L’anniversario della nascita di Gabriele D’Annunzio: protagonista del decadentismo e anticipatore del ’68

L’anniversario della nascita di Gabriele D’Annunzio: protagonista del decadentismo e anticipatore del ’68

ACCADDE OGGI – Il 12 Marzo del 1863 nasceva a Pescara uno dei pochi scrittori italiani del Novecento ad avere fama europea, l’ultimo dei nostri grandi poeti capace di imporsi come modello imprescindibile, condivisibile o meno. Scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista, Gabriele D’Annunzio ha lasciato il segno nella storia italiana e mondiale.

 Dannunziani e antidannunziani, questo è lo scisma. Nessun autore come Gabriele D’Annunzio è riuscito a polarizzare il consenso e il dissenso in maniera così netta e inequivocabile, estremizzando quel manicheismo da fazione per cui anche chi non sa nulla della sua opera e della sua vita – sono inscindibili va da sé – si posiziona nella larga scala degli adoratori o dei detrattori.

Come Che Guevara, come Fidel Castro, come Maradona, D’Annunzio incarna il simbolo di un’appartenenza acritica, sommaria, umoristica e viscerale nelle sue manifestazioni e un’avversione che è il correlativo opposto di questa adesione. Essere dannunziani o antidannunziani è uno status, una trincea ideologica dalla quale è difficile uscire, un radicamento identitario e partigiano che incista le posizioni e le rende grottescamente speculari. Un derby, e come tutti i derby solca inevitabilmente l’alterità rispetto all’altra fazione.

GABRIELE D’ANNUNZIO, IL GRANDE TIMONIERE

d'annunzio
Gabriele D’Annunzio a 7 anni

Gabriele D’Annunzio fu il più grande timoniere che condusse l’Italia dall’Ottocento al Novecento, dalla crepuscolare e routinaria borghesia di provincia alla nazionalizzazione delle masse, dalla Belle Époque al conflitto mondiale, dalle donnesche galanterie all’erotismo sensuale, dall’uomo-morale all’uomo-esteta, dalla carrozza alla femmina automobile, dall’adesione tripartita romantica dell’uomo-genio-eroe all’adesione moderna del superuomo, dalla saviezza del dinamismo politico al trascinamento delle folle, dalla mitezza all’arditismo, dal fanciullino pascoliano al culto oracolare di sé.

Ma in lui convivono anche quelle adesioni provinciali della Pescara di allora, quella volontà di potenza che lo ha spinto fino all’aristocrazia imperiale di Roma e Parigi, ai salotti mondani delle più importanti casate del tempo. D’Annunzio è visceralmente decadente nel senso che comprende perfettamente il senso della fine di tutta una civiltà e l’dea che, proprio nel tramonto di un’epoca, l’uomo chiamato a creare possa sprigionare tutta la raffinatezza e l’eleganza dell’artificio poetico. Tra aristocrazia che sta per tramontare e democrazia moderna che ancora non sorge, si colloca il decadentismo dannunziano.

L’ARTE E LA VITA DI GABRIELE D’ANNUNZIO

Gabriele D'Annunzio
Foto dal profilo Instagram @ilvate.gabriele63

La realtà non si legge più in chiave positivistica, ossia l’insieme di quei fatti materiali scientificamente oggettivabili, ma si assume che l’essenza della verità è al di là delle cose: misteriosa, frammentaria, ambigua ed esperibile soltanto attraverso il viaggio nell’ignoto. Tipicamente dannunziano è il suo panteismo, la perfetta sovrapposizione tra l’io e il mondo, tra il soggetto narrante e l’oggetto narrato, tra l’autore e l’opera, tra l’arte e la vita. Il decadentismo dannunziano afferma l’autonomia dell’arte e la sua assoluta superiorità rispetto a tutte le cose.

