimazione dei conflitti. Ma anche ammettendo che un giorno ci redimeremo e diventeremo tutti buoni e saggi credo che la questione sintetizzata sopra rimanga aperta costringendoci a parlarne. L’alternativa è un mondo senza valori, senza individui che pensano agiscono rischiano. Un mondo svuotato di emozioni. Un mondo di individui/algoritmi che seguono un copione già scritto.

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      • Marco Riccardi LABA   14 Gennaio 2024 at 12:16

        Ciò che intendevo non verte all’annullamento dell’individualità, alla creazione di un mondo in cui questa sparisce e ci si trasforma in una società di stampini programmati da algoritmi. Ciò che volevo far emergere era come, rimarcando una differenza ad ogni buona occasione porta solamente a scavare un buco sempre più profondo, che si faticherà sempre più a riempire. Evitando di accentuare forzosamente tutto questo credo si potrebbe cessare di vedere un individuo come incarnazione di ciò che lo differenzia da me, per cominciare invece a vedere ciascuno come, appunto, individuo con le sue singolarità. In un mondo in cui tutti siamo diversi, singolo da singolo, differenze come colore della pelle, sessualità o religione smetteranno di essere tanto fondamentali, e potranno essere considerate come, semplicemente, caratteristiche di un individuo, anziché definire la sua appartenenza ad una categoria accompagnata dai suoi pregiudizi.

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  17. AliceA Laba   14 Gennaio 2024 at 16:03

    Al giorno d’oggi credo che sia indispensabile avere qualcosa su cui cadere, una strategia pianificata che possa arginare la crisi. Considerando che il web diffonde alla velocità della luce informazioni e contenuti ma allo stesso tempo anche le reazione che queste possa provocare, anzi direi che si propagano maggiormente le emozioni senza nemmeno magari spiegare o mostrare il contenuto in questione (mi viene in mente come adesso stia circolando le reazioni che provoca il film Saltburn e il consiglio di non vederlo in famiglia senza nemmeno spiegare la motivazione e far vedere scene o immagini). A maggior ragione il caso qui sopra analizzato evidenzia fattori del brand, che potremmo dire azzardati se non addirittura, a mio avviso, svilisce la popolazione italiana, aumentando la visione che la nostra ironia si identifichi con quella di ridere dell’altro, del diverso. Se nel video fosse stato posto aiuto alla protagonista mostrando e aiutando, senza incrementare con la voce maschile fuori campo, forse il video poteva diventare una maniera di ridere con la protagonista e non di deriderla (così deridendo la cultura cinese). Proprio per questo direi che prima di pubblicare un contenuto simile bisogna vedere anche l’altra faccia della medaglia. Questo sarebbe forse stato possibile studiando la loro tradizione culturale oppure facendolo vedere casualmente a un pubblico di tali origini lo spot prima di pubblicarlo potendo capire dalle loro reazioni cosa potesse suscitare, magari in questo modo si poteva mettere mano in anticipo e gli stilisti non avrebbero dovuto scusarsi, forse anche umiliandosi, in pubblico (aggravati dalle risposte cretine che hanno pubblicato di istinto). 
    Non sono pienamente convinta che ad oggi anche  con tutte le precauzioni, che si possano mettere in atto, si possa evitare una crisi. Il web di oggi è un controsenso che si divide in politically correct, che può portare al declino di una azienda o al fallimento di contenuti, e all’anonimo che insulta, come se gli avessero ucciso il cane o distrutto casa. Sicuramente quello che unisce il web è giudicare e forse siamo all’interno del libro 1984 di George Orwell in cui quest’occhio gigante ci osserva in continuazione, ci condiziona, ci giudica e siamo costretti a stare alle sue regole.

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  18. Chiara F. LABA   16 Gennaio 2024 at 22:21

    Con la globalizzazione, la complessità e i rischi nel campo del marketing e della pubblicità crescono, richiedendo nuove modalità organizzative e consapevolezza etica. La storia, ispirata dagli spot di Dolce & Gabbana in Cina, evidenzia come la comunicazione errata possa minare la reputazione del marchio.
    Facendo riferimento allo spot di Dolce & Gabbana in Cina del 2018, possiamo vedere come il loro messaggio si è trasformato in un un cigno nero comunicazionale, generando rabbia tra i millennials cinesi. La gestione inappropriata della provocazione culturale sfugge di mano. Diet Prada critica Stefano Gabbana per la sua risposta infelice, innescando una reazione negativa e un’escalation della crisi sui social. La distinzione tra privato e pubblico, sui social, è trascurata, mettendo a rischio il brand. Gli hackeraggi smentiti aggravano la crisi, ma le scuse tardive attenuano solo parzialmente la situazione, con effetti a lungo termine inevitabili.

    Nell’ultimo periodo (in termini di anni) ho notato come spesso, sui social, ma non solo, si accendono discussioni su ciò che riguarda il “politicamente corretto”, ovvero “una linea di opinione, un orientamento ideologico e un atteggiamento sociale con lo scopo inteso soprattutto nel rifuggire l’offesa o lo svantaggio verso determinate categorie di persone all’interno di una società”.
    Se andiamo a vedere i vecchi poster pubblicitari, degli anni ’60/’70, possiamo vedere come, ad esempio, la figura della donna veniva sminuita o sessualizzata, resa inferiore rispetto alla figura dell’uomo. Ma così erano anche i film, come ad esempio i primi film di 007, che poco tempo fa è stato ritenuto “offensivo al giorno d’oggi”. Stiamo parlato di film girati negli anni Sessanta in cui era presente un’altro tipo di mentalità. In questo caso, penso sia esagerato andare a lamentarsi di pubblicità/film/libri che presentano una mentalità totalmente differente da ciò a cui siamo abituati oggi.
    Adesso non sarebbe possibile realizzare pubblicità o film del genere con così tanta leggerezza. È necessario prestare molta attenzione su ciò che si dice, in quanto potrebbe suscitare delle reazioni avverse da parte del pubblico a cui ci stiamo rivolgendo.

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  19. Marika LABA   17 Gennaio 2024 at 11:42

    Questo articolo presenta una riflessione approfondita sulla gestione aziendale e le possibili conseguenze di decisioni impulsivamente prese senza considerare i rischi potenziali. La narrazione offre uno sguardo critico sulle dinamiche organizzative, evidenziando la mancanza di strumenti di gestione del rischio e la concentrazione eccessiva di potere nelle mani dei creativi. La deviazione verso l’incidente di Dolce & Gabbana aggiunge un elemento di concretezza alla riflessione.

