Il Bello e il Buono di Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti

Il Bello e il Buono di Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti

ITALIA – Un importante libro uscito verso la fine del 2011, edito da Marsilio, a cura di Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti, esplora le varie dimensioni del paradigma della sostenibilità nella moda.

Il concetto di sostenibilità, come dicono i politici, è bipartisan, ovvero mette d’accordo più o meno tutti. A parte il numero sempre più esiguo di bastian contrari, favorevoli alla plastificazione del mondo e che, se fosse possibile, monterebbero una micro centrale nucleare nello scaldabagno di casa, ogni persona di buon senso si trova d’accordo con una limitata serie di asserzioni assunte come se fossero un a-priori:
a. il nostro pianeta ha risorse limitate;
b. le stiamo consumando troppo in fretta;
c. dobbiamo rallentare i consumi più onerosi per il pianeta senza danneggiare l’economia;
d. dobbiamo attivare modalità di manutenzione delle risorse naturali.

Pietra Pistoletto, Abito-tappeto-luce, 2004.
©Max Tomasinelli

Le asserzioni elencate, per il senso comune, cominciano a funzionare come un’assiomatica. Valgono cioè come dei principi validi aldilà di ogni ragionevole dubbio che da un po’ di tempo hanno trovato un concetto sintetico, la sostenibilità, capace di distribuirne l’ombra semantica su tutte le dimensioni della nostra forma di vita. Ma l’uso disinvolto, ripetuto fino alla noia, della parola magica evocata all’inizio, ha prodotto una sua sempre più diffusa circolazione direttamente proporzionale allo svuotamento di contenuti certificabili. Niente di particolarmente nuovo. I meccanismi della moda si nascondono anche nel linguaggio. Da sempre, alcune parole con leggerezza invadono i nostri discorsi per poi repentinamente ritirarsi nella quiete dei dizionari.

DIESEL, Love Nature, 2004
©Henrik Halvarsson

Durante il loro dominio le troviamo un po’ dappertutto. Per esempio oggi le aziende della moda che pensavamo fossero ancorate al principio del dispendio produttivo del tipo “vizi privati per pubbliche virtù”, sembrano soggiogate dal fascino della parola magica. Non si contano più i marchi che si dichiarano, in un modo o nell’altro, a favore dell’ambiente; marchi che presentano abiti prodotti con fibre e tessuti ecocompatibili, accessori fatti con materiali riciclati etc.

Nei loro siti web vengono esibiti protocolli che evidenziano il rispetto di processi produttivi puliti, responsabili, etici. Ma come facciamo a sapere se dicono la verità? In base a quali criteri possiamo verificare se il loro appello alla sostenibilità è sincero e corretto dal punto di vista del sapere disponibile?

Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti

Un bel libro editato nel 2011 da Marsilio in collaborazione con il Centro di Firenze per la Moda Italiana, ci aiuta a capire le molteplici dimensioni del concetto di sostenibilità, affrontandolo da numerosi punti di vista. Il lavoro di ricerca si compone di cinque parti consequenziali, scritte da autori che coprono una vasta gamma di competenze. La prima, I fondamenti, è dedicata all’analisi dei cosiddetti stakeholder, ovvero dei soggetti individuali o collettivi che possono influenzare o essere influenzati dall’azienda. Mi pare di capire che secondo gli autori la loro gestione oggi implichi la creazione di valori condivisi che non coincide con la supremazia del profitto. In breve, oggi occorre creare una struttura che connetta concorrenza, opportunità di crescita e cooperazione. A questo punto, il sentimento morale legato al concetto di sostenibilità può essere il valore che fonde l’altruismo con il business.
Nella seconda parte del testo di Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti intitolata, Il design e i materiali, diversi interventi focalizzano la sostanza materiale con cui si producono oggetti-moda e i processi innovativi implicati dal loro possibile inserimento all’interno del paradigma della sostenibilità. In sostanza una azienda dovrebbe sempre porsi domande del tipo: come ridurre gli sprechi? Come limitare l’impatto ambientale causato dalla produzione dei tessuti o quant’altro? Come aumentare il riciclo dei prodotti che hanno esaurito il loro ciclo di vita?… e ovviamente trovare soluzioni efficaci.
La terza parte del libro, dedicata al Mercato e consumatori, vengono analizzati diversi modi di mettere in pratica mode sostenibili. Gli autori dimostrano che esistono differenti modelli di business, attraversati da una idea centrale che ruota intorno all’emergenza ecologica. Il loro obiettivo è dimostrare che aziende affermate, di differente dimensione e caratterizzate da strategie di mercato non sovrapponibili, fanno della sostenibilità non una narrazione di comodo per strizzare l’occhio al consumatore critico, bensì uno dei motori più importanti della produzione dei valori immateriali dell’ identità della marca.
La quarta parte del libro, la più strategica, Politiche: obiettivi e strumenti per la moda sostenibile, mette a fuoco gli steps da superare per dare un futuro alla sostenibilità della moda italiana: il controllo della certificazione dei marchi, i passi fondamentali che una azienda deve compiere per incamminarsi verso una sostenibilità sostenibile, nascita di un nuovo marketing eco-fashion capace di far cambiare di passo una moda stagnante (per via di modelli di consumo resi obsoleti dalla crisi) con una sustainability declinata con la bellezza.
La quinta e ultima parte del libro, Atlante iconografico, è praticamente un piccolo catalogo di atti di comunicazioni di moda e di immagini di prodotti proposti da numerose aziende che si riconoscono nel paradigma della sostenibilità.

Gli autori del “Il bello e il buono”, Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti, con uno stile di scrittura rapido e incisivo, chiariscono bene la situazione complessa della sostenibilità nel contesto della moda, presentandoci numerosi case history e fornendoci fondamentali strumenti per pensarla con precisione ammirevole. Ma se posso permettermi una critica, direi che il loro tentativo di fondere le suggestioni platoniche con la ragione analitica di tradizione aristotelica cozza contro la troppo evidente partigianeria degli autori nei confronti della green economy. Non sarebbe stato male presentare interventi nati a partire da un sano scetticismo nei confronti di assunzioni verosimili ma ancora tutte da dimostrare. Per esempio: è proprio vero che il consumatore vero, quello che produce fatturato per le aziende, è così sensibile alle qualità green? E’ vero che il prezzo per i prodotti sostenibili non è più una variabile decisiva? Il riciclo diffuso degli abiti dipende più dalla crisi o da una genuina fede del consumatore post-post moderno nella necessità di stili di vita sostenibili? Si è mai visto una moda vera, virulenta come il virus dell’influenza, basata su idee buone e sane? Dove? Quando? A che condizioni?

Attenzione, non voglio essere frainteso. Sono eccitato, interessato e curioso come tanti spero, dal nuovo paradigma della moda sostenibile. Voglio soltanto dire che sarebbe sano non farla diventare una ideologia, ma un vero dibattito.

Lamberto Cantoni
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15 Responses to "Il Bello e il Buono di Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti"

  1. Yana   21 Novembre 2012 at 23:28

    Dopo aver letto il suo articolo mi sono resa conto che il problema di eco- sostenibilita e’ molto attuale. Tutti ne parlano ma nessuno fa capire bene i reali benefici….in ogni caso il profitto sara’ sempre la priorita’ se non verranno fatte leggi uguali per tutti. Per esempio in Russia da dove vengo io il profitto comanda e la natura e le persone pagano per questo. E purtroppo l’energia viene sprecata, senza rendersi conto. spero che la cultura dell Europa arrivi presto in Russia. Purtroppo per fare un dibattito e’ un problema perche le persone (per esempio i giornalisti ) non sono preparate tecnicamente e non sanno come parlare di eco sostenibilita. Grazie. Yana

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  2. Martino   25 Novembre 2012 at 15:58

