Gilberto Mora. Metafisica dell’Altra Città

Gilberto Mora. Metafisica dell’Altra Città

1. Il punto di vista di Gilberto Mora sulla fotografia e sulla città, il soggetto che per ora ha esplorato con una certa consistenza, presenta esiti decisamente eccentrici rispetto le abitudini estetiche del momento.

Gilberto Mora

In primo luogo la macchina fotografica nella mani di Mora sembra essere uno strumento per disegnare qualcosa di ben determinato, vedremo più avanti di cosa si tratta, presente nella sua mente in anticipo rispetto l’incontro con la realtà. Quindi le “cose” della città dalle quali sembra partire facendone un ritratto, sarebbero dunque una simulazione dell’atto fotografico dei puristi innamorati della presa sul reale attribuita alla fotografia, in cui esito verrà lavorato da un secondo tempo creativo concettuale ed estetico, secondo una logica che definirei da bricoleur.
Una fotografia fatta a pezzi dunque, le cui parti esemplari, sopravvissute al taglio dell’artista, evidenziate e separate da inutili rumori, disegnerebbero l’dea di città implicita nella ricerca visuale di G.Mora. Aggiungerei che l’artista desacralizza il mezzo fotografico, infischiandosene dei rilievi tecnici seguiti come un vangelo dalla maggioranza dei fotografi, interpretando con ironia e senso ludico l’approccio al reale mediato dal mezzo fotografico.
Questa dimensione di gioco per ora mi sembra assolutamente rilevante. Ovviamente per gioco non intendo tanto sottolineare la componente ludica del suo lavoro, bensì la curiosità, la scoperta, il piacere di trovare la forma ideale che, apres coup, movimenta i fantasmi artistici dai quali indubbiamente l’autore è tormentato, fissandoli in un momento cruciale nel quale l’immagine di partenza trova la sua inconsapevole verità.

 2. Dal punto di vista fenomenologico l’atto creativo di G.Mora mi sembra sufficientemente chiaro e lineare. In qualsiasi parte del mondo si trovi l’autore, terminate le incombenze burocratiche del suo lavoro, probabilmente tra le 5 e le 7 pm, grazie ad una passeggiata per la città cattura alcuni scatti degli edifici che ne caratterizzano il paesaggio. Quasi sempre il colpo fotografico tende ad esaltare la verticalità. In tal modo gli edifici ripresi dal basso verso l’alto conserveranno una certa formalità, un po’ come le persone che ci salutano irrigidendo il corpo, facendoci così capire la distanza necessaria per una interazione che preservi la loro identità niente affatto amichevole.

Oltre la lamiera azzurra

G.Mora ama la luce diffusa e uniforme, poco contrastata. E questo è un’altro tratto di stile: l’autore detesta i cieli azzurri in genere amati dai cultori dei paesaggi di qualsiasi tipo; nelle sue foto migliori la tonalità è quasi sempre sul cupo, una sorta di cielo tragico, sul quale riesce difficile proiettare le significazioni del nostro immaginario naturalistico. Si può dire che lo sfondo delle sue foto assuma una impostazione teatrale.

Questa prima pellicola di realtà verrà poi risistemata secondo sintesi aggiuntive, le quali renderanno obliqua l’impronta originaria del riverbero della luce sull’oggetto preso di mira. Intendiamoci, la foto non subisce ritocchi o riscritture, bensì cercherà la sua metamorfosi a partire dai tagli e dai materiali scelti post quem; decisioni che incalzeranno la foto dal di fuori e che le conferiranno lo statuto di oggetto artistico.

Abbiamo quindi nelle sue opere sia la traccia dell’immediatezza fotografica e sia il supplemento dell’atto estetico prodotto dai tumulti interiori dell’artista, posto di fronte al problema di trovare un senso altro alla forma che ne aveva catturato l’attenzione.

Yellow guardrail

3. All’inizio del processo dunque c’è qualcosa che possiamo immaginare come una specie di collezione di impronte di strutture di città morte, nel senso che in esse mancano quasi sempre esseri umani, tra le quali il fotografo si aggira come un flaneur di baudleriana memoria.