    Dolce e gabbana sono soliti ritrovarsi in questi scandali, spesso legati a dichiarazioni o azioni che hanno suscitato polemiche. Nel 2018, in pochi mesi, riuscivano a offendere Giappone («Non voglio uno stilista giapponese a disegnare per Dolce & Gabbana») e la cantante Selena Gomez(«È proprio brutta!!!», aveva scritto sotto un suo post Stefano su Instagram). Ma, come citato dall’articolo, fu proprio l’idea del trascurabile video con una modella cinese che usava le bacchette per mangiare spaghetti e cannoli il tipico “faux pas” che avrebbe potuto costare loro la carriera; quello e i commenti razzisti di Stefano Gabbana su Instagram, a cui seguirono dopo qualche giorno le video scuse con una faccia che neanche li avesse presi a pugni Mike Tyson. Per poi quest’anno, commentare il caso della Ferragni affermando che “gli influencer in automatico vanno a cadere”. “Siamo stati gli unici a non lavorare con gli influencer, li abbiamo fatti sfilare ma non abbiamo mai pagato nessuno. Si commentano da soli e da tanto, non è una novità ora che è uscita questa ‘bomba’”, è stato il loro commento, riportato da Ansa. “Da un anno e mezzo abbiamo cambiato registro, siamo tornati a lavorare con maestri come Meisel e Klein e alcune modelle, a noi piace la moda, e chi più di loro può esprimere questo concetto? Il fotografo, come il giornalista, fa un mestiere per cui ha studiato, ha una cultura, si può avere un dialogo alla pari”

    Mi sembra un po’ ipocrita un’affermazione del genere considerando che la prima a spezzare una lancia a favore dei due stilisti dopo lo scandalo del 2018 , è Kim Kardashian che a gennaio 2019 fa una storia su Instagram con un prodotto Dolce & Gabbana e tagga il brand per poi pubblicare un ulteriore foto in cui scrive: «Grazie Domenico! Spero che North sia sta una buona assistente». Kim Kardashian è chiaramente un esponente della categoria influencer così come anche Mariano Di vaio che dal 2019 è stato scelto come testimonial del profumo Dolce&Gabbana “K” (Nel 2012 apre il suo blog dal titolo Mdvstyle diventando presto uno dei fashion blogger più seguiti). Ora qualcuno dirà “ma quelli sono imprenditori” e io rispondo che loro sono imprenditori ORA. ad oggi, ma prima di avere il successo che hanno avuto e che creassero la loro realtà imprenditoriale hanno iniziato come influencer sui social e con gli ADV. Colui o colei che fa adv sui social, ovvero pubblicità attraverso canali digitali è considerato influencer. Il vantarsi di non aver mai pagato “influencer” non mi è ancora chiaro.

    Non credo alla teoria del complotto, con internet è facile risalire alle fonti di un eventuale hackeraggio. le tracce rimangono; erano solo patetiche scuse. Mi viene solo da pensare che usino questa tecnica di creare scandali o polemiche per ritornare sulla bocca delle persone come pubblicità per il brand.

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  20. Elisa Mattia LABA   17 Gennaio 2024 at 17:08

    Con l’avanzare della globalizzazione, il mondo del marketing e della pubblicità si trova di fronte a sfide sempre più complesse e rischiose. Questo richiede non solo nuove strutture organizzative ma anche una sensibilità etica più acuta. Guardiamo al caso degli spot di Dolce & Gabbana in Cina del 2018: una comunicazione sbagliata ha messo a repentaglio la reputazione del marchio. La gestione poco accurata di provocazioni culturali, come evidenziato da Diet Prada, ha scatenato una crisi sui social, ignorando la linea sottile tra pubblico e privato. Gli hackeraggi negati hanno solo peggiorato la situazione e nonostante le scuse tardive, gli effetti a lungo termine sono risultati inevitabili.
    Il mondo del marketing ha visto altre sfide simili. Pensiamo a Nike e la controversia legata all’annuncio con Colin Kaepernick nel 2018. Sebbene mirasse a un messaggio di giustizia sociale, ha suscitato anche reazioni negative con minacce di boicottaggio. Ciò sottolinea quanto sia delicato navigare in questioni complesse in un contesto globale, dove le percezioni possono variare ampiamente.

    Da un punto di vista personale, ritengo che la velocità di diffusione delle informazioni nella globalizzazione renda cruciale una gestione comunicativa etica e attenta alle varie culture. La vicenda degli spot di Dolce & Gabbana sottolinea quanto sia essenziale comprendere profondamente le sfumature culturali e adattarsi alle critiche per garantire la sostenibilità a lungo termine di un marchio.

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  21. Carlotta Laba   18 Gennaio 2024 at 23:26

    Credo che gli stereotipi di genere siano ancora oggi una realtà ben radicata nella pubblicità, nonostante i loro effetti negativi sulla società.
    Gli stereotipi tendono a creare delle aspettative e delle idee poco realistiche del mondo e delle persone, poiché propongono una visione troppo semplicistica, limitata e spesso totalmente diversa della realtà. Nonostante ciò, per molto tempo sono stati presenti nel mondo dell’advertising, sono infatti stati ripresi nel corso degli anni da molti brand, ripresentandosi spesso in alcune campagne di marketing criticate dal pubblico per la loro rappresentazione stereotipata delle donne e degli uomini.
    La presenza di stereotipi di genere in pubblicità è ancora oggi evidente, soprattutto perché riferimenti sessisti espliciti erano molto comuni e anche accettati fino a pochi anni fa. Tuttavia, i brand hanno il potere e il dovere di combatterli.
    Dato che la pubblicità può influenzare le opinioni dei consumatori su un determinato argomento, è ragionevole pensare che possa anche promuovere cambiamenti verso una società più inclusiva, realistica e umana.
    Dopo un attento ragionamento, pensando al mondo in cui viviamo oggi, e tenuto conto dell’intento “provocatorio” che D&G aveva nel promuovere questo spot, mi chiedo se lo spot pubblicitario in questione, sia più offensivo per la Cina o per l’Italia.