    La sostenibilità applicata al sistema moda rischia di restare l’ennesima tendenza incompresa. L’abuso del concetto di moda sostenibile che è sulla bocca e nelle strategie aziendali di quasi tutti i Brand non potrà mai avere effetti benefici sul pianeta e sull’ambiente se non viene compreso a fondo. I manager che portano avanti una “green strategy” dovrebbero farsi un esame di coscienza e bisognerebbe capire quanto in effetti seguono questa strada per profitto e quanto per una consapevolezza di fondo.
    Un modo per verificare la reale credibilità di un marchio che si dice attento alle condizioni socio-ambientali della sua impresa sarebbe di andare a monte nei processi di produzione avvicinandosi là dove tutto ha inizio: nell’agricoltura.
    Sarebbe molto utile ritrovare negli abiti e accessori come già avviene nel settore alimentare il concetto di tracciabilità. Da dove viene il cotone? Cosa hanno mangiato le mucche prima di diventare giacca? Come sono le condizioni di lavoro nell’azienda che produce i jeans in turchia? da dove provengono i materiali?
    Se i brand iniziassero realmente a mostrare al consumatore finale tutte le tappe e le attenzioni che sono state prestate durante le fasi della produzione e distribuzione, si avrebbe una naturale scrematura di chi davvero sente il concetto di sostenibilità e lo attua e di chi poi utilizza questa strategia solo per reinventare la propria identità di marca.
    Fare una bicicletta con le lattine riciclate e stamparci sopra un logo mettendo il tutto in vetrina, non deve e non può essere preso come atto di salvaguardia dell’ambiente.
    La responsabilità di questo cambiamento deve farsi propria anche dei consumatori che invece di subire e subire potrebbero iniziare a scegliere e a rifiutare eclatanti prese per i fondelli da parte dei marchi.
    Per il momento non ci resta che fare molta attenzione nelle scelte d’acquisto non permettendo che un marketing irresponsabile distrugga questa nuova speranza di futuro sostenibile.

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  3. Lamberto Cantoni
    Lamberto   26 Novembre 2012 at 09:38

    Caro Martino se tutti seguissero i tuoi consigli vivremmo in un mondo migliore. Come mai alle aziende riesce così difficile scegliere la via prefigurata nel tuo intervento? E’ solo un problema di business? Siamo veramente intossicati senza remissione da un cieco desiderio di profitto?

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  4. Arianna Fuccio
    Arianna F.   2 Dicembre 2012 at 09:31

    dire di essere “sostenibile” al giorno d’oggi, è tutt’altro che un valore. Molte aziende non hanno la più pallida idea di cosa significhi questo termine eppure credono di poterne fare il cardine della loro strategia: è proprio vero che il marketing è una forza. Quanti consumatori si possono ingannare? quante volte possiamo dire che il capo che indossiamo sta davvero rispettando la natura? Pochissime. Il problema più grande però, a mio avviso, è il cliente. Troppo spesso questo finge di credere nel “verde” e di preferire capi che sposino i problemi che il mondo sta indubbiamente andando ad affrontare ma poi, in realtà, poco conta se quello che stai comprando è davvero ricavato dal riciclaggio di plastica o altro. Seguiamo la corrente e troppe poche volte ci scagliamo contro chi palesa di non aver cura dell’ambiente. Vorrei che tutti potessero seguire l’esempio della nike, forse uno dei pochi brand che ha capito che, se vuole sensibilizzare il consumatore ed arrivare al suo cuore, deve impegnarsi per davvero. Non molti anni fa, come sappiamo, lo scandalo dello sfruttamento dei bambini e dell’inquinamento in cina costò all’azienda il 13% del profitto annuo. E’ da allora che Nike ha inziato un processo- Green Enviremental Apparel- con il quale ricicla il PVC e la plastica trasforandolo in magliette e scarpe; in più essa stessa finanzia le aziende che vogliono entrare nel mondo della sostenibilità ma non ne hanno le risorse. Comunicazione, ecco cosa serve. Le maglie nike non hanno più la sola etichetta, ma un cartellino che spieghi come è stato ricavato quel capo, cos’era prima. Anche la converse, che è gestita dal colosso sportivo, è riuscita a vincere la B Label, che la colloca nel mondo come il marchio nel settore delle calzature più ecosostenibile del mondo, con la sua scelta di ricavare gomma da foreste che vengono coltivate e protette e non col disboscamento. Ora, è vero che tendenzialmente siamo un popolo insensibile che finge di essere interessato ma poi, nello specifico, non si aspetta nulla, perchè non ci lasciamo conquistare davvero da brand che dimostrano di fare qualcosa per noi?
    Io credo che la sostenibilità oggi sia ancora solo una bella parola, però nessuno dice che col tempo, i marchi e le condizioni atmosferiche riusciranno a sensibilizzarci per davvero e a spingerci a cercare davvero un prodotto “buono”. Per adesso è un’ideologia, ma chi può sapere come si evolvono le tendenze?

