Recensione Il Ponte delle Spie: il solido vecchio Spielberg

MONDO – Il ponte delle spie è un ingranaggio perfetto in cui ogni elemento è dosato alla perfezione. Ecco la nostra recensione. 

È’ il “solido” vecchio Spielberg, quello de Il Ponte delle spie, spy story incalzante ambientata durante la guerra fredda tra Usa e Unione Sovietica. Autore con la a maiuscola, classicista mai scontato e magniloquente cantore dell’ everyman, il cineasta di Cincinnati non sbaglia un colpo e, sintonizzandosi sull’epica minimale che aveva contraddistinto il suo ultimo film, “Lincoln”, realizza un’opera sontuosa al cui centro campeggia l’individuo (stra)ordinario all’interno di un mondo alla deriva.

L’opera, designata film della critica dal SNCCI, racconta i fatti veri che il piccolo Steven aveva appreso dalle storie paterne: nel 1957 a Brooklyn l’avvocato James B. Donovan (Tom Hanks, alla sua quarta collaborazione col regista) viene incaricato della difesa di una spia sovietica catturata in territorio americano. Subito dopo, in seguito all’arresto di Francis Gary Powers, militare statunitense abbattuto in volo dai sovietici, è inviato in missione per negoziare lo scambio dei due prigionieri politici. Nelle opere di Spielberg si sente pulsare la Storia, il cui respiro, mai sincopato o interrotto, riempie lo schermo. Sulla sceneggiatura di Matt Charman e dei fratelli Joel ed Ethan Coen, perfetto miracolo di equilibrio e misura, Spielberg riesce a compiere un secondo prodigio miscelando azione e dialoghi di scottante attualità.

Il ponte delle spie è un ingranaggio perfetto in cui ogni elemento è dosato alla perfezione: mai un’enfatizzazione, né in eccesso, né in difetto. La lezione è quella che, fin dal primo grandioso “Duel” del 1971, è proseguita fino a “Lincoln”, incorniciando l’occidente del “self made man” dentro un’etica pedagogica e talvolta moralistica. I suoi sono exempla che attraversano i generi cinematografici – thriller ad alta tensione, road movie, sci-fi classica, fantascienza con venature horror, drammi storici – ma che hanno sempre al centro l’uomo solo al comando che può fare la differenza.

Il ponte delle spie recensione

Non è un caso che la nuova pellicola inizi con l’inquadratura di un simpatico ometto (la spia russa magistralmente interpretata da Mark Rylance), intento a ritrarsi davanti allo specchio. Il vetro riflettente diventa la superficie traslucida in cui si specchia un intero paese (mondo), che viene analizzato dalla figura prototipica incarnante ogni rivoluzione e conquista sociale.

Chi si guarda riflesso è però un nemico degli Stati Uniti d’America, inviato in un paese straniero per rubare informazioni riservate. Toccherà all’eroe a stelle e strisce, sempre più grande del pregiudizio e delle differenze sociali, difendere il reo non confesso.

I valori riconosciuti alla base di ogni democratico contratto sociale – tolleranza e solidarietà – sono anche gli elementi base dell’architettura narrativa del film, sfumato in siparietti ironici qua e là, e sempre puntuale nella ricostruzione storica degli avvenimenti. Né un fiato o una sillaba è di troppo, così come ogni sequenza e qualsiasi segmento narrativo si incastrano alla perfezione nel coerente magma d’insieme in cui non mancano spettacolari scene d’azione. Forse Il ponte delle spie è il primo vero film di spionaggio di Spielberg, così perfetto nella messa in scena e talmente limpido nella resa visiva da poter essere accostato ai grandi classicisti statunitensi, ma è soprattutto espressione dell’alto umanesimo incarnato da Donovan, che, per dirla alla Lévi-Strauss, è un “uomo nudo”, consapevolmente spogliato del pregiudizio in un mondo respingente che difende l’appartenenza favorendo la marginalizzazione dei popoli.

Vincenzo Palermo

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