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  22. Nicolai   19 Gennaio 2024 at 10:45

    Quando si è nel mondo dell’alta moda arrivati a un certo livello sfociare in problemi di comunicazione per promuovere il propio brand è facile e le conseguenze non sono leggere.
    Personalmente penso che nonostante sei un brand noto e famoso a volte fare le cose troppo in grande inteso come “Guarda chi sono io” potrebbe essere controproducente, in quanto metti in atto delle strategie per aumentare clienti e succede l’opposto.
    Questo perche?
    Il messaggio che DeG voleva trasmettere poteva essere chiaro per loro ma all’esterno veniva percepito in modo diverso e quindi c’è stato una percezione diversa dello spot.
    Per logica dopo sono stati “malvisti” da alcune persone per la trasmissione.
    Per concludere vorrei dire solo che a volte le strategie di marketing potrebbero essere efficaci anche se lo spot, il cartellone o il messaggio è qualcosa di semplice.
    Allo stesso tempo non voglio dire banale perchè dopo potrebbe non avere effetto.

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  23. Diana Laba   21 Gennaio 2024 at 09:36

    La vicenda di Dolce & Gabbana del 2018, pur non essendo direttamente collegata a Cip & Ciop, offre spunti interessanti per riflettere sulla gestione delle crisi comunicative e sulla complessità dei mercati globali.

    L’utilizzo degli spot intitolati “Eating with Chopstick” da parte di Dolce & Gabbana ha scatenato una forte reazione in Cina, mettendo a rischio la reputazione del marchio nel mercato asiatico. La scelta di incorporare stereotipi culturali e formulare commenti potenzialmente offensivi ha generato un’escalation delle critiche sui social media cinesi.

    Questo episodio sottolinea l’importanza di comprendere a fondo le diversità culturali e le sensibilità locali nei mercati globali. La mancanza di attenzione a questi dettagli può tradursi in gravi conseguenze per la reputazione del marchio. In un mondo interconnesso, dove i social media possono amplificare immediatamente ogni evento, la gestione delle crisi richiede prontezza e sensibilità particolari.

    Nel contesto della nostra storia, potremmo immaginare che, se Johnny Scorreggia fosse coinvolto, avrebbe potuto fornire un’analisi preventiva delle possibili reazioni nel mercato asiatico, evitando così la produzione di spot potenzialmente dannosi. Tuttavia, è plausibile che, in un ambiente in cui il potere decisionale è altamente concentrato nelle mani dei due stilisti, le voci critiche sarebbero state ignorate, portando alla realizzazione degli spot e all’inevitabile crisi successiva.

    Riflettendo sulla storia di Cip & Ciop, possiamo notare come il loro approccio egocentrico e la mancanza di una struttura organizzativa adeguata abbiano contribuito al cigno nero comunicazionale. Questo ci invita a considerare l’importanza della diversità di pensiero, della consapevolezza culturale e della distribuzione del potere decisionale in contesti aziendali.

    In conclusione, entrambe le storie ci offrono l’opportunità di riflettere sulla gestione delle crisi, sulla necessità di considerare le diversità culturali e sul ruolo cruciale di una struttura organizzativa che favorisca la prevenzione e la gestione delle situazioni impreviste.

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  24. Alina Ozolin (LABA Rimini)   21 Gennaio 2024 at 15:33

    Il mio approccio a questo articolo sarà, per la maggior parte, estrapolare certe parti e commentare su di esse e, a volte, criticarle. Non saprei se questo è l’approccio giusto o se è l’approccio che il prof si aspetta o vorrebbe vedere, ma penso che sia l’approccio migliore per comunicare quello che penso sulla situazione descritta nel testo.

    “… i responsabili dell’azienda italiana volevano rendere omaggio alla cultura cinese… ” La campagna pubblicitaria sembra più un omaggio alla cultura italiana che alla cultura cinese, rivolta paradossalmente alla popolazione cinese. Qui sta uno dei motivi del fallimento di questi spot.
    “Non trovate che in questa forma anche l’accusa di razzismo fatta dai millennials nazional/cinesi non abbia ragione di esistere?” – Perché proprio il termine “millennials”? Secondo me la maggior parte delle persone che sono interessate a questo brand hanno una certa età, da 40 anni in sù, e penso che sarebbero soprattutto loro a scandalizzarsi, ma potrebbe anche benissimo essere la demografica più giovane, i gen z, o forse un miscuglio di due o tre generazioni. Vedo spesso il termine “millennials” e secondo me viene usato per dire “gente giovane” da persone più anziane, ma in realtà la maggior parte dei millennials, almeno secondo il consenso generale, è la demografica compresa tra i 25 e i 35 anni, se non di più.
    “Qualcuno di voi, maliziosamente, potrebbe sostenere che come ricordavamo sopra, nell’era #MeToo far vedere una modella che si infila in bocca un cannolone, corre il rischio di far rientrare dalla finestra il sessismo al quale pensavamo di aver sbarrato la porta. Vorrei però farvi notare che non c’è nessuna voce maschile che dà ordini; il gesto è l’espressione di una libera scelta della modella. E poi trovo veramente ridotto male chi mai dovesse immaginare simili contenuti a partire da un efficace quanto innocuo gesto che appartiene alle soluzioni euristiche di tutti i popoli (chi non si è mai trovato a mangiare temporaneamente con le mani qualcosa alzi la mano?).” – Il problema non è il gesto in sé, ma il commento della voce maschile. Se non ci fosse la voce maschile, che fa un commento costruito apposta per essere suggestivo, secondo me non ci sarebbero stati problemi.
    “Se i fatti si fossero conclusi con la rimozione dello spot dalla rete, immediatamente seguito da una semplice dichiarazione di scuse per il disagio inflitto agli ipersensibili difensori della tradizione cinese” – trovo l’uso del termine “ipersensibile” non necessario in questa frase, basterebbe dire “difensori della tradizione cinese”. Quello che potrebbe non provocare una reazione negativa in noi, nel nostro caso il popolo italiano, non vuol dire che per altri popoli è sbagliato indignarsi. Qui, a mio parere, c’è stata proprio una mancanza di rispetto.
    “Se ci pensate bene il movimento #MeToo è cominciato proprio così e oggi lo ritroviamo così potente da arrivare persino a censurare i libri che leggevamo a scuola quasi come i classici, rimuovere quadri capolavoro dai musei, farci vergognare delle innocue espressioni colorite che usavamo con leggerezza quando si parlava tra amici di “oggetti immaginari” chiaramente attratti dal vortice della pulsione sessuale.” – è una discussione importante, e non semplicemente un capriccio. La discussione che ha provocato #MeToo è interessante e ognuno ha le sue opinioni. è difficile distanziare il lavoro di un letterato o artista, che sia il nostro preferito, o che sia importante culturalmente, dalle cose che riteniamo scorrette, oscene o orribili che hanno fatto, soprattutto se queste cose orribili ci riguardano, cioè le abbiamo provate sulla nostra pelle. e cosa sono questi “oggetti immaginari”?
    “Semplicemente raccomanderei maggiore saggezza quando affrontano situazioni comunicazionali caratterizzate da una insopprimibile incertezza, situazioni che possono mettere a repentaglio la sopravvivenza del brand.” – Saggezza, ma anche empatia.