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  5. Damiano   3 Dicembre 2012 at 11:41

    La sostenibilità è estremamente importante nella vita odierna ma come mai durante il periodo natalizio questa realta cosi evidente viene cancellata dalla nostra mente? Basta guardare i prodotti cosmetici, tutti sappiamo che molti vengono testati sugl’animali eppure nella nostra scelta di doni scegliamo marche che non sono a stretto contatto con la sostenibilità

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  6. Sofia D'amore
    SOFIA D.   3 Dicembre 2012 at 15:21

    Si sa che la sotenibilità è la capacità dell’ umanità di rispondere alle proprie esigenze del presente senza pregiudicare le capacità delle generazioni future di rispondere alle loro necessità.
    La sostenibilità è un tema molto trattato negli ultimi tempi, che sta influenzando la nostra vita e soprattuto il modo di produrre di molte aziende, in tutti i settori, soprattutto in quello del fashion, dove molti stilisti si dimostrano sempre più sensibili al tema del rispetto dell’ ambiente e dei diritti dei lavoratori.
    Nello scenario della moda attuale spicca la figura di Vivien Westwood, che ha deciso di di fare della sostenibilità un vero e proprio stile di vita.
    La stilista è l’ iniziatrice della “Climate Revolution”, un atto di accusa nei confronti dei meccanismi che hanno regolato fino ad oggi la vita economica e finanziaria dei paesi più progrediti, perché fondata su uno sfruttamento poco lungimirante delle risorse del pianeta.
    Diverse sono le iniziative della stilita nell’ ambito della moda; per la collezione Red Label FW 2011/2012 ha creato delle t-shirt il cui ricavato andava a supporto della campagna “No place like home” in sostegno dei rifugiati climatici. Queste T-shirt, realizzate in cotone organico,sono state indossate da celebrità come Naomi Cambell e Gillian Anderson, per contribuire a dar voce alla causa.
    Nel 2011, la Westwood ha utilizzato cavi elettrici, alluminio di scarto, vecchi cartelloni pubblicitari, per ricreare una collezione di borse a accessori chiamata “Ehical Fashion Africa” . Questa collezione è stata realizzata da delle donne africane alle quali la stilista stessa ha insegnato ad utilizzare i materiali e a trasformarli in accessori, permettendo a quest’ ultime di acquisire delle competenze che ritorneranno utili anche in futuro.
    Con questa collezione la stilista ci ha dimostrato che non c’è nulla che non possa essere riutilizzato, un rifiuto, infatti, può essere potenzialmente trasformato in qualcosa di desiderabile, e queste borse ne sono un esempio.
    Nel 2012 la stilista ha puoi partecipato come giudice al concorso Red Carpet Green Dress, in cui stilisti affermati o emergenti propongono modelli di abiti ecologici e l’ abito vincitore verrà indossato sul tappeto rosso durante gli Academy Awards.
    Oltre a queste iniziative, è importante rendersi conto che il messaggio ecologico è una delle costanti del lavoro di questa designer, che continua a proporci una moda diversa con un forte contenuto sostenibile.
    L’ ecosostenibilità non si dimostra solamente nell’ operato di una persona, ma anche e soprattutto nel suo comportamento; Vivien Westwood è un vero e proprio esempio perché ha abbracciato il tema della sostenibilità nel modo di vivere e comportarsi, proponendo un modello di vita che tutti noi nel nostro piccolo possiamo abbracciare.

