MILANO – A distanza di mesi, la crisi comunicazionale subita dal prestigioso brand italiano Dolce & Gabbana, continua ad essere uno dei casi più emblematici dell’era social.
Partiamo con una fiction.
Immaginiamo di essere nel Sancta Sanctorum di due famosi stilisti, Cip & Ciop, magnificamente allestito nello stile “barocco ubriaco” del quale i due, se non proprio gli inventori sono magistrali interpreti, in una delle riunioni plenipotenziarie di valenza strategica più importanti dell’anno. Infatti, il tema del ristretto incontro è come valorizzare al massimo un super evento che il loro brand intende organizzare nel cuore del mercato più importante per la crescita dei fatturati. Tuttavia, malgrado siano presenti i maggiori responsabili delle funzioni aziendali congruenti al tema, ciascuno di essi sa bene che l’ultima parola sulle strategie è da sempre una prerogativa che i due stilisti riservano solo a se stessi. Il problema è che, il più delle volte, anche le prime lo sono, ovvero il significato pragmatico di quel genere di riunioni è confermare in forma giubilatoria le decisioni della coppia, a meno che non ci si voglia immolare sull’altare traballante della propria professionalità. Tutti sanno che i due stilisti hanno un ego smisurato, l’insulto facile e corrosivo che, forse in buonafede, pensano sia una sorta di appello alla chiarezza, alla conversazione sburocratizzata, come in una grande famiglia; dulcis in fundo, i due detestano essere contraddetti.
L’investimento di risorse che l’azienda ha intenzione di investire nel super evento, non è esagerato definirlo eccezionale. Una sfilata da milioni di euro, migliaia di invitati, decine di vip provenienti da mezzo mondo, è prevista la presenza tutti i giornalisti e blogger di moda più importanti, campagne pubblicitarie pronte a devastare il mercato, vogliamo stupire e sedurre – dicono, alternandosi, i due creativi – abbiamo ancora ottimi margini di crescita, quella gente ci ama, alziamo l’asticella, vogliamo che le altre marche del lusso concorrenti abbiano una specie di shock anafilattico, vedrete, vedrete, per un po’ saranno allergiche agli eventi. La prossima sfilata che organizzeranno verrà percepita come il botto sgonfio di un petardo artigianale, perché faremo un tale casino che la soglia emotiva necessaria per esistere per chi fa moda verrà riparametrata e chi sta sotto non esisterà mentre noi saremo quella soglia che divide i grandi dai molluschi. Vi piace la nostra strategia? Siete pronti ad agire?
Usciamo un attimo dal decorso della fiction. Potrebbe risultare interessante ora, se riusciste a farvi un’idea della reazione dei manager apicali presenti alla riunione. Riesce difficile poterli pensare impegnati a elaborare qualcosa di critico, del tipo, ma se siamo così forti perché prendere tanti rischi? Se alziamo troppo l’asticella, poi non saremo noi i primi a doverla saltare rischiando di abbatterla? Quanti abiti in più dovremo vendere per far ritornare in cassa i soldi investiti? Tutte domande o perplessità che nessuno avrà l’ardire di sottoporre ai due stilisti. Meglio associarsi al giubilo che tutti enfatizzano con sorrisi plastificati. Interpretare il ruolo dello iettatore in situazioni come questa, produrrà solo la temporanea emarginazione del capitano coraggioso, che rischia la pioggia, fa a pezzi il gelo, e per salvare un sogno rischia la pelle (1). Fan’culo i capitani coraggiosi, la pelle è la mia, se proprio lo volete, giocatevi la vostra! questo pensano i manager della fiction, alla quale tra l’altro torniamo subito a bomba, per ascoltare ancora la fantastica coppia di creativi nel preciso momento in cui presentano la loro “mossa del cavallo” (2) sulla scacchiera del mercato principe della loro marca. Per preparare un tappeto di emozioni a noi favorevoli – dicono Cip & Ciop – lanceremo tre super spot che testimonieranno il nostro amore per quella gente. Li bombarderemo a ripetizione con i nostri messaggi. Prima dell’evento, vogliamo che la nostra megasfilata venga vissuta come un dono e un nostro riconoscimento a tutti. Vogliamo che tutti in quel paese, proprio tutti, anche i gatti, sappiano quanto siamo bravi. E poi, parliamoci chiaro…Non penserete che investiamo una pazzia nello show così perché siamo dei fessi? Grazie al fall-out comunicativo che comincierà con lo spot che vedrete, contiamo di riportare a casa ben più delle risorse che stiamo investendo…Ma ora guardiamolo insieme…Nel silenzio si spengono le luci, sullo schermo appare una ragazza esotica che tenta di mangiare con le bacchette asiatiche un cannolo extralarge e long long, non ci riesce, appare in sovrimpressione la scritta Forse è troppo grosso per te. I manager apicali ridono, i più untuosi, avendo cura di essere sentiti dai due creativi, si lasciano sfuggire a ripetizione commenti del tipo geniale, forte, ma si facciamoli ridere. L’unico che commenta con una smorfia è Johnny Scorreggia, per la prima volta presente nel Sancta Sanctorum, solo perché è l’incaricato del monitoraggio sui social asiatici che interferiscono col mercato on line e, dicono i sapientoni, influenzano le scelte di tutti. Dei penosissimi anni trascorsi nel grande paese asiatico Johnny Scorreggia ha imparato ben poco della gente del luogo. Ma di una cosa è assolutamente certo: i giovani benestanti sui quali puntano le marche del lusso sono molto patriottici