    Detto tutto ciò avrei diverse critiche all’articolo. É il primo articolo che ho letto per intero, quindi non so se queste mie critiche riguardano l’articolo in questione o la maggior parte degli articoli sul portale.
    Trovo l’uso di parolacce di cattivo gusto, soprattutto in un articolo che tratta in parte cultura e sensibilità, soprattutto da parte di un professore. Inoltre ho trovato diversi errori nella punteggiatura che a volte è mancante, nei punti dove invece dovrebbe essere presente.
    Ogni volta che viene citato il titolo della campagna pubblicitaria “Eating with chopsticks” ogni volta è scritta senza la s finale, un errore molto comune nell’italiano parlato, e mi sembra strano che sia così tanto presente in un articolo scritto.
    “… (per chi non possiede questa stanza interiore abbiamo creato solide strutture che si chiamano manicomio e carcere)” – commento poco sensibile a mio parere, soprattutto la menzione del manicomio, una struttura che spesso aiuta persone molto fragili e che cerca di riabilitarli, o, nei casi estremi, cercare di darle una vita dignitosa nel caso non fossero capaci di vivere indipendentemente. Probabilmente una cosa che molti non riterrebbe insensibile, ma avendo conosciuto persone con gravi disturbi psichiatrici e con cui ho avuto la fortuna di parlare ed essere amica, mi lascia l’amaro in bocca vedere un tale commento da un professore.

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  25. Luca M laba   21 Gennaio 2024 at 16:04

    ‘Non esiste la pubblicità negativa, l’importante è che se ne parli’, questa frase poteva valere fino ad un paio di decenni fa, ora però la storia è cambiata e questa frase, se presa alla lettera può letteralmente stroncare intere carriere. Da quando i brand affidano la propria immagine comunicativa a personaggi di rilievo o questi stessi siano diventati delle vere e proprie corporate, la figura con cui appaiono nell’immaginario pubblico, tiene in piedi l’intera l’infrastruttura. Come abbiamo potuto riscontrare col recente caso di Chiara Ferragni.
    Questo episodio e quello riportato nell’articolo però sono ben distinti, il primo infatti ha usato una mezza verità per incrementare le vendite, il secondo invece ha volontariamente tentato con tono provocatorio di spingere la comunicazione verso un sistema ed una appropriazione culturale con l’intento di suscitare clamore. Il punto in comune risiede nella ‘shitstorm’ mediatica e nel crollo del valore del brand sul mercanto mondiale.
    Personalmente ritengo che lo spot pubblicitario usato da Dolce e Gabbana sia stato di cattivo gusto sotto ogni aspetto, partendo dalla sceneggiatura, alla scelta della musica, fino alla voce fuori campo. Quando si realizza un prodotto commerciale bisogna tenere in considerazione il pubblico cui è rivolto e anche se la forte personalità di un brand punterebbe oltre, è meglio ridimensionare il tutto giocando sull’empatia. Il pubblico orientale da sempre pone le sue fondamenta sul senso del pudore e del rigore dell’istituzione e difficilmente è pronto a ironizzare sul tema in questione anche esorcizzandolo.
    Un altro aspetto analizzato a cui hanno dovuto far fronte è stata la controversa politica difensiva adottata per arginare la catastrofe. La rapidità di diffusione del malcontento e del clamore mediatico necessitava di una salda e tempestiva strategia comunicativa, affidata invece all’egocentrismo dei singoli.
    Per quanto i due stilisti siano diventati ciò che sono oggi proprio grazie alla loro forte personalità e alle provocazioni, questo non giustifica la superficialità con cui hanno affrontato il tema della diversità culturale e di pensiero.

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  26. Giacomo Laba   21 Gennaio 2024 at 17:06

    Immersi nel sontuoso Sancta Sanctorum di Cip & Ciop, l’aria è impregnata di una pomposa eccitazione, avvolta in un bagliore di sorrisi prefabbricati. Come manager partecipante a questa riunione plenipotenziaria di valenza strategica, mi troverei intrappolato tra la consapevolezza dei rischi immani legati a un evento così straordinario e il timore di sollevare dubbi in un contesto in cui il pensiero critico sembra essere considerato come un atto di eresia. La pressione implicita di adeguarsi alla narrazione gioiosa proposta dai due creativi potrebbe soffocare la mia voce, anche quando si tratta di questioni pratiche e fondamentali.

    Le domande che vorrei sollevare risuonerebbero nell’eco della mia mente: “Qual è il piano di rischio nel caso in cui gli spot non ottengano la reazione sperata?” o “Abbiamo effettuato una valutazione ponderata delle possibili conseguenze finanziarie di un investimento così massiccio?” Tuttavia, la mia volontà di esprimere queste preoccupazioni potrebbe essere sopraffatta dall’atmosfera di giubilo e dall’aura di infallibilità che circondano i due stilisti.

    Il personaggio di Johnny Scorreggia, con la sua conoscenza specializzata del mercato asiatico e dei social media, emergirebbe come una figura di particolare rilevanza. La sua presenza indica un aspetto critico spesso trascurato nelle decisioni aziendali: l’importanza di comprendere appieno il contesto culturale in cui si opera. Tuttavia, la sua riluttanza a parlare potrebbe derivare dalla consapevolezza del fatto che, anche se avesse sollevato preoccupazioni legittime, queste sarebbero state ignorate, date le personalità egocentriche dei due stilisti.

    In questo contesto, mi chiederei se la cultura aziendale premia veramente l’innovazione e il pensiero critico o se è piuttosto uno spettacolo teatrale in cui tutti recitano la loro parte senza osare mettere in discussione le decisioni della coppia di stilisti. La mancanza di spazio per il confronto aperto rischia di trasformare l’azienda in una struttura vulnerabile e poco resiliente.

