Recensione di The cave of forgotten dreams

Recensione di The cave of forgotten dreams

MONDO – Da diversi giorni, la rete brulica di link riguardanti i recenti scontri tra polizia e manifestanti. Inevitabilmente, la memoria mi ha riportato all’uscita nelle sale di Diaz. Quella sera, mi sono presentato alla biglietteria solo quindici minuti prima della proiezione contando sul fatto che il cinema (d’essai) fosse sperduto in una via a senso unico di un paese della dimenticata terra di mezzo situata tra il milanese e la Brianza. Erroraccio. Sala piena.

Dispiaciuto per la mancata visione ma alleggerito il diaframma da sensazioni che avrebbero potuto provocarmi uno sfogo cutaneo che solo l’Uomo Roccia saprebbe invidiarmi, me ne stavo per andare in birreria quando lo sguardo ha incrociato il cartello della sala in fondo a destra: The cave of forgotten dreams. Dito sullo smartphone e googolata rapida: The cave of forgotten dreams, documentario in 3D di W. Herzog che mostra affreschi e resti ossei rimasti intrappolati e intatti per migliaia di anni all’interno della grotta di Chauvet, scoperta dall’omonimo speleologo e fotografo nel 1994.

Premessa: il 3D ancora non m’attizza (anche se ciò non placherà il mio desiderio di concedere l’ennesima prova d’appello a Dario Argento e correre a vedere Dracula 3D, capito?) Poi beh, è pure un documentario su affreschi preistorici ma non sempre 2+2=4.
Anzi, Herzog+documentario+3D=comeminimodevoguardarloperchéquelloèunpazzovisionario.

Tutto come previsto: un capolavoro.

Il 3D è stato concepito come parte integrante del progetto del regista: per scelta, nessun turista potrà mai entrare nella grotta perché la volontà è quella di lasciare assolutamente intatto il patrimonio storico-artistico che custodisce. E così, tutti quattr’occhi (chi otto, come me) per avere la sensazione di esserci stati.
Sullo schermo si susseguono immagini mozzafiato, affreschi nitidi come se fossero disegnati sulla parete di casa, tecniche di disegno arricchite dall’uso strategico delle protuberanze rocciose per dare l’idea di azione (pazzesco), braci di torce ecc. Il tutto conservato così bene da sembrare essere stato frequentato fino al giorno precedente. E poi ancora: ossa calcificate di antichi leoni di montagna, sparsi tra cristalli e stalagmiti e chi più ne ha, più ne metta.
Insomma un’atmosfera unica narrata come se fosse una fiaba dalla mirabile prosa di Herzog, che proprio non riesce a trattenere la tentazione di zigzagare tra la favola, l’antropologia e la filosofia per creare una amalgama perfetta con la parte visuale (anch’essa mirabilmente snocciolata tra steadycam e disvelamento della macchina filmica – come la scelta di spiegare le tecniche di ripresa aerea del fiume, ottenuta montando la telecamera sull’aereo telecomandato di un ragazzino che quel giorno non mai avrebbe pensato di diventare operatore).

La magia è così grande che, alla fine, pure il coccodrillo albino che abita il microclima tropicale creato con le acque calde di scarico della centrale nucleare situata a pochi chilometri di distanza, diventa il protagonista della storia.

Marco Leoni
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