BOLOGNA – Luigi Lepri, recentemente premiato con il Nettuno d’Oro, autore con Daniele Vitali di uno dei dizionari più completi dedicati al dialetto, è considerato oggi uno dei testimoni d’eccellenza del dialetto bolognese.
Non solo perché lo ha sempre parlato fin dall’infanzia, sia in famiglia che tra gli amici, ma soprattutto perché ha dedicato alla sua conservazione decenni di volontariato, speso a documentarsi, a insegnare, a scrivere trentuno libri sull’argomento, a promuovere il tratto che ci rende più umani vale a dire il linguaggio della nostra storia, della nostra terra.
Ho incontrato Luigi Lepri nella propria casa, tra i suoi libri, probabilmente nello studio e salotto nel quale è stato concepito il progetto di dizionario citato sopra.
Dott. Lepri, a suo tempo, come le venne l’idea di lanciarsi in un progetto così impegnativo?
Non sono un dottore e nemmeno un professore. Il mio approccio al dialetto è pratico, da dialettofono fin dalla nascita, che ha seguito il magistero del glottologo bolognese Alberto Menarini.. Ma per venire alla sua domanda…È molto semplice. L’estate del 1996 faceva un caldo feroce. Per vicissitudini che non sto a raccontarle dovevo trascorrere il mese d’agosto a Bologna. Praticamente un inferno. In quella canicola ha cominciato a prendere forma l’idea di redigere un dizionario più articolato rispetto a quelli che avevo per le mani. Chiamai subito il mio amico Daniele Vitali, bolognese e scienziato delle lingue. Anche lui era d’accordo sulla necessità di organizzare uno strumento agevole da consultare, bidirezionale, cioè Dialetto-Italiano e Italiano-Dialetto, ricco di termini, di fraseologia, il più completo possibile… Io facevo il parlante, Daniele aveva il compito di dare una impronta scientifica ai lemmi, con tutte le varianti che riuscivamo a scovare. La prima edizione del dizionario classificava 13000 lemmi. L’ultima edizione ne riporta oltre 33000. Io e Daniele ed io, ciascuno con le proprie competenze, ci siamo impegnati in un vero e proprio work in progress per contribuire a salvare il linguaggio del nostro territorio…
…Eh sì! In un mondo globalizzato e digitalizzato sembra esserci sempre meno spazio e attenzioni per i linguaggi dialettali. Come vede il futuro? Le Istituzioni sono sensibili al problema?
Esiste una Legge regionale che eroga risorse per progetti di tutela dei dialetti. Certo non è molto. A Bologna ricordo solo un bell’evento voluto dall’allora Assessore alla Cultura Nicola Sinisi, che per tre anni portò in piazza 30000 persone. Era il Festival della canzone dialettale bolognese. Un successo. Poi pochissimo. Oggi però sembra esserci un risveglio. Con il Comune di Bologna qualcosa si sta muovendo grazie all’assessore Lepore. Ci tengo a precisare che, fino ad ora, tutto o quasi quello che succede per tenere vivo il dialetto è basato sul volontariato. Io insieme all’insegnante titolare Roberto Serra, collaboro da anni ai corsi di pratica dialettale frequentati anche da stranieri. I costi vengono regolarmente assorbiti interamente con l’auto-finanziamento.
Non le pare strano che Bologna così attenta ai beni culturali, alla sua storia, al suo passato che tra l’altro attira un numero crescente di turisti, trascuri un valore fondante com’è il suo linguaggio storico?
Non è così strano. Sono ottant’anni che vivo in questa città e le posso dire che la maggioranza dei bolognesi stravede principalmente per i prodotti culturali esteri. Nel linguaggio di ogni giorno i bolognesi si distinguono per una provinciale adesione a termini stranieri, perlopiù anglofoni. Non solo; italianizzano qualche espressione del dialetto, facendola diventare parte di uno slang e buttando a mare la lingua originale che è ricca, colorita, e mi lasci dire: sontuosa. A me sembra un segno di provincialismo. Non dobbiamo dimenticare che Bologna è stata per secoli quasi una capitale, la seconda città dopo Roma sotto il Regno della Chiesa. La polarizzazione tra lingua colta e linguaggio popolare era più marcata che altrove. Abbiamo l’Università più vecchia al mondo che porta tantissimi studenti stranieri. Utilizzare qua e là qualche parolona anglofona ci fa essere più ospitali, più cortesi? Siamo parte di questo mondo e facciamolo pure. Comunque sia, non mi pare una buona ragione per dimenticarsi del dialetto…
Dimenticarsi o vergognarsi? Vede, io appartengo alla generazione alla quale è stata istillata l’idea che il dialetto è una lingua volgare, inutile, sintomo di scarsa istruzione. Mi è stato insegnato che il linguaggio serve anche per migliorare un mondo che cambia. Parlare come in passato non ci fa essere presenti al nostro tempo, non ci rende aperti al futuro. Questi significati trasudavano dalla scuola, dalla televisione, dai giornali. E poi, quando usiamo parole anglofone non stiamo forse dicendo ai nostri interlocutori, tra le altre cose, la nostra aspirazione a sentirci cittadini del mondo?