Dovete immaginarlo proprio come un non-turista, senza guide o itinerari particolari, che attraversa senza pesantezze esistenziali o culturali la città. Indifferente a tutto ciò che normalmente interessa le persone che vogliono conoscere questo o quest’altro, guarda il paesaggio urbano con l’occhio disincantato di chi si sbarazza delle idee altrui.

Linea rossa

La città di G.Mora è molto diversa, per esempio, da quella di Davide Bramante, altro straordinario interprete dei mood metropolitani. Le doppie e più esposizioni del fotografo siracusiano ci restituiscono con efficacia il caos e lo stordimento che proviamo nell’attraversare una metropoli post-moderna. Per contro, G.Mora preferisce il silenzio straniante; preferisce l’ordine apparente che questi edifici sembrano diffondere tra un’umanità che tuttavia non trova spazio per raccontarsi. Più vicine alla sensibilità di G.Mora potrebbero essere le foto di Berlino di Roger Hutchings, anche se il realismo struggente e drammatico del fotografo inglese manca di ironia e la troppa partecipazione sociale lo allontana dall’atteggiamento disincantato necessario per farci intendere l’alterità di edifici per i quali l’abitabilità non rappresenta il senso primario.

Blocco azzurro

Mi piace raccordare il punto di vista di G.Mora nel solco scavato da Alfred Stigliz (posso citare “From My Window at the Shelton-West” del 1931), ma anche in questo caso devo prendere atto che il formalismo e il modernismo del celebre fotografo americano, rappresentano proprio ciò che il nostro fotografo/artista vuole oltrepassare, pur conservandone le stimmate. L’attenzione alla forma e all’ordine semiotico degli edifici che caratterizzano i bellissimi scatti che Ugo Mulas dedicò negli anni sessanta alla città industriale, sono pieni di silenzio e del senso di vuoto che indubbiamente cerca G.Mora. Ma trasmettono troppe informazioni, sono soprattutto documento di una forma di vita in procinto di mutare. Così come le straordinarie immagini di città di Gabriele Basilisco, penso ai suoi scatti a Milano nel 1996, hanno a che fare con una geografia urbana che pur denunciando la rottura umanistica della città post moderna, prendono senso sempre a partire dal contrasto tra i diversi modi di valorizzare l’abitare. Non credo che nelle foto di G.Mora questi valori siano determinanti. Il suo punto di vista manifesta l’aspetto pungente di un incontro con un edificio aldilà del registro umanistico. Ecco perché suggerisco di indovinarne le significazioni partendo da un salto metafisico, come se alla domanda cos’è un edificio, la risposta della struttura rappresentata fosse: un edificio è un edificio… E nel vuoto di senso di questa tautologia, non potessimo che udire il suono sgangherato di una ghignata.

Indifferenza ai valori umanistici dell’abitare, derealizzazione delle strutture imponenti che nel nostro immaginario identificano il paesaggio urbano, emersione di una visione che trasforma il pieno dell’edificio- simbolo (molte foto raffigurano grattacieli), in un vuoto, in un paradossale buco che ci rinvia a ciò che ho definito l’Altra città.

Vertigo

4. Come segnalavo sopra, mi piace ritrovare il tratto blasé della visione di G.Mora nelle caratteristiche formali dell’immagine. Mi ripeto, le sue foto sono scattate preferibilmente nel tardo pomeriggio, quando il cielo delle città si presenta azzurro grigio o biancastro. Questa scelta mi ha indotto a pensare che l’artista non voleva cadere nella trappola del naturalismo o degli stereotipi fotografici. Non vedo nemmeno nelle sue immagini l’aspetto spesso un po’ ebete della bella fotografia, tutta forma e contenuti rispettabili. Aggiungerei che G.Mora è indifferente anche nei confronti del perbenismo fotografico, il punto di vista che vorrebbe vincolare le immagini ad un a-priori etico, schierandosi nettamente su posizioni che potremmo definire scettiche o ciniche (rispetto l’attuale assiologia dei valori fotografici). Ma se accettassimo questa impostazione dovremmo definire il punto di vista del fotografo uno sguardo critico (sulla città, sugli edifici più evidenti di una metropoli etc..). Il problema è che più ci penso e maggiore è l’impressione che G.Mora si ponga aldilà della critica o dell’analisi (dei punti di rottura o di forza) delle città che mette nel mirino. Definirei pertanto la visione di Mora, uno sguardo dadaista sulla meta-città. Ovvero l’emblema architettonico che finisce davanti al suo obiettivo, sembra subire di colpo uno straniamento che ne annulla le magnificenze, destinandolo ad un gioco di interpretazioni dal sapore nuovo.

