Il lato oscuro di Collodi nel Pinocchio di Matteo Garrone

Il lato oscuro di Collodi nel Pinocchio di Matteo Garrone

ITALIA – Mentre Tolo Tolo, la nuova attesa commedia satirica di Checco Zalone, si pone in testa alle classifiche del box office italiano, restiamo in zona podio parlando del Pinocchio di Matteo Garrone, rimasto al primo posto durante la settimana di Natale. Lo abbiamo visto per voi, incuriositi su cosa di nuovo di potesse dire sul burattino che voleva diventare bambino

Continuano le uscite dei film più attesi sul grande schermo in queste due settimane festive che aprono il 2020. Oltre allo stucchevole e deludente capitolo finale della saga di Star Wars, appetibile solo per i fan affezionatissimi del franchise, siamo stati al cinema una seconda volta per vedere il nuovo Pinocchio di Matteo Garrone, rimasto in testa alle classifiche italiane durante la settimana di Natale e scalzato solo negli ultimi giorni dal ciclone Tolo Tolo, di Checco Zalone. Ad incuriosirci era in modo particolare cosa di realmente nuovo si potesse dire sul romanzo di formazione di Carlo Collodi, già soggetto a innumerevoli adattamenti teatrali, trasposizioni televisive e cinematografiche che ne avevano scavato ampiamente i piani di lettura esoterici e teologici ricavabili dalla storia del burattino più amato di sempre. Senza dubbio il Pinocchio di Luigi Comencini, realizzato come miniserie per la Rai nel 1972, rappresentava nei nostri pensieri una pietra di paragone quanto meno ingombrante per un’eventuale nuova opera.

Pinocchio di Luigi Comencini

A ciò si aggiunge il fatto che i tempi del lungometraggio, che pure ha dalla sua la specificità di un linguaggio differente che permette nuovi scorci di originalità, sono inferiori a quelli di una miniserie televisiva, dove un cast di attori difficilmente eguagliabili permetteva una rilettura del romanzo inevitabilmente più completa. Restava da comprendere se il regista di Gomorra, Dogman e Il racconto dei racconti, fosse riuscito con la sua particolare firma d’autore a ribaltare i pronostici di una sfida di cui non si sentiva francamente la necessità. Mentre giungono i rumors su un testimone raccolto anche da Guillermo del Toro, strepitoso nel fantasy di guerra Il labirinto del fauno, cominciamo l’analisi dell’ultima fatica di Garrone partendo dall’ulteriore evidenza che in Italia manca negli ultimi anni una generazione di artisti in grado di cimentarsi col genere fantastico con la stessa meraviglia immaginifica che troviamo Oltreoceano. Ciò non solo per la discriminante oggettiva data dal fatto che un buon fantasy richieda lo stanziamento di budget proibitivi per la maggior parte delle case di produzione nostrane, ma anche perché qualcosa nello sguardo dei registi italiani sembra opacizzare, con un senso drammatico portato evidentemente dalla nostra storia culturale, quelle storie che dovrebbero far prendere il volo ai bambini e far tornare bambini gli adulti. È pur vero che già l’opera di Collodi, apparsa prima a puntate tra il 1881 e il 1882, poi pubblicata come libro per ragazzi a Firenze nel febbraio 1883 con il titolo definitivo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, risentiva degli influssi di altri romanzi di formazione dalle tinte fosche come David Copperfield di Charles Dichens e dai toni realistici del verismo letterario più o meno coevo. Per questi motivi, forse, classificare la storia della marionetta scolpita da Mastro Geppetto da un ciocco di legno come un romanzo per ragazzi o meglio come fiaba potrebbe essere considerata di per sé una forzatura. pinocchio garroneL’appartenenza o meno, da parte dello scrittore fiorentino, a una loggia massonica che spiegherebbe la presenza tanto fitta, nella storia, di rimandi alchemici e simbolici legati alla trasformazione di un’anima che cerca sé stessa nella sua forma più evoluta, non fanno che completare il quadro. In tale scenario la scelta stilistica con cui Garrone si era rapportato al fantasy nel film del 2015 e che in parte ritroviamo come tratti distintivi nel nuovo Pinocchio, potrebbero ritenersi aderenti allo stesso contesto letterario da cui è tratta la sceneggiatura. Entrando nel brumoso e scalcinato scenario fiorentino tardo-ottocentesco in cui Garrone ci presenta un Roberto Benigni perfettamente a suo agio nei panni consunti del “papà” del protagonista, prendiamo atto che la sua caratterizzazione del falegname sia in grado di conferirgli una personalità originale e convincente anche se paragonata all’interpretazione che ne diede Nino Manfredi. Diremmo, però, che se quest’ultimo ne diede un ritratto unico, frutto di un lavoro attoriale che lo mise in condizioni di divenire effettivamente personaggio, Benigni si muove su un più sicuro binario in cui tende a mettere in scena una versione compassata di sé stesso.

