Umberto Bindi, in ricordo del cantautore cicala

Umberto Bindi, in ricordo del cantautore cicala

ITALIA – Il 23 maggio di 19 anni fa ci lasciava il grande Umberto Bindi. E ricordarlo, è un dovere civico. Divulgativo. Pedagogico. Dai successi e dai capolavori degli anni 60′ all’emarginazione e all’isolamento da parte di un’Italia bigotta e oscurantista, ripercorriamo le tappe e tracciamo un profilo artistico di questo straordinario cantautore.

E’ sempre difficile non scavallare quel filo sottilissimo che divide dalle sabbie mobili della retorica quando ti trovi a raccontare la storia di chi non c’è più e vorresti ci fosse ancora. Ed è difficile non solo per il dolore dell’assenza, ormai ventennale il prossimo 23 maggio 2022, ma anche per il silenzio che, fatta salva qualche illuminata e sapiente eccezione, fatalmente l’ha accompagnata. Così in vita come in morte.

Umberto Bindi nasce a Bogliasco, piccolo comune di qualche migliaio di anime alle porte di Genova, il 12 maggio 1932. E’ un ragazzo riservato, introverso, schivo, distante da qualsiasi mondanità e polemico contro ogni forma di ufficialità, che trova però conforto nella musica. Non soltanto nella musica “fatta”, infatti si avvicina allo studio del pianoforte e della fisarmonica, ma anche in quella collezionata, muovendosi e spaziando tra i più disparati generi: musica leggera, d’autore, operette, commedie musicali, rock’n’roll, jazz.

Questa contaminazione, per Bindi semplicemente inevitabile e non figlia di un vezzo virtuosistico progressivo, nasce dalla convinzione che tutti i saperi musicali in qualche misura si tengono, si mescolano, ma non si confondono, non si disinnescano reciprocamente, trovano maturità espressiva “accostandosi nelle differenze e non assimilandosi nelle identità”.

“Io sono il cantautore-cicala, che odia le parole e ama la musica”: così si è sempre definito Umberto Bindi ed è così che ha perennemente inteso il suo “musicare”. Se infatti andiamo ad analizzare due dei suoi più importanti capolavori, Arrivederci (pubblicata nel 1959 da Ricordi e scritta con Giorgio Calabresi) e Il nostro concerto (pubblicata nel 1960 sempre da Ricordi e scritta sempre con Giorgio Calabresi), ci rendiamo conto di come siano le parole a servizio della musica, e non viceversa.

I testi sono brevi, concisi, immediati nella loro urgenza comunicativa, martellanti nei messaggi fondamentali, con un abbassamento in alcuni casi al colloquiale e imbevuti di quel “fantasma della purezza” di psicanalitica memoria, tanto caro al cantautore ligure. A questa discrezione nella parola parlata/cantata, figlia di una timidezza incistata nella cervice intrauterina dell’anima di Bindi e di chi sa che le parole sono importanti e non vanno dissipate, si contrapponeva un’esuberanza compositiva straordinaria, ma non sorprendente. Esuberanza non data dai temi, sempre melanconici e costitutivamente dolenti, ma dalla portata. Il nostro concerto, brano capolavoro che per la rivista Rolling Stone occupa il sessantunesimo posto tra le duecento migliori canzoni italiane di sempre, si apre con un’introduzione strumentale lunga più di settanta secondi nella quale Bindi sperimenta e realizza una delle sue migliori composizioni, mostrando come “musica leggera” e composizione orchestrale, quasi sinfonica e con tratti classicheggianti, possano viaggiare insieme e compenetrarsi nel percorso. Il cantautore ligure, quindi, traduce nelle sonorità della musica “suonata” il silenzio della parola pensata. Il suo limite. La sua fine.

Umberto Bindi è stato un’anima fragile, pura, dolente, schiacciata dal cicaleccio di un’Italia bigotta e sessuofobica che elevava la sua omosessualità a simbolo della sua identità. Nulla di più sbagliato. Nulla di più trivialmente ottuso. In una straordinaria puntata del Maurizio Costanzo Show del 1988, il cantautore della scuola genovese dichiarò pubblicamente la propria omosessualità raccontando i soprusi e le ingiustizie subite nel corso degli anni. Bindi, in tutta la sua struggente esistenza, non ha fatto altro che rivendicare la propria presenza. Il suo diritto a esistere, a essere, e non importava cosa. Vissuto nella più cannibalizzante delle solitudini, malato da tempo morì a Roma il 23 maggio 2002. Circondato dall’affetto di pochi ma “buoni amici sinceri” (Renato Zero, Gino Paoli e Giorgio Calabrese su tutti), il cantautore-cicala, rimasto “senza soldi e senza salute”, non ha fatto altro che tracciare un cammino. Lasciarci un suono, il suo. Trovare lo scatto. Il riscatto. E noi con lui.

 

Claudio Troilo

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