Un cortile tra i cieli

Le composizioni di fotografie di diversi edifici, esaltano il bricolage di significazioni che frantumano l’idea che queste strutture abbiano i valori abitabili e rassicuranti che in qualche modo ho messo in discussione sopra.

La bellezza di questi polittici insensati dal punto di vista della logica delle immagini, ha più a che fare con ciò che nella cultura giapponese viene definito wabi-sabi, piuttosto che appellarsi al To Kalon greco.

Wabi è la bellezza dell’asimmetria, dell’imperfezione; Sabi significa solitudine ovvero l’assenza dell’entusiasmo tipicamente occidentale di fronte alla bellezza intesa come eccitamento.

Sulle pagine di MyWhere ho già utilizzato il concetto wabi-sabi per sottolineare alcuni effetti estetici del grande fotografo Akyyoshi Iro. Ma mentre il giapponese usa un eccesso di bellezza e di maestria tecnica per suscitarci emozioni in contrasto con le attese della perfezione formale, G.Mora narcotizza i vangeli tecnologici e con somma spezzatura sottrae ai suoi edifici le loro funzioni, alterandone il significato espressivo.

Il suo sguardo ricreato selezionando pezzi o parti di fotografie, usa il wabi-sabi per ricordarci, attraverso le immagini degli edifici di solito presentati come il culmine delle passioni costruttive dell’uomo, il retrogusto leggermente amaro della loro ruvida inadeguatezza, dell’imperfezione scivolosa che in ultima analisi li rende Altri rispetto le nostre vite. Suppongo che sia la percezione della loro non-esistenza rispetto al nostro senso dell’abitare a rendere così squisita ed evocativa la loro visione.

Tree & mirror

 

All images are protected by Copyright ©Gilberto Mora
Used by permission.
All rights reserved

Autore: GILBERTO MORA
Serie: T.C.A.A. (The City All Around)
Dimensione fotografie: 80 x 60 cm
Tecnica: Scatti con camera digitale, stampa digitale su carta Matte HR con plastificatura con pellicola opaca, montata su pannello light PVC
Tiratura: 5 copie numerate e firmate
Curatore: Raimonda Bongiovanni delle Bongiovanni Gallerie d’Arte
Info per mostre e acquisto:
tel +39 335 1301077

 

Lamberto Cantoni
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7 Responses to "Gilberto Mora. Metafisica dell’Altra Città"

  1. Lamberto Cantoni
    Antonio   14 Dicembre 2012 at 16:27

    Bellissime immagini che de-platonizzano la superbia dei grattacieli. Mi fanno pensare al Friz Lang di Metropolis e al razionalismo pieno di Phathos di Wenders giovane. La foto più wani sapi mi sembra il ritratto dell’autore.

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  2. Mara   14 Dicembre 2012 at 18:57

    Belle, mi piacciono. Ma non abbandonare la passione primigenia… 🙂

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  3. Caterina   15 Dicembre 2012 at 09:16

    che dire..Proud of you dad!
    sopra all’altro divano il muro piange…

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  4. marcello   15 Dicembre 2012 at 17:34

    L’assoluta desolazione delle città incute sentimenti che vanno dalla solitudine al timore reverenziale che si prova per i giganti.
    Mi sembra di stare di fronte alle Piramidi che vivono con la superba consapevolezza di sopravvivere a tutti i loro spettatori.

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  5. Sandro   15 Dicembre 2012 at 18:41

    L’esasperazione semantica di un’implosiva semplicità metropolitana sembra sottacere il profondo nichilismo di Mora: questo è il mondo.
    Prenderne atto non presuppone una prometeica ribellione o un luciferino ritirarsi negli Inferi. E’ solo rassegnazione, non redimibile da un’estetica fotografica volutamente rinunciataria e riconducibile a un’iconica trasparenza priva della possibilità di riscatto.
    Ovunque e dovunque: one way.

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  6. Laura   18 Dicembre 2012 at 17:06

    Almeno qualcosa si muove…

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  7. Federica   10 Gennaio 2013 at 20:13

    Affascinanti. Bravo Mora!

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