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  7. Lamberto Cantoni
    Lamberto   5 Dicembre 2012 at 11:57

    Sono d’accordo con Sofia: Vivienne Westwood oltre ad essere stata una delle prime grandi interpreti della moda a scegliere di praticare la sostenibilità, sembra anche molto coerente. In realta’ non dovremmo dimenticare che ci sono stati grandi stilisti assolutamente sostenibili come VW che non hanno mai sottolineato ideologicamente questo loro impegno. Per esempio, Margiela quando si interessava di moda era autenticamente sostenibile. Purtroppo il paradigma della sostenibilità in Italia ha assunto pieno valore regolativo dopo la sua uscita dal circuito della moda. Ma la sua linea Artisanal e’ forse la prima serie di collezioni apparse nella storia della moda nelle quali ritroviamo quasi tutto ciò che oggi alla gente piace riconoscere in un prodotto etico.

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  8. Valeria   9 Dicembre 2012 at 17:47

    Sono d’acorrdo con quello che e’ stato scritto in questo articolo. Ho avuto anche la possibilita di leggere il libro “Il bello e il buono” qualche mesi fa, e per qualcuno che non e’ di madrelingua italiana l’ho trovato ben scritto, chiaro e facile di capire. I concetti sono sintetizzato bene e in un moda che potevo capire anche i discorsi piu difficile e complesse.

    ll concetto di sustainabilty o ‘eco-friendly’ non è uno nuovo ed è qualcosa che è stato un punto di discussione nei ultimii anni in tutto il mondo. Comunque, quando paragono il livello di consapevolezza che il pubblico l’italiano ha rispetto a il livello di copertura dei mezzi di comunicazione negli Stati Uniti or L’Australia c’e una grande differenza. Trovo che molti italiani non hanno un idea del concetto di sostenibilita ben chiaro. Sento che i mezzi di comunicazione e le istituzioni educative non dedicano abbastanza spazio a questo soggetto, pero penso che il pubblicazione di questo libro e un passo nel direzione giusto.

    . Prima che possiamo affrontare il problema di sostenibilita che circonda l’industria dobbiamo confrontare i problemi che riguardano la consapevolezza . Non si puo’ migliorare il problema se non capiamo la gravita della situazione. Molte iniziative sono già in azione,pero il passo lento in cui molte industrie cambiano le loro abitudini non e’ abbastanza . Per combattere i problemi che circonda il sustainability dobbiamo stare in piedi insieme e confrontarlo come un pubblico globale.

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  9. Sara S.   9 Dicembre 2012 at 20:03

    Non dimentichiamo che per sostenibilità si intende anche la capacità di garantire condizioni di benessere umano, infatti, l’obiettivo della sostenibilità non trova fondamento se ciò che si vuole conservare per il futuro è una condizione di povertà, indigenza e assenza di libertà. Molte aziende si definiscono sostenibili solo perché vendono maglie realizzate con fibre 100% naturali, ma se dietro quell’etichetta vi fossero persone sottopagate e sfruttate che lavorano in condizione opprimenti, la cosa cambierebbe?
    “L’impresa umanistica” di Brunello Cucinelli è senz’altro un esempio da seguire.
    Cucinelli ha restaurato gran parte del borgo di Solomeo nelle cui case del centro storico ora lavorano i suoi dipendenti, creando così un ambiente di lavoro diverso dove vivere e lavorare bene.
    Il fondatore valorizza la libertà e crea un gruppo unito dove ognuno ha un ruolo da svolgere per il bene di tutti, l’umanità è il presupposto per realizzare prodotti di qualità. Un approccio che valorizza la Corporate Social Responsability come leva competitiva per il miglioramento delle performance aziendali, del benessere dei propri dipendenti e dei luoghi di lavoro. Il denaro riveste un valore vero solo se è investito per migliorare la condizione materiale e spirituale delle persone.
    Anche Ernst & Young lo ha premiato come imprenditore del 2009 per motivi come la continua ricerca di benessere psicofisico e della qualità della vita negli ambienti di lavoro, l’importante azione svolta per il recupero e il restauro di costruzioni storiche e la forte attenzione dimostrata per l’educazione e la cultura.
    Brunello Cucinelli, un imprenditore che ha saputo anticipare una tendenza globale, mettendo al centro la dignità delle persone e l’importanza dell’ambiente che non deve essere visto come qualcosa di secondario e periferico.
    La moda ai ritmi della terra? Anche umani soprattutto.