Per D’Annunzio il contenuto è nella parola poetata e l’arte trova la sua massima sublimazione nell’arte stessa, spogliata di qualsiasi orpello sociale, politico, morale. L’arte non è il mezzo per veicolare un messaggio, ma diviene messaggio. La ragione didascalica dell’arte, la sua aderenza ad un codice etico-politico viene progressivamente smantellata. La vita stessa, esattamente come l’arte, deve essere inclinante verso criteri unicamente estetici e deve assolvere i suoi compiti nell’espressione artistica. La dimensione oracolare del poeta-vate si risolve nella e con la poesia, la rivelazione dell’assoluto assume la sua forma nei versi e il poeta diviene sacerdote che acconsente tale disvelamento.

Il decadentismo dannunziano si palesa magistralmente in quel capolavoro sublime che è Il Piacere, dove Andrea Sperelli non è altro che il doppio letterario del poeta pescarese. La forza distruttiva che lo immiserisce e lo priva di ogni tensione creatrice e spirituale, si manifesta nella frizione e nella krìsis col femminile: se Elena Muti è nella tradizione la femme fatale che incarna quell’erotismo lussurioso e spudorato, Maria Ferres è il doppio di segno opposto che trasfigura l’immagine della donna angelo, purificata, eroica, abitata da quelle passioni generose che potrebbero ridare linfa vitale al protagonista.

L’ondeggiare tra questi due stereotipi di femminile, la contrapposizione frontale di questi due modelli antitetici, è il segno del vuoto morale del protagonista. In D’Annunzio anche l’amore è costantemente decadente: la caducità del sentimento amoroso, il collezionismo bulimico di immaginario femminile, l’incapacità di legarsi sentimentalmente a una donna non è altro che il disagio esistenziale di chi vorrebbe contenere e mantenere insieme erotismo e spiritualismo, senso del peccato e profondità religiosa, misticismo e carica sensuale.

IL RAPPORTO CON IL REGIME

Gabriele D'Annunzio
Foto dal profilo Instagram @ilvate.gabriele63

Anche il rapporto di D’Annunzio con il regime fascista fu controverso e articolato, per nulla figlio di un ripiegamento lineare alle dottrine mussoliniane. D’Annunzio non fu mai fascista e mai antifascista, rimase sempre dannunziano, non poteva in nessun modo irregimentarsi in nessun altro regime che non il proprio, non poteva essere intellettuale organico ad alcun partito che non alla propria immagine.

L’ultimo D’Annunzio criticò fortemente l’alleanza mussoliniana con i teutonici, non solo perché non manifestò mai tensioni xenofobe e razziste ma soprattutto perché la sua formazione era quella di un intellettuale europeo che vedeva in Parigi l’altra grande sorella di Roma. D’Annunzio era filofrancese, culla della cultura moderna, della svolta simbolista, della grande poesia di fine Ottocento e in Parigi intravedeva i riferimenti chiari di modello di capitale culturale d’Europa.

La Germania era la risposta rudimentale e rozza allo spirito alto e sublime dell’irredentismo italiano. Se Carducci fu il poeta degli irridenti, D’Annunzio divenne poeta dell’irredentismo; egli non si poneva più il problema della libertà in astratto ma della potenza in concreto. E la sua impresa fiumana, epica e mai tramontata nelle memorie delle itale genti, la si può intendere come l’antefatto istitutivo del Sessantotto: vitalismo, frattura con la tradizione, opposizione ai padri, trasgressione, utopia al potere e potere immaginativo nella rievocazione storica furono incastonati lì, a Fiume, nella rivoluzione dannunziana. I capelloni di mezzo secolo dopo divennero i destinatari del testimone del pelato di mezzo secolo prima.

D’Annunzio servì solo e soltanto un solo credo, un solo Padre: nell’estetica della parola, la sua immagine.

 

Qui vi abbiamo parlato della riapertura al pubblico del Vittoriale degli Italiani nella suggestiva e complessa cittadella: dal parco, agli appartamenti, al museo, esplorando e respirando l’atmosfera dei luoghi dove il poeta vate trascorse gli anni dal dopoguerra fino alla sua morte, nel 1938

 

Claudio Troilo

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