Certamente, ma una cosa non esclude l’altra. Ho spesso l’occasione di vedere i figli di un amico sposato con una cecoslovacca. Lui parla ai suoi bambini in dialetto bolognese e lei in ceco. A scuola hanno imparato l’italiano colto e l’inglese. Questi bambinetti si destreggiano benissimo in quattro lingue. Il dialetto bolognese è quella alla quale sono più affezionati. Addirittura, a volte, correggono qualche errore pronunciato inavvertitamente dal padre. Cosa voglio dire? Non c’è nessuna ragione né per escludere il progresso linguistico e nemmeno per tagliare i ponti con la nostra tradizione. La mente dei bambini è programmata per imparare molte lingue. Perché escluderli dalla lingua della loro terra? Il problema è anche questo: insegnare il dialetto bolognese ai bambini per far capire che è un bene culturale del quale andare fieri…
Ma cosa realmente ci guadagniamo a salvare il dialetto?
…Io mi preoccuperei piuttosto di far sapere cosa ci perdiamo. Le pare che siamo diventati persone migliori negando la nostra lingua? Provi a paragonare per esempio uno dei tanti bar di ritrovo attuali con le vecchie osterie che frequentavo fin da adolescente, nelle quali la parlata dialettale diventava spesso musica, poesia. Entrare in bar di oggi è come andare in una specie di ambulatorio, ognuno si fa gli affari suoi, si ordina si paga, si esce come si è entrati. Nelle vecchie osterie, oramai estinte, posso assicurarlo con certezza, si creava intimità, condivisione intergenerazionale, ci si sentiva partecipi della stessa realtà, si parlava con tutti. Chi non stava alle regole, il sumâr di turno, veniva richiamato all’ordine con poche lapidarie parole. Il collante, la magia che rendeva possibile tutto ciò era anche il dialetto. Il dialetto univa, faceva condividere emozioni, creava spirito di gruppo anche per chi veniva da fuori. Oggi sembra invece che il linguaggio divida, separi, isoli le persone. Capisce ora perché sostengo che il nostro dialetto deve essere protetto e conservato come un bene culturale? So benissimo che niente sarà come prima. Ma se insegniamo a bambini e adulti i suoni, i segni della nostra terra essi si sentiranno più partecipi e rispettosi del territorio che accoglie le loro brevi vite. Per poterlo fare abbiamo bisogno di salvare anche ciò che è rimasto della nostra tradizione dialettale…
Si fa presto a dire salvare, mica facile, ci vuole l’intervento delle istituzioni… e poi siamo certi che ci sia l’interesse della gente? Siamo certi che il dialetto bolognese sia percepito come un bene culturale?
Non sto dicendo che tutto sia semplice e scontato. Per me il volontariato rimarrà un motore fondamentale. Però, per esempio, il professor Fabio Roversi Monaco ha fatto allestire una “stanza del dialetto” nel Museo della Città di Bologna, che accoglie suoni, oggetti e immagini della tradizionale lingua bolognese. Io ho collaborato all’allestimento e le posso dire che si potrebbe ampliare l’iniziativa. Abbiamo studiosi di glottologia e fonetica di fama internazionale come il prof. Luciano Canepari , il suo allievo Daniele Vitali, che vengono spesso consultati da loro colleghi provenienti da ogni parte del mondo per avere consulenze su dialetti locali che vogliono conservare. Poi abbiamo i professori Roberto Serra e Rovinetti Brazzi, ricercatori di grande livello. Insomma: il dialetto bolognese è in ottime mani. Dappertutto c’è una grande passione per salvare le lingue tradizionali dall’oblio. Se penso agli eventi ai quali ho collaborato, posso tranquillamente dirle che la gente, se informata e messa nelle condizioni di approcciare tradizioni come la lingua locale, ha sempre risposto con inaspettata passione. Non è vero che vogliano dimenticare le proprie origini. Registriamo spesso esattamente il contrario. Voglio farle un esempio. Si parla oggi giustamente di un ritorno della Filuzzi…
…Chi è? Una arzdåura specializzata in tagliatelle e tortellini?