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  10. francesca.v   10 Dicembre 2012 at 00:20

    Sicuramente in accordo con Sara S, vorrei descrivere il caso dell’azienda Giorgio Armani, per quanto riguarda il tema della sostenibilità, intesa come la capacità di garantire condizioni di benessere umano.
    Giorgio Armani, infatti, per stimolare l’opinione pubblica sul dilemma della carenza e dell’inquinamento dell’acqua, cause di malattie, nel 2011, ha deciso di dedicarsi ad una campagna su larga scala, “Acqua For Life”, assieme all’Unicef e a Green Cross International.
    Lo stilista ha tratto ispirazione dalle fragranze Acqua di Giò e Acqua di Gioia, ed ha donato 100 litri d’acqua ogni volta che qualcuno acquistava uno dei due profumi Armani, riuscendo così a costruire sistemi di raccolta dell’acqua in grado di fornire ogni anno almeno 40 milioni di litri di acqua potabile per la popolazione del Ghana.
    Proseguendo il progetto nel 2012, Armani ha esteso l’iniziativa anche per la popolazione della Bolivia, creando, inoltre, una pagina facebook, http://www.facebook.com/acquaforlife, nella quale, cliccando su “mi piace”, si donano 50 litri di acqua, senza spendere un euro.
    sul sito dedicato alla campagna, http://www.acquaforlifechallenge.org, si può anche partecipare alla Water Race, una marcia virtuale per l’acqua, nella quale ogni utente può creare il suo avatar, e controllare i litri raccolti, che partono da Milano,hanno già raggiunto il Ghana e stanno arrivando in Bolivia.
    Inoltre Armani,dopo aver ricevuto i disegni di ringraziamento dai bambini delle comunità che ha aiutato con questa iniziativa, ha deciso di usarli per realizzare due nuove T-shirt, in edizione limitata, in vendita in alcuni selezionati negozi Emporio Armani di cui, il 30% del prezzo, sarà donato in beneficenza.
    Quest’esempio per farci riflettere su quanto un brand, che sembra non avere nulla in comune con i canoni della sostenibilità, possa davvero contribuire, sia a livello economico, sia attraverso la propria brand image.

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  11. Arianna M.   10 Dicembre 2012 at 09:51

    Sono d’accordo con il commento di Martino. E’ impossibile distinguere i brand che usano la sostenibilità come “tendenza” da quelli che vi credono a pieno e che si battono per essa. Sostenibilità è un termine che può avere molte interpretazioni, e ogni marchio lo reinterpreta ed è sostenibile a modo proprio. Ma è bello comunque pensare che ci siano dei brand che abbracciano la sostenibilità non solo per seguire questa “moda”, ma perché sentono il dovere di far qualcosa per la situazione che ci circonda. Voglio portare come esempio Tommy Hilfiger: un designer, ma soprattutto un uomo come tutti, che ha deciso di usare la propria visibilità per fare qualcosa di positivo per le persone meno fortunate di tutti noi. E’ attivamente impegnato in diverse cause di beneficenza, ed ha collaborato con diverse società, dando in beneficenza i ricavati di alcune sue creazioni. Cose che fanno tutti? probabile; ma ha anche creato da zero, campi estivi per bambini bisognosi, e progetti per risollevare le vite di popolazioni del terzo mondo, tutti da lui stesso finanziati e alle quali ha personalmente partecipato.
    Non ho idea di chi sia o non sia sincero, possiamo solo sperare che in ogni caso questa “sostenibilità” che tanto proclamano aiuti in qualche modo il mondo in cui viviamo.