    Il dilemma di bilanciare le preoccupazioni reali con la necessità di conformarsi alla narrazione dominante conferisce a questa riunione un’atmosfera di tensione e di cautela. Mentre i sorrisi plastificati illuminano le facce dei presenti, il peso delle decisioni prese dai due stilisti si fa sempre più evidente, e il rischio di un cigno nero comunicazionale incombe sull’azienda come una minaccia potenziale, pronta a scaturire da un evento imprevedibile e sfuggente al controllo.

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  27. Alessandro Para LABA   21 Gennaio 2024 at 22:04

    Da una parte abbiamo un brand multimilionario e rinomato che realizza spot con battute all’altezza di Natale sul Nilo, dall’altra orde di giustizieri che han voglia di dar fiato alla bocca… Chi la spunta?

    Io dico che il fondo più recondito di bassezza l’hanno toccato tutte due le parti. Da una parte abbiamo un brand che basa la sua identità sull’irriverenza e sulla provocazione, ma direi che si poteva fare molto di più e fare una provocazione molto più costruttiva e visionaria piuttosto che la battuta da essere umano mediocre. Dall’altra ovviamente abbiamo un branco di paladini della giustizia che non vedeva l’ora di dare aria alla bocca sull’ennesimo caso mediatico.

    Oggi giorno quel minuto di ribalta che si ottiene scrivendo la cosa più perbenista possibile è quasi ossigeno per certi individui che, ormai, vanno moltiplicandosi in modo virulento. Mancanza di valori concreti da una parte, mancanza di critica costruttiva dall’altra. Anche questo però è ormai un discorso parecchio scontato, ma del resto le cose non accennano a prendere una svolta, anzi si sembra scivolare sempre più nel tunnel della mediocrità conformista. Come risolvere ciò?

    Beh, semplicemente non penso sia possibile. Toccherà attendere che il genere umano tocchi il fondo prendendo una bella testata, forse allora si riuscirà a mettere insieme uno spot con un peso culturale degno di nota assieme a delle critiche che hanno motivo di essere espresse.

    Questo caso penso sia un ottimo ritratto della società in cui siamo immersi, e questa è una critica che di solito verrebbe appioppata ad un ultra-sessantenne su facebook, che con il suo “si stava meglio quando si stava peggio” snobba intere generazioni venute dopo la sua. Non ha tutti i torti?

    Sicuramente ai suoi tempi non tutti avevano la possibilità di esprimere la propria opinione non richiesta, questo è certo. Magari le aziende non avevano i mezzi per essere irriverenti a livello globale, anche se dubito fortemente. Di una cosa son certo, che questo cigno nero sia un caso di effimera bassezza, per cui credo vada lasciato lì dov’è, in basso.

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  28. ElisaB Laba   24 Gennaio 2024 at 10:32

    Nel testo che viene analizzato sopra viene descritto un caso di moda dove organizzazione e storia mandano un messaggio negativo sui social. Il concetto di “cigni neri comunicazionali” credo che sia centrale per analizzare la situazione che ci viene presentata in quanto lo spot nella sua interezza ha creato disagi e problematiche per quanto riguarda la comunicazione. La nominazione di cigno nero richiama, come nome coniato da Nassim Nicholas Taleb, un evento imprevedibile che suscita conseguenze radicali (in poche parole quello che è successo dopo la promulgazione dello spot pubblicitario).
    Il caso di Dolce e Gabbana viene usato come spunto di partenza per un ragionamento più ampio per quanto riguarda la comunicazione, l’organizzazione e gli eventi di moda. Viene analizzato un tema che negli ultimi anni è stato uno di quelli fondamentali: i social media! Questi nell’ultimo periodo sono una porta per un mondo esterno da cui non si torna indietro, come dice l’autore: il caricamento di uno spot apparentemente banale, rischia di compromettere fiducia e prestigio del brand nel tempo. L’analisi che ne scaturisce è proprio quello che intendevo sopra, i social media sono visti come sistemi complessi ed è per questo che bisogna: per prima cosa sapere a cosa si va in contro e secondo essere in grado di correggere o gestire eventuali problemi. Oltre a questo bisogna concentrarsi anche sui fattori culturali di quello che si va per pubblicizzare: ci sono state diverse problematiche per quanto riguarda la figura femminile cinese e l’utilizzo delle bacchette. Per far si che una campagna di marketing funzioni bisogna non solo conoscere le “leggi” dei social media e avere la capacità di essere pronti in caso di problemi, ma anche analizzare cosa può darmi indietro lo spot a livello culturale. Anni fa mi sembra nel 2012 un problema simile (a livello culturale e non di social) era stato affrontato anche da Ikea, la quale ha avuto alcuni diasagi per quanto riguarda la figura femminile.
    Questo famoso brand dedicato alla produzione e vendita al dettaglio di mobili, ha dovuto rimuovere le donne dal suo catalogo promozionale dall’Arabia Saudita. Questo perché non rispettava i codici di abbigliamento per le donne in quel paese. Capiamo quindi che alivello pubblicitario e di marketing è fondamentale conoscenze la cultura e le piattaforme in cui viene promulgato, questi due ragionamenti sono i primi della lista che un buon comunicatore deve analizzare e capire.

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  29. Sara D. LABA   27 Gennaio 2024 at 15:43

    Credo che questo sia solo uno degli esempi di scelte sbagliate da parte del brand, trovo infatti lo spot abbastanza discutibile, capisco come la comunità cinese possa non averlo apprezzato, io stessa non lo percepisco come un omaggio alla cultura cinese.
    Nonostante ritenga che spesso la reazione del web, come in questo caso, sia un po’ esagerata, penso che brand di questo livello debbano aspettarselo e per evitare errori come questo debbano affidarsi ad esperti di comunicazione che possano prevenire reazioni mediatiche di questo tipo.

    Non metto in dubbio il grande talento dei due stilisti, ma credo che entrambi abbiano bisogno di media training, in quanto come detto prima lo spot non è stata l’unica scelta sbagliata presa dai due, ricordo di un episodio in cui Stefano decise di commentare un post instagram contenente varie foto di un importante pop star americana scrivendo “è proprio brutta” per poi continuare a deriderla nei commenti. Il suo profilo sarà stato hackerato anche in quel caso?

    Gli avvenimenti che hanno coinvolto il brand hanno portato tante celebrità a dissociarsi e a decidere di non indossare più i loro capi, come conseguenza i due stilisti hanno perso tantissime vetrine come red carpet ed eventi importanti.