…no, no, si chiamava in questo modo il ballo popolare bolognese. Nelle sale da ballo, quando il dialetto era il linguaggio comune si ballava alla Filuzzi…
… Valzer, Polke, Mazurke…quella roba lì?
…Sì, il nostro stile di ballo veniva chiamato così. In Romagna si dice “liscio”. Pare che “Filuzzi” derivi dal verbo Filèr (corteggiare). A ballare ci si andava per “filare” le ragazze…. Il baladûr (balera) Insieme all’osteria era uno dei pochi luoghi sociali e popolari nei quali ci si poteva incontrare per stare insieme. È in questi luoghi che il dialetto esprimeva gli aspetti più piacevoli e divertenti. Allora, se oggi il ballo Filuzzi, in modo spontaneo, sta raccogliendo un rinnovato interesse anche da parte dei giovani, significa che le nostre tradizioni hanno un’energia capace di sopravvivere alle all’influenza della contemporaneità e della globalizzazione. Bisogna però offrire spazi, luoghi e opportunità per farle conoscere. Per il dialetto succede la stessa cosa. Se diamo la possibilità ai bambini di apprenderlo, anche in modo parziale, essi si appassionano subito, stanno meglio insieme, s’impadroniscono di un elemento aggiuntivo per divertirsi. Come ho già detto, l’ho sperimentato personalmente. Anche gli adulti che nei miei corsi ho visto avvicinarsi alla lingua dei nonni, dopo un po’ si dicevano entusiasti dell’esperienza. Capisco che il mondo debba per forza sviluppare altri modi di comunicare. Ma non dovremmo mai dimenticare chi siamo, da dove veniamo, qual è il nostro passato, come parlavano le persone che ci hanno preceduti. Vede, ho sempre pensato che un po’ di reverenza verso il passato, senza cedere a una sterile nostalgia, producesse un futuro migliore. E se è vero che è il linguaggio che ci rende umani, allora un po’ più di attenzione dovremmo dedicarla proprio ai nostri tradizionali dialetti, per conservarne il ricordo e perpetuarne le piccole magie. Chissà, in questo modo forse impareremmo a rispettare di più la nostra terra, le persone intorno a noi, le nostre istituzioni storiche. E a non far morire quei preziosi beni culturali, immateriali ma importanti, come le lingue locali che sono il segno distintivo di ogni popolo.
Addenda
Luigi Lepri, noto anche come Gigèn Livra, è nato nel 1936 a Bologna. Ha pubblicato moltissimi libri tra i quali sono da ricordare: “Dizionario Bolognese-Italiano / Italiano-Bolognese”; “Mica solo tortellini” e “ Bacajèr a Bulāggna”. Dal 1995 firma una rubrica settimanale di dialetto sulle pagine bolognesi del quotidiano La Repubblica dal titolo Dì bän só fantèsma!. Dal 2000 al 2005 è stato docente nei corsi sul dialetto bolognese all’Università Primo Levi.
Foto in homepage di Roberto Serra
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Nettuno strameritato. Concordo al 100% con quello che dice Luigi Lepri, che a me sembra più professore di tanti professoroni che conosco.
Diversamente da Napoli, Roma e altre città mi capita raramente a Bologna di sentire parlare in dialetto. Da cosa dipende? la cosa strana è che la parlata bolognese è molto divertente. Forse ha ragione Lepri: i bolognesi hanno una mentalità esterofila. Come i provinciali che se la tirano.
Bellissima l’analisi di Lamberto che esprime così i suoi dubbi :-Mi è stato insegnato che il linguaggio serve anche per migliorare un mondo che cambia. Parlare come in passato non ci fa essere presenti al nostro tempo, non ci rende aperti al futuro…- e ancor più la risposta che diventa domanda anch’essa “Le pare che siamo diventati persone migliori negando la nostra lingua?”
Personalmente noto una differenza tra maschi e femmine nei confronti del dialetto. Io l’ho sentito parlare quasi solo da maschi. Anzi le ragazze fanno di tutto per evitare l’intonazione bolognese specie la “s” liquida. Forse una volta non era così. Ma oggi sono le donne che comandano le mode e per loro il dialetto è cheap.
