Shenzhen significa Inferno: risultati di un test spietato

Una Domenica pomeriggio romana in una fabbrica-laogai cinese

Qualche giorno fa avevamo annunciato le date delle repliche romane di Shenzhen significa Inferno, nuovo lavoro di Stefano Massini, andato in scena al Teatro Brancaccino dal 26 al 29 Novembre. Dato il successo riscosso da Balkan Burger e da Lehman Trilogy, attendevamo con una certa trepidazione di poterci esprimere più compiutamente su quest’ultimo lavoro dell’autore toscano, che si pone ancora sul solco della ricerca sociale.

Nella pomeridiana di ieri ho avuto l’occasione di occupare una delle poltroncine rosse dell’intimo e raccolto spazio offerto dalla sala figlia del più ampio e sontuoso Teatro Brancaccio. Ecco dunque cosa penso di questa drammaturgia…

Prima di entrare nel merito dei contenuti e della messa in scena, sento il bisogno, senza retorica di sorta, di esprimere il senso di spaesamento che mi ha colto oltre i tendaggi rossi al termine dei due piani di scalinata: una Domenica pomeriggio, in data dell’ultima replica di un nuovo lavoro di un autore e regista pluripremiato… la sala (seppur secondaria) di uno dei più importanti teatri della Capitale poteva contare i suoi spettatori su poco più delle dita di una mano…

Sono abituato a frequentare, da attore o da spettatore, i teatri di provincia più che quelli delle grandi città e denuncio spesso la scarsa affluenza di pubblico registrata in genere dai luoghi dello spettacolo dal vivo come una lacuna sociale imputabile a una carenza di cultura e di intelletto dei più.

Ieri mi rendevo conto però di quanto contesti periferici come quello a cui appartengo possano, in proporzione, ritenersi fortunati e di come il fatto di ospitare grandi produzioni, per di più in un noto teatro di una città che conta più di 2 milioni e mezzo di abitanti, possa dimostrarsi fattore non necessariamente sufficiente a garantirsi il pienone, che mi auguro abbia registrato il meritevole Shenzhen nelle repliche dei giorni precedenti.

Veniamo però ora al punto parlando dell’opera…

La prima cosa che colpisce da ancora prima del decorrere dei 60 minuti circa di spettacolo, scandito da tonanti vessazioni autoritarie e da angoscianti countdown al ritmo regolare di alienanti beep sonori, è l’assenza di sipario, l’abbattimento della quarta parete come dichiarazione visiva e chiara per lo spettatore fin da subito, tant’è che a distinguere i posti a sedere numerati sulla scena e in platea è forse solo il colore e il tessuto delle poltroncine. L’algida figura bionda che, a dispetto dell’apparenza, dimostra volutamente ben poco di spirituale infierisce su tutti noi, cui si rivolge a più riprese con sguardi taglienti e gesti diretti.

La scena scura, spoglia, in cui campeggiano solo 4 poltroncine sistemate con rigore simmetrico, è la fotografia metaforica di un’ipotetica azienda produttrice di schede madri per cellulari di Shenzhen: la Oseris. L’unica attrice in scena è un automa spietato e cinico che come una saetta lucente taglia il quadro in tutte le direzioni colpendo senza pietà e più riprese 4 operai, due uomini e due donne. Il braccio armato dell’azienda ha deciso di raddoppiare la paga all’elemento produttivo e di punire i più fragili. A stabilire le sorti dei malcapitati saranno continue prove di resistenza psicologica e di capacità tecniche, il cui unico criterio è l’ottimizzazione del profitto, la crescita dell’utile e la riduzione totale del molteplice all’Uno della forma merce.

Una straordinaria Luisa Cattaneo, attrice di punta di Massini già partecipe dei precedenti successi, riesce benissimo a trascinare lo spettatore nella montagna russa emotiva che vivono gli invisibili operai sotto la sua voce tonante, illustrando in modo neppure troppo metaforico ciò che egli vive già quotidianamente fuori dal teatro, più o meno consapevolmente.

Gli spunti di riflessione sono molti, anche se il tema principale della disumanizzazione voluta dall’ultracapitalismo occidentale e orientale in nome della crescita illimitata e del “cattivo infinito”, amaramente attuale, rischia di diventare scontato e ritrito se non trattato con sufficiente maestria registica. Sembra che, eccezion fatta per un finale forse meno spiazzante e sconvolgente di quanto ci si sarebbe aspettato, Massini vinca la sua sfida.