L’uso degli effetti speciali artigianali è in grado, grazie alla fotografia di Nicolaj Brüel, di creare quadri iconografici sognanti nei campi lunghi che sfruttano i paesaggi italiani, tanto urbani quanto marini e rurali. Meravigliosamente oniriche, anche nella loro patina gotica, le scene del bosco degli assassini e del mare aperto dopo l’episodio del Pesce-cane. Il tutto è impreziosito dalle aggiunte prostetiche del trucco di Mark Coulier, che compie vere e proprie meraviglie in grado di restituire la vita alle ruvide venature lignee di Pinocchio, come ai volti del teatro dei burattini e degli altri protagonisti. Fra questi, Gigi Proietti incarna nelle sue poche scene un magistrale e burbero Mangiafuoco.

Egregi anche Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo nei ruoli del duo che fu affidato agli indimenticati Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Il Gatto e la Volpe risultano esilaranti anche nella nuova resa caratteristica e mimica del film di Garrone, che indulge anche in una operazione lessicale sul testo di Collodi. Ricorre a più riprese lo “spizzichiamo”, che riadatta l’originario verbo collodiano “spelluzzicare”, nel motteggio dei due imbroglioni intenti a gozzovigliare nelle taverne a spese dell’ingenuo Pinocchio. Il quadro corale del mondo fantastico si arricchisce con i bravissimi Maria Pia Timo e Davide Marotta, rispettivamente nella parte di Lumaca e del Grillo Parlante. Eccezionale Teco Celio nei panni del giudice gorilla, che strappa sorrisi amari nel quanto mai attuale ritratto di una giustizia spesso iniqua. Una piacevole sorpresa, per gli amanti del doppiaggio italiano, è ritrovare Nino Scardina nel ruolo dell’Omino di burro, che conduce il carro colmo di bambini nel Paese dei balocchi.

pinocchio garrone

Altro momento di grande perizia attoriale è dato da Enzo Vetrano, nelle cui scene troviamo un arcigno maestro dalla voce acuta, su cui finisce per prevalere l’impertinenza disobbediente degli scolari. Non convince la fata turchina, nelle versioni bambina e adulta che ne danno rispettivamente Alida Baldari Calabria e Marine Vacht. Il personaggio femminile, che dovrebbe incarnare l’archetipo della Grande Madre in tutte le varianti evolutive salvifiche rappresentate dalla donna, risulta algido, ingessato, poco empatico, più mortifero che vivificante. Scene, queste, in cui il ricordo di Gina Lollobrigida si fa quanto mai presente.

Gina Lollobrigida Pinocchio
Non convince a pieno neppure, ahimè, il protagonista principale, non per demeriti dell’indubbiamente capace Federico Ielapi, quanto per il fatto che tanto nella versione lignea come in quella umana avremmo voluto riscontrare, grazie a una migliore scrittura, una maggior esuberanza dello spirito bambino che disobbedisce e sovverte le regole portandoci fra le nuvole. Il problema di questo film, laddove vi sia, è infatti proprio quello di non riuscire sino in fondo a farci prendere il volo, pur non deludendo nella sua coerenza. Garrone è autore, nell’iconica scena di Gomorra in cui Ciro Petrone spara con un kalashnikov contro un acquitrinio, di una delle scene del cinema italiano fra le più potenti degli ultimi anni.

Con la sua scelta di realismo a tratti gotico per il suo Pinocchio, quella stessa forza che ci saremmo aspettati in chiave onirica viene a mancare, tanto più che neppure l’elemento terrificante è cavalcato compiutamente, come sarebbe stato ad esempio possibile nel momento della trasformazione dei bambini in asini o dell’impiccagione del burattino. L’esito è quindi quello di tarpare le ali tanto al sogno quanto all’orrido, che ci avrebbero atteso in fondo alle due strade se percorse fino in fondo. Non siamo tuttavia del parere di quanti vedono nella citata scena di Gomorra la metafora di un cinema italiano che non centra il bersaglio, sparando all’aperto nel nulla. Sarebbe un giudizio spietato che non sentiamo di dover attribuire alla pregevole opera di Matteo Garrone, che paga semmai lo scotto di tornare a fare i conti con una storia molto, forse troppo sfruttata.

Stefano Maria Pantano

4 Responses to "Il lato oscuro di Collodi nel Pinocchio di Matteo Garrone"

  1. Cinzia   4 Gennaio 2020 at 17:16

    Recensione approfondita che non lascia nulla alla banalità o all improvvisazione. Bello anche il costante confronto con gli “ingombranti” precedenti.
    Non andrò a vederlo, mi spiace per Garrone

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    • Stefano Maria Pantano
      Stefano Maria Pantano   4 Gennaio 2020 at 18:24

      Grazie. Quando si arriva dopo i classici si ha solo una strada davanti per poter essere ricordati: essere dei capolavori. Il film vale comunque la pena di essere visto, molto piu di altri attualmente in sala. Chi abbia amato il Pinocchio di Comencini difficilmente sospenderà i paragoni.

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  2. Livio   4 Gennaio 2020 at 17:19

    … cosa di realmente nuovo si potesse dire sul romanzo di formazione di Carlo Collodi, già soggetto a innumerevoli adattamenti teatrale…
    Infatti, è la stessa domanda che mi sono fatto anch’io. Ma ce n’era davvero bisogno?

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  3. Stefano Maria Pantano
    Stefano Maria Pantano   4 Gennaio 2020 at 18:24

    In una parola: no.

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