Quello della progressiva scomparsa dei dialetti è uno dei problemi più attuali e sentiti dai linguisti, che però sono per lo più rassegnati a uno scenario destinato a cambiare radicalmente in poche generazioni, proprio perché la lingua è un fenomeno vivo quanto le comunità dei parlanti e variabile quanto lo sono i singoli parlanti. E’ tuttavia significativo che l’esigenza di compilare opere come dizionari dialettali sia espressa molto spesso da non addetti ai lavori, che in questo caso sono stati coinvolti da un non-specialista del settore. Si tratta di lavori di cui si sente quanto mai l’esigenza e continua ad esserci una grande penuria di interventi accademici di questo tipo. Per le mie zone di provenienza, ad esempio, non esiste ancora quasi nulla di analogo. A compilare un dizionario del dialetto di Gallinaro (FR) fu proprio un caro amico di famiglia oggi scomparso, il Prof. Mario Schiavi, uomo di formidabile intelletto e sensibilità umana, che però non era uno specialista delle lingue. Aggiungo poi che la questione dell’esterofilia indiscriminata come altra faccia del provincialismo italiano insieme alla miope autarchia linguistica fascistoide è stato sollevato anche dal Prof. Giuseppe Langella in occasione del suo recentissimo intervento nel convegno “La parole efficace: l’umanesimo di sempre nella società di domani”, al quale ho assistito all’Auditorium Conciliazione. Si tratta di uno dei tanti atteggiamenti paradossali italiani in merito ai quali è difficilissimo trovare un equilibrio e spesso un buon senso. Concludo davvero dicendo che il lavoro di Luigi Lepri e Daniele Vitali rappresenta indubbiamente un tassello importante verso una consapevole messa al sicuro di una storia linguistica e sociale che nel mosaico nazionale dobbiamo fare tutto il possibile per mettere al sicuro.
Trovo che la lingua italiana sia la più bella al mondo, quella che, più di ogni altra, si presta alla narrazione, rendendo misurabili le emozioni, tangibili i sentimenti, visivi i fatti raccontati. I dialetti ne costituiscono una declinazione e, a mio modesto avviso, ci sono cose che solo se espresse attraverso un linguaggio squisitamente dialettale possono arrivare a chi le ascolta nella pienezza del loro significato. Esistono lemmi nel dialetto, in qualunque dialetto, dotati di una efficacia oratoria impareggiabile.
Sono d’accordo. Il primo degli impareggiabili è sócc’mel, una parola che tutto il mondo ci invidia. Dalla quale discende l’esclamazione italiana sóccia. Se penso che i giovani bolognesi le preferiscano caspita o accidenti, quasi quasi mi incazzo.
Effettivamente è vero, quella orrenda parola la conoscono proprio tutti, anche fuori dall’Italia. Non capisco cosa ci sia di impareggiabile in socc’mel, un rozzo invito alla fellatio. Per me è un sintomo della mancanza di grazia del dialetto.
quel significato, se mai è esistito, si è perso. Socc’mel oggi è solo una esclamazione, un intercalare come nella canzone di Andrea Mingardi:
Quand l’è fradd
SOCMEL!
Quand l’è cheld
SOCMEL!
Et vest che gnòca?
Eh SOCMEL!
I t’an guzé la machina
Eh SOCMEL ben!
(Socmel di Andrea Mingardi)
Eugenio Riccomini, elegante, coltissimo, geniale, critico e storico dell’arte, in La Repubblica del 2007, diede questa interpretazione del “socc’mel” che tanto vi ha colpito:
“I bolognesi hanno sempre nutrito un atteggiamento conciliante e sorridente nei confronti dei tabù. Bologna è città notissima in tutt’Italia perché l’intercalare di sorpresa allude ad un atto esplicitamente sessuale. Il che significa una sola cosa: che quell’atto sessuale, così esplicito, qui era considerato con un sorriso”
Il vostro Gigèin sarà pure un fenomeno, ma non è colpa sua se il dialetto bolognese praticamente non ha una tradizione letteraria, come il napoletano o il romano. Non avete avuto nemmeno un Goldoni. Ammetto che possiede sonorità interessanti ma nessuno è mai riuscito a scrivere letteratura di qualità in dialetto bolognese. Niente letteratura nessun interesse a conoscerlo. Semplice no!
Non hai tutti i torti. Ricordo che durante l’intervista Luigi Lepri riconobbe la debolezza letteraria del dialetto bolognese. Un Alfredo Testoni (“Il cardinale Albertini”) non regge il confronto con i capolavori della tradizione veneta, romana, napoletana. Però disse anche che autori più consistenti come il suo preferito, Ugo Ghillini, venivano sistematicamente boicottati, probabilmente per il contenuti sociali che attraverso il dialetto acquisivano una straordinaria forza emotiva. Le rivendicazioni a favore del popolo non erano ben viste dalla vecchia borghesia. Oggi può sembrare strano, ma Bologna per secoli, sotto l’influenza del papato, è stata molto più conservatrice di quanto ora possiamo immaginare.