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  12. Lamberto Cantoni
    Lamberto   18 Dicembre 2012 at 13:52

    La moda quando funziona al massimo delle sue potenzialita’ ci fa desiderare cose che non sapevamo di desiderare.
    Cos’è dunque il desiderio? E’ qualcosa che può rientrare completamente all’interno di schemi razionali? Direi di no. Il desiderio ci spinge ad oltrepassare i limiti di qualsiasi natura essi siano. Il desiderio e’ per l’In più… Il desiderio e’ ancora, ancora, ancora.
    La sostenibilità sembra invece avere a che fare con i confini interni del desiderio. Siamo sostenibili quando non oltrepassiamo i limiti.
    Emerge quindi un gioco di esclusione. O il desiderio o la sostenibilità.
    Ma la moda come la conosciamo può sopravvivere senza desiderio, quindi senza oltrepassare il limiti?

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  13. Ilaria p.   29 Dicembre 2012 at 18:01

    Leggendo l’articolo e i commenti mi era sorta anche a me la domanda su quanto la sostenibilità possa essere considerata desiderio per i clienti moda. Nella società d’oggi si associa la moda all’esclusività, che non è altro che novità e unicità. Riflettendo un capo sostenibile (preso ad esempio un abito realizzato con materiali riciclati) non è percepito come nuovo, anzi è luogo comune considerarlo brutto, non al passo con i tempi. In tutte le città sono presenti negozi che vendono prodotti di riciclaggio, suppongo che tutti ci siano passati davanti e abbiano compreso la grande opera di bene che ci sia alle spalle ma credo anche che non scattata la scintilla del desiderio che si prova con l’ultimo capo “in” uscito, questo semplicemente perché lo percepiamo brutto e non desiderabile, questa sensazione negativa prevale su quella positiva della sostenibilità.
    Credo che stia a ognuno di noi l’obbligo di cambiare l’idea che si ha di sostenibilità rendendola anche desiderabile, questo forse avverrà quando la sostenibilità inizierà a essere un aspetto di routine per le aziende, non un concetto nuovo, perché la società d’oggi è spaventata dai cambiamenti e scappa invece di accettarli, specialmente nel nostro paese.

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  14. Margot Ferri
    Margot F.   15 Gennaio 2013 at 01:25

    Sono molto d’accordo con l’ultimo commento del professor Lamberto. Il concetto di desiderio si discosta molto da quello di bisogno di un qualsiasi oggetto, è opportuno quindi circoscrivere attorno ad ognuno dei seguenti concetti un proprio spazio. I bisogni sono parte integrante della condizione umana, e cioè non sono creati da operatori di mercato, in questo caso, quindi, l’individuo sente il bisogno di possedere un determinato prodotto in funzione della sua utilità reale, rifacendosi quindi ad un contenuto razionale. I desideri, invece, vengono direttamente influenzati dal mondo del marketing. Il prodotto diviene un’ esperienza, andando a soddisfare i desideri, che però, una volta soddisfatti causano l’esplosione di un’energia che porta il soggetto a nutrire nuovi desideri. Si parla quindi di un processo in continuo movimento. Per dare inizio a questo processo, gli addetti al marketing devono costantemente cercare di rendere il prodotto appetibile. Nel mondo della sostenibilità, troviamo prodotti appetibili? Troviamo prodotti che facciano scattare in noi quella scintilla che conseguentemente accenda in noi il desiderio di possedere ad ogni costo quel prodotto?
    Con l’emanazione di alcune nuove leggi, riguardanti la riduzione di inquinamento, il cosiddetto effetto serra, la gestione del deterioramento ambientale e via dicendo, molte imprese hanno saputo sfruttare la possibilità di aumentare il profitto “facendo del bene alla terra”. Ma a quanto pare, non basta entrare nella classifica delle 50 aziende più “sostenibili” al mondo, se i consumatori, per primi, non sono ancora abbastanza pronti per non ascoltare i propri desideri, per poi dare spazio al prodotto “buono”. Ma di chi è la colpa? Del consumatore poco informato? Ma se fosse così, sono le aziende che dovrebbero comunicare maggiormente e in modo più chiaro, facendo emergere i benefici che ne trae sia il consumatore stesso, che l’ambiente in cui vive. Se, invece, il problema non deriva dalla scarsa comunicazione, ma dal fatto che la moda non si può permettere di sopravvivere senza desiderio? Probabilmente il vero problema deriva dall’incapacità, da parte di molti consumatori, di spezzare le proprie abitudini d’acquisto, il proprio modo di agire e di pensare al prodotto stesso, portandoli a scegliere i prodotti di sempre. Ma la strada più facile, non è sempre la migliore.