La riflessione heideggeriana di Sentieri interrotti («ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana») e di Essere e tempo, trova chiara eco in Shenzhen, portandoci anche oltre, a intuire le derive postmoderne di questi concetti, ossia la “presentificazione” e la scomparsa di prospettiva futura, come puntualizzano Marc Augé (che si domanda «où est passé l’avenir») e Diego Fusaro (che in Essere senza tempo afferma: «Viviamo nell’epoca della fretta, un “tempo senza tempo” in cui tutto corre scompostamente, impedendoci non soltanto di vivere pienamente gli istanti presenti, ma anche di riflettere serenamente su quanto accade intorno a noi. L’endiadi di essere e tempo a cui Martin Heidegger aveva consacrato il suo capolavoro del ’27 sembra oggi riconfigurarsi nell’inquietante forma di un perenne essere senza tempo. Figlio legittimo dell’accelerazione della storia inaugurala dalla Rivoluzione industriale e da quella francese, il fenomeno della fretta fu promosso dalla passione illuministica per il futuro come luogo di realizzazione di progetti di emancipazione e di perfezionamento, la nostra epoca “postmoderna”, che pure ha smesso di credere nell’avvenire, non ha per questo cessato di affrettarsi, dando vita a una versione del tutto autoreferenziale della fretta: una versione nichilistica, perché svuotata dai progetti di emancipazione universale e dalle promesse di colonizzazione del futuro. Nella cornice dell’eternizzazione dell’oggi resa possibile dalla glaciale desertificazione dell’avvenire determinata dal capitalismo globale, il motto dell’uomo contemporaneo – mi affretto, dunque sono – sembra accompagnarsi a una assoluta mancanza di consapevolezza dei fini e delle destinazioni verso cui accelerare il processo di trascendimento del presente») .

Giustifico questi richiami poiché sono alcuni fra quelli cui corre la mente nel vedere, ad esempio, una delle operaie, ritenuta dall’azienda tra i migliori elementi perché più formata degli altri dal punto di vista tecnico e perché disposta a lavorare per turni straordinari nonostante la maternità, essere disumanamente espulsa per una banale confessione fattasi scappare in un momento di stanchezza carpito a tradimento e illecitamente dall’azienda. Il miglior dipendente da premiare sembra essere quello che lavora meglio, di più e senza fiatare, vivendo senza più un tempo proprio qualitativo, ma solo uno quantitativo al servizio della forma merce.

Lo spettacolo lascia intravedere qui anche altri inquietanti argomenti di indagine, tra cui quello del controllo di massa esercitato dagli organi di potere. Come non pensare allora al Panopticon benthamiano e a Sorvegliare e punire di Michel Foucault?

Senza troppe forzature, la geometria spoglia e asettica dello spazio scuro in contrasto con la figura chiara del personaggio, come la dialettica fra presenza e assenza messa in moto da Massini, farebbero anche pensare a un altro aspetto legato alla colonizzazione sociale e spirituale del puro calcolo fine a se stesso: la de-simbolizzazione integrale cui mira il capitale (basti pensare a tutti recenti fatti di cronaca anche legati alle simbologie natalizie in relazione a un modello fallimentare di multiculturalismo) e il laicismo assoluto da esso perseguito, per dirla ancora con Fusaro, «di modo che resti uno spazio vuoto senza alto né basso, senza bene né male, senza alcun limite simbolico e valoriale all’estensione onnilaterale e all’allargamento nichilistico della forma merce» .

Sul piano tecnico Shenzen significa Inferno sembra retto principalmente da un buon testo, dal sicuramente grosso lavoro richiesto all’attrice (che ne dà rigorosa prova) e da un robusto utilizzo del parco luci che insieme al suono costituisce il nocciolo duro della grammatica di questo lavoro, testimoninandone una regia ben presente.

C’è da dire che probabilmente, al di là degli effetti sonori che efficacemente rimarcano i momenti chiave della narrazione, si sarebbe potuto osare di più con dei veri e propri sottofondi musicali.

Mi si perdoni l’ultima perplessità già menzionata riguardo il finale, da cui ci si aspetterebbe qualcosina in più. Lo spettatore vive 60 minuti di angoscia partecipata, senza la speranza di una proposta d’azione costruttiva ai mali raccontati, come se la scrittura mirasse a suscitare un turbamento profondo prima ancora della riflessione.

Tirando le somme lo spettacolo di Massini non è certamente un capolavoro, ma si attesta su un livello molto buono, sia sul comparto artistico che tecnico. A lasciare l’amaro in bocca è più in generale la situazione in cui sembra versare il teatro negli ultimi anni e ancor più negli ultimi mesi, in cui si fa più allarmante la minaccia terroristica, che unitamente al già scarso interesse dell’italiano medio per i contenuti culturali, con tutto il beneficio tratto da governanti che hanno sempre più buon gioco nel controllare masse incolte e dormienti (anche qui si dimostra tristemente attuale l’autore), non fa che aggravare la situazione di chi con passione e sacrificio lavora nel mondo della produzione culturale e teatrale in modo particolare.

Stefano Maria Pantano

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