Alla scoperta di Turiddu, una serata all’opera

Alla scoperta di Turiddu, una serata all’opera

Turiddu. L’Opera comincia in casa, quando scelgo l’abito che meglio possa onorare il rito del “recarsi al teatro”, e finisce quando mi slaccio il nodo della cravatta per andare a letto, satollo di note e costumi. Peccato che ormai molti degli spettatori non onorino più il Comunale col sacro rito della vestizione. Spero sia solo una questione di allenamento. Comunque mercoledì sera è toccato alla Cavalleria Rusticana. Niente atti, tutto un fluire che coinvolge come solo un dramma all’italiana può fare. Puro rock signori e signore. Una scenografia statica ma amabile e realistica, per una rappresentazione davvero fruibile e densa di spunti geniali. Amo l’opera perché lì nel balconcino mi muovo come i ragazzini quando giocano coi videogiochi, e mi emoziono come… come solo all’opera direi!

Turiddu
Turiddu nella Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni (Teatro Covent Garden Londra 1914)

Avrei avuto da ridire sulla fedeltà di Lola, senza conoscere appieno la trama, mentre compare Alfio si pavoneggiava del suo mestiere. Ma contento lui, un po’ di allegria l’ha messa anche a me.  Avrei voluto brindare con Turiddu di fronte alla sua bottega con quel vino spumeggiante, anche se presentivo la vendetta di Alfio, lì a margine a confabulare coi loschi figuranti. E come mi sono immedesimato nel mal di testa del fedifrago Turiddu che dopo i bagordi cerca le carezze della madre. Quel vino è generoso… mamma Lucia. La mamma che ti abbraccia mentre vai a morire, un po’ alticcio…  Giuro che l’incalzare di Turiddu e la rassegnazione di mamma Lucia mi hanno fatto venir la pelle d’oca. La sensazione mi ha letteralmente sconvolto.
Quando mai al giorno d’oggi, in un ambiente con circa 25 gradi centigradi, viene la pelle d’oca? Bisogna che ci sia qualcosa che tamburella sull’amigdala, per forza. Nella fattispecie serve che  l’interprete sia magnifico, l’atmosfera autentica e la musica di una densità palpabile. E in questo brano Mascagni ha pennellato un capolavoro. Puro rock signori e signore, una musica così moderna da sembrare di ieri pomeriggio ma disciplinata, armonica e toccante (nel senso che la pelle d’oca non mi viene se ascolto Tiziano Ferro lamentarsi delle sue pene d’amore sciapo)… ma pur sempre rock per la sua forza travolgente.

Quando mi capita un’opera come questa alleno tutti i muscoli facciali: dal sorriso per niente scontato (pochi miei coetanei ridono all’opera) a quel muscolo di fianco all’occhio, stringendo il quale evitiamo la lacrima. Fanno ridere le comparse e i coristi che “fanno gli italiani della Domenica”, e commuove Turiddu, ancora lui, rassegnato nella morte che conteso fra due donne giace in grembo alla terza, la sola a cui poter chiedere una benedizione “come quando partii soldato”: mamma Lucia. Alla fine Turiddu muore, le comari urlano e io torno alla realtà del palchetto angusto… tocca ad un nuovo dramma.

“I Pagliacci”, moderno e originale, non ho rimpianto Pavarotti visto che un’estensione vocale così non l’avevo mai sentita… ma in effetti non ho mai sentito nemmeno Pavarotti. Per dirla in gergo: il tristo Pagliaccio tradito convincendo se stesso a tornare in scena ha “pettinato” tutti gli astanti con note degne di un tenore di serata A (sì, io sono abbonato alla serata C, costa di meno).
Poi esci, schivi uno sputo e una bottiglia e vai a bere una cosa perché hai la gola secca, come se avessi canticchiato sotto voce tutto il tempo. Allora ci si vede il 30 al Comunale…

Fulvio Franchi
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