    La decisione di alcune celebrità di dissociarsi dal brand è una dimostrazione di quanto l’impatto delle azioni di un’azienda possa influenzare la sua posizione nel mercato e la percezione del pubblico. È un chiaro segnale che i consumatori si aspettano da parte delle aziende una condotta etica e rispettosa.

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  30. MariaLABA   27 Gennaio 2024 at 15:57

    Esaminando il caso e considerando le riflessioni del tuo articolo, trovo interessante l’approccio di utilizzare la fiction come modello interpretativo, il che mi porta ad esplorare alcuni aspetti cruciali della comunicazione adottata, apparentemente in contrasto con l’idea che il marchio abbia sempre dominato sui mercati globali, come dimostrato dai successi del passato.

    È difficile immaginare che in un’azienda all’avanguardia si osservano errori così marcati, a meno che non ci siano dinamiche interne, forse un management troppo riluttante a opporsi al “deus ex machina” o, ancora peggiore, incompetente o assente.

    Tuttavia, anziché approfondire le dinamiche organizzative che influenzano la gestione aziendale, preferisco seguire il tuo stesso approccio narrativo e formulare un’ipotesi alternativa, cercando di individuare una spiegazione che, seppur creativa, possa avere una certa logica.

    Immaginiamo dunque che la campagna per il mercato cinese non sia stata un errore, ma piuttosto una mossa deliberata studiata per continuare la narrazione provocatoria del brand, tenendo conto dei rischi potenziali.

    Quello che emerge dai media subito dopo l’incidente mi fa pensare che le conseguenze, sia in termini etici che economici, siano stati enormi, ma giustificabili solo se si considera che il mercato occidentale avrebbe potuto offrire vantaggi superiori ai rischi previsti in Cina.

    In un’epoca di crescente tensione tra il modello occidentale e quello cinese, evidenziato dalle guerre commerciali sui dazi e dalle preoccupazioni sulla sicurezza nazionale legate alle tecnologie avanzate, non è improbabile che Dolce e Gabbana abbiano considerato le dinamiche geopolitiche ed economiche attuali.

    Il marchio potrebbe aver anticipato un potenziale rilasciato

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  31. Giada Pirani LABA   28 Gennaio 2024 at 20:37

    Nonostante gli effetti negativi sulla società, purtroppo al giorno d’oggi sono molto presenti gli stereotipi nelle nostre vite. Si può dire anche che tutte queste convenzioni sociali rendono le diverse aspettative della realtà nascoste o addirittura strane. Attraverso una sola convenzione, si pone quella determinata idea, senza comprendere tutte le sfumature che può contenere all’interno, perché è un “modello” sociale. Infatti proprio per questo, lo troviamo nel video di D&G ad esempio: si fa uso dello stereotipo, senza realizzare effettivamente su che aspetti si sta giocando. Ogni brand ha un proprio potere, e deve essere mantenuto (e migliorato col tempo) ma per riuscirci, si deve far attenzione a tutto ciò che si fa… con la globalizzazione, soprattuto sulle pubblicazioni di contenuti sul web: è un mondo che diffonde così velocemente le informazioni, che risulta impossibile eliminarle. La pubblicità alimenta ogni nostra giornata: la pubblicità ci mette costantemente in allenamento di informazioni, con l’obiettivo di persuaderci. Questo non sempre funziona o non sempre funziona come si pensava, perché una pubblicità provocatoria come quella di D&G può portare anche alla crisi dello stesso brand. Si devono studiare e attuare tutte le strategie possibili per ottenere un contenuto che non porta emozioni negative dal pubblico come quella di D&G. Di certo per la velocità di informazioni che circolano sul web, non si possono più accettare spot che si focalizzano su stereotipi o che fanno determinate allusioni o provocazioni culturali. Lo spot di D&G è offensivo non solo per la Cina ma anche per l’Italia: partendo da degli stereotipi, si aumenta anche l’ironia “italiana” del deridere del diverso. Se non si conoscono entrambe le facce, meglio evitare di parlarne – se non sai le regole di scacchi, non giochi.
    Quindi, avendo sempre più un web complesso e rischioso, bisogna controllare il più possibile quello che si fa e pubblica. Penso che se ci fossero state delle ricerche sulla Cina e su ciò che è veramente quel paese (cercando le “sfumature” e quindi di distaccarsi dagli stereotipi), ci sarebbe stata una pubblicità differente. Anche se in realtà, non è sicuro al 100% che si possa evitare una crisi con tutte le precauzioni possibili – il web cambia e si alimenta ogni giorno.

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  32. Francesco B. LABA   5 Febbraio 2024 at 14:58

    Quest’analisi approfondita sulla gestione delle crisi comunicative, con il caso emblematico di D&G, getta una luce critica su una serie di dinamiche complesse. Personalmente, non posso fare a meno di esprimere la mia delusione riguardo alle azioni intraprese dal team di D&G. La mancanza di una risposta tempestiva, la negazione degli impatti negativi e il tentativo di scaricare la responsabilità su un presunto hackeraggio appaiono come decisioni sbagliate e controproducenti.
    Le scelte dell’azienda hanno contribuito a una escalation delle critiche anziché mitigare la crisi. In un mondo sempre più interconnesso e sensibile, ci si aspetterebbe che i brand adottino strategie etiche e trasparenti per affrontare le controversie. La ritrosia nel riconoscere gli errori e la mancanza di un approccio empatico verso le preoccupazioni del pubblico dimostrano una carenza di consapevolezza e sensibilità.
    Questa analisi offre uno spunto prezioso per riflettere su come le aziende dovrebbero affrontare le sfide comunicative contemporanee. La lezione da trarre è che una gestione delle crisi più consapevole e etica è fondamentale per preservare l’integrità del brand e mantenere la fiducia del pubblico.

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  33. Giovanni Forlenza Laba   19 Febbraio 2024 at 14:00

    La presenza diffusa degli stereotipi nella società contemporanea, nonostante i loro effetti negativi, è una realtà in cui ci troviamo immersi quotidianamente. Questi cliché sociali spesso nascondono o semplificano le molteplici sfaccettature della realtà, riducendo la complessità dell’esperienza umana a schemi predefiniti. È proprio attraverso queste convenzioni sociali che vengono veicolate idee e concetti, senza sempre comprendere appieno le implicazioni e le sfumature che possono comportare.
    Nel video di D&G, ad esempio, si fa uso degli stereotipi senza necessariamente rendersi conto dei significati profondi e delle implicazioni culturali sottostanti. Ogni brand ha un proprio potere, che deve essere gestito e sviluppato nel tempo, ma è essenziale prestare attenzione alle azioni intraprese, specialmente nell’era della globalizzazione e della diffusione rapida delle informazioni attraverso il web.
    La pubblicità, essendo parte integrante della nostra quotidianità, ci sottopone costantemente a messaggi persuasivi e informativi. Tuttavia, non sempre questi sforzi pubblicitari ottengono gli effetti desiderati e possono addirittura danneggiare l’immagine del brand, come nel caso dell’annuncio di D&G, che ha portato a una crisi di reputazione per l’azienda.
    Nel contesto sempre più complesso e rischioso del web, diventa cruciale monitorare attentamente le azioni e i contenuti che vengono pubblicati. La comprensione approfondita delle culture e delle sfumature dei vari contesti è fondamentale per evitare stereotipi e allusioni culturali offensivi. L’approccio alla comunicazione deve essere guidato da una ricerca accurata e da una sensibilità verso le differenze culturali, al fine di evitare possibili crisi di immagine.
    Personalmente, ritengo che la consapevolezza dell’importanza di una comunicazione rispettosa e inclusiva sia fondamentale per costruire rapporti positivi e duraturi con il pubblico. La diversità culturale e l’attenzione alle sfumature sono elementi chiave nella creazione di contenuti che risuonino autenticamente con il pubblico e che evitino di cadere in stereotipi dannosi e pregiudizi.

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  34. Giorgia Laba   20 Febbraio 2024 at 14:53

    L’articolo ci espone alle sfide aziendali derivanti dalla globalizzazione e alla scarsa preparazione dei team aziendali. Fare marketing e pubblicizzare brand negli ultimi anni sta diventando sempre più complesso, bisogna riuscire a trasmettere il giusto messaggio e farlo arrivare in modo veloce e diretto agli utenti, il che necessità di un lavoro da parte di un team preparato.

    Racconta attraverso una caricatura ciò che è successo alla famosa azienda dei due stilisti italiani di Dolce & Gabbana. Questi stilisti sono stati spesso al centro di scandali, come per una serie di video promozionali fatti in occasione di un’importante sfilata della Maison a Shanghai nel 2018. I video, intitolati “Eating with Chopstick”, sarebbero dovuti essere spot divertenti, ma in realtà vennero accusati di razzismo e sessismo a causa di contenenti che perpetuavano stereotipi sulla Cina e sui cinesi. Come la presenza della musichetta in sottofondo da ristorante cinese all-you-can-eat, la ragazza nel vide rappresentata come la classica “svampita orientale” che ride senza motivo e gesticola in modo impacciato, per poi rincarare la dose di sessismo con il video del cannolo con la frase fuoricampo : “Ce la fai o è troppo grande per te?”.
    La situazione è peggiorata quando lo stilista Stefano Gabbana ha avuto una discussione con un giornalista che lavora per un’importante rivista online, che gli chiedeva spiegazioni sulla loro campagna. Questo ha portato a un vero e proprio disastro sui social media. Poiché lo stilista non ha accettato le critiche, sostenendo che la loro campagna era stata fraintesa, non voleva essere un’offesa, ma un tributo. Poi ha aggiunto che l’ufficio di comunicazione cinese del giornalista, che ha ritirato i video dalle piattaforme cinesi non capisce nulla, come la stessa Cina. Da lì sono seguiti altri commenti offensivi, come: “Cina nazione della merda, ignorante, mangia-cani e mafiosa”, che hanno ovviamente fatto il giro del mondo.
    Di fronte alla crisi che ha investito non solo Stefano Gabbana, ma l’intera Casa di Moda, l’azienda ha pensato di usare la seconda scusa più banale del mondo dopo “è stato lo stagista”, dichiarando che gli account di Stefano e di D&G su Instagram sono stati hackerati.
    Infine il video di scuse dopo 4 giorni è stato tardivo… considerando la velocità con cui le informazioni viaggiano.

    L’impatto mediatico di questo evento è stato così forte a tal punto che gli influencer, le modelle e tutti gli ospiti hanno deciso di boicottare la sfilata, che poi è stata cancellata ufficialmente dal Governo Cinese.
    Tutto questo ci dimostra che le campagne sbagliate, e non adatte al target a cui erano indirizzate può essere fatale, inoltre l’inarrestabile potere dei social non è mai da sottovalutare specialmente nella nostra epoca in cui le informazioni e le opinioni si diffondono con un clic.

    In conclusione la crisi di comunicazione era gravissima, la rabbia attraverso i social si alimentava sempre di più e molto velocemente, essa veniva espressa senza filtri, tutto questo ha portato alla quasi implosione del brand.
    Tuttavia quello che è successo è servito e ci ha insegnato una lezione preziosa: lo stile audacie dei due stilisti, il loro modo di provocare e rischiare rappresenta un marchio e non è sbagliato, ma è importante considerare attentamente le conseguenze delle proprie azioni, cercando di prevederle, perciò è essenziale agire con intelligenza.

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  35. Sofia LABA   21 Febbraio 2024 at 16:18

    La situazione iniziale, seppur fittizia, mette in luce l’importanza di avere un team di comunicazione professionale e competente, in grado di gestire tempestivamente e in modo efficace crisi di comunicazione di questo genere. Inoltre, è necessario investire nella formazione del personale aziendale su questioni di sensibilità culturale e etica, per evitare situazioni simili in futuro, così come è fondamentale che le aziende siano consapevoli del potere della comunicazione e dell’impatto che le proprie azioni possono avere sulla reputazione e sul successo del brand. Adottare una strategia di comunicazione etica e sensibile è essenziale per mantenere la fiducia dei consumatori e per costruire relazioni positive con i diversi mercati in cui si opera. In un mondo globalizzato, dove le informazioni si diffondono rapidamente attraverso i mezzi di comunicazione, è importante che le aziende adottino una strategia comunicativa basata sull’empatia e il rispetto delle diversità culturali. Questo è il modo giusto di costruire solide relazioni con i clienti e mantenere la fiducia del pubblico nel lungo termine.

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  36. Martina T LABA   24 Febbraio 2024 at 16:31

    L’articolo si apre esponendo il caso Cip & Ciop con riferimento a Dolce & Gabbana, che non è altro che uno dei molteplici esempi che si potrebbero fare per arrivare ad una riflessione molto più ampia riguardate la comunicazione, talvolta sbagliata, di un determinato brand. Queste problematiche sono spesso dovute all’eccessivo, e non controllato, uso della provocazione, come lo è stato per D&G che, nel maldestro tentativo di catturare l’attenzione del pubblico cinese, ha lanciato una campagna pubblicitaria che è rapidamente sfociata in una tempesta di critiche, suscitando accuse di razzismo e insensibilità culturale. Nell’era digitale in cui siamo immersi, emergere e distinguersi dalla massa, è diventata un’impresa, poiché sono innumerevoli le informazioni che sul web si diffondo alla velocità della luce, attraverso piattaforme digitali e social media, per poi talvolta sparire nel dimenticatoio subito dopo. Quindi, dato questo contesto, i marchi aziendali hanno la necessità di catturare l’attenzione del pubblico e spiccare in mezzo a queste miriade di informazione, e come lo fanno? Attraverso la provocazione. Tuttavia, quest’ultima non è sempre la risposta migliore, anzi potrebbe, nel giro di poco tempo, rovinare l’immagine del brand e comprometterne la credibilità. Una delle principali ragioni di tali incidenti risiede nella mancanza di un team, capace di valutare gli effetti che una determinata comunicazione potrebbe avere sul pubblico, pensando invece che qualsiasi tipo di attenzione, che sia positiva o negativa, possa essere una strategia vincente a favore del brand. É invece essenziale domandarsi se valga veramente la pena adottare determinate strategie provocatorie e rischiare tutto per un eventuale visibilità, oppure diversamente, intraprendere un differente percorso di strategie, non incentrate sulla provocazione, attraverso un team consapevole dei meccanismi del web e delle reazioni del pubblico nei confronti delle proprie azioni.

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  37. Martina T LABA   28 Febbraio 2024 at 15:28

    L’articolo si apre esponendo il caso Cip & Ciop con riferimento a Dolce & Gabbana, che non è altro che uno dei molteplici esempi che si potrebbero fare per arrivare ad una riflessione molto più ampia riguardate la comunicazione, talvolta sbagliata, di un determinato brand. Queste problematiche sono spesso dovute all’eccessivo, e non controllato, uso della provocazione, come lo è stato per D&G che, nel maldestro tentativo di catturare l’attenzione del pubblico cinese, ha lanciato una campagna pubblicitaria che è rapidamente sfociata in una tempesta di critiche, suscitando accuse di razzismo e insensibilità culturale. Nell’era digitale in cui siamo immersi, emergere e distinguersi dalla massa, è diventata un’impresa, poiché sono innumerevoli le informazioni che sul web si diffondo alla velocità della luce, attraverso piattaforme digitali e social media, per poi talvolta sparire nel dimenticatoio subito dopo. Quindi, dato questo contesto, i marchi aziendali hanno la necessità di catturare l’attenzione del pubblico e spiccare in mezzo a queste miriade di informazione, e come lo fanno? Attraverso la provocazione. Tuttavia, quest’ultima non è sempre la risposta migliore, anzi potrebbe, nel giro di poco tempo, rovinare l’immagine del brand e comprometterne la credibilità. Una delle principali ragioni di tali incidenti risiede nella mancanza di un team, capace di valutare gli effetti che una determinata comunicazione potrebbe avere sul pubblico, pensando invece che qualsiasi tipo di attenzione, che sia positiva o negativa, possa essere una strategia vincente a favore del brand. É invece essenziale domandarsi se valga veramente la pena adottare determinate strategie provocatorie e rischiare tutto per un eventuale visibilità, oppure diversamente, intraprendere un differente percorso di strategie, non incentrate sulla provocazione, attraverso un team consapevole dei meccanismi del web e delle reazioni del pubblico nei confronti delle proprie azioni.

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  38. Martina Tumedei LABA   1 Marzo 2024 at 18:29

    Mi risulta molto difficile credere che tutta questa crisi mediatica sia stata dovuta ad una dimenticanza o lacuna da parte dei social media manager del brand. Stiamo parlando di uno degli emblemi della moda italiana, pur non vertendo ad offendere ovviamente nessuno, era facilmente intuibile che questo spot potesse essere mal interpretato dal popolo social, e infatti così è stato.
    Mi chiedo, la prima cosa da fare dovrebbe essere appunto calcolare il rischio che tale pubblicazione potrebbe portare, e vogliamo credere che un brand come Dolce e Gabbana non abbia pensato a questo? Al potenziale linciaggio mediatico che sarebbe potuto arrivare dopo la pubblicazione? Penso che chi si occupa di questo lato manageriale sappia che, all’interno dei social, basta un chicco di riso fuori dalla ciotola per rimanere in tema, a far scatenare le più grandi battaglie mediatiche che possono anche portare all’eliminazione del brand in questione. Ormai è così, le persone sono sempre lì, pronte a cogliere il primo passo falso per farne un caso di stato, non vedono l’ora di poter attaccare qualcuno e figuriamoci se questo qualcuno è anche un fatturatore di miliardi e miliardi di euro, è servita su un piatto d’argento così. Non mi spiego quindi come questo possa essere successo, l’unica “soluzione” la vedo nell’aver creato tutto questo di proposito per poi passare dalla parte del giusto con le scuse, se solo queste non fossero avvenute dopo quattro giorni a posteriori di grandi meschine figure come quella dell’hackeragio profilo, e poi le perdite ci sarebbero state comunque e anche sostanziali, quindi..
    La gogna mediatica non è da sottovalutare, una fetta di popolazione pensa che i ricchi, che siano influencer o imprenditori, non possano permettersi di sbagliare, perché con quello che guadagnano ci mancherebbe altro. Però spesso ci si dimentica di una cosa, un piccolo particolare, che dietro a quello schermo ci sono persone vere, esseri umani che, dipende da caso a caso ovviamente, ma possono prendere questi insulti gratuiti in modo molto peggiore di quello che pensiamo, come successo ultimamente con Vincent.
    La “perdita del brand” verrebbe susseguita dalla perdita della vita di cip e ciop, non raccontiamoci fesserie, perché distrutti appunto dall’odio verso i loro confronti per un errore diciamocelo, del tutto irrilevante. Tutto ciò mi porta ad una riflessione, è giusto che le persone possano fare i leoni da tastiera, augurare morte e dolori incurabili solo per loro pura frustrazione? Solo perché “loro hanno la vita che tutti vorrebbero e quindi devo trovare un modo nel mio piccolo per sabotarli?” È incredibile come però, sui social, siano tutte PECORE che fanno branco per andare ad attaccare qualcuno che in quel momento è semplicemente qualcosa in più di loro.

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