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  15. Sara B.   15 Gennaio 2013 at 19:45

    Sulla sostenibilità sono stati scritti articoli, trattati, poemi; hanno girato film, documentari e hanno fatto conferenze redigendo parametri paragonabili ai 10 comandamenti per il loro dogmatismo intrinseco e la loro rigidità. Ma quali sono i soggetti sottintesi a queste operazioni?! I medesimi che hanno provocato la necessità di una prevenzione ambientale e quindi lo sviluppo del sostantivo “sostenibile” nel campo ambientale. Governi, corporazioni, multinazionali e imprese hanno sempre cercato di seguire la via più redditizia in campo di affari senza tracciare un bilancio degli effetti nocivi prodotti finchè questo non è diventato necessario dato il risveglio della coscienza sociale che ha rotto il silenzio e ha reso nota l’allarmante situazione. Lentamente questo concetto ha preso campo nella mente del consumatore medio più per quanto riguarda la sostenibilità nel settore alimentare che in quello industriale e tessile. Infatti alimentarsi con qualcosa di dannoso o non tracciato è visto come qualcosa di più grave rispetto a vestirsi con abiti creati da esperimenti chimici, che dissipano beni naturali e che sfruttano manodopera minorile e/o analfabeta per una convenienza finale in questioni di lucro. E’ positivo l’incremento di sensibilità per quanto riguarda il green-food e il fair-trade grazie anche a numerosi documentari tra cui Food inc. che personalmente ha colpito gli stimoli necessari ad attuare un cambiamento nei consumi e ad allontanarsi da cibi realizzati da multinazionali anni luce distanti dal terreno alimentare; ma ha ancora un segno negativo l’incidenza dei consumi di prodotti sostenibili nel settore moda. Purtroppo ancora siamo di fronte ad un consumatore medio che non è disposto a pagare di più per tali prodotti, nonostante la nobile causa che egoisticamente si rifiutano di aprire ai propri occhi, anche per un fattore odierno di crisi che limita gli acquisti e li racchiude in un’ottica di risparmio. Personalmente una causa del problema è anche la poca comunicazione riguardante il tema nel settore moda; c’è poca credibilità nell’occhio del potenziale compratore che spesso non viene neanche raggiunto dai messaggi che trasmettono le aziende improntate verso questo nuovo modo di produrre. Come dice Martino nel commento precedente andrebbe intrapresa un azione di tracciabilità del prodotto moda sostenuta da una campagna istituzionale che colpisca il proprio target e indirizzi la propria sensibilità verso tali acquisti.
    Inoltre andrebbe cambiato anche il modo di vedere il prodotto moda sostenibile che è ancora erroneamente ritenuto poco attento al valore estetico, ma sottolineando l’indirizzo rivolto a tale tematica anche da grandi firme tra cui Gucci, Armani, Diesel, Vivienne Westwood e tanti altri.
    La mia finale osservazione personale è che in primis l’Italia dovrebbe dare il “buon esempio” data la fama ridondante che le grandi firme italiane hanno in tutto il mondo e rinnovare un Made in Italy ripartendo dalla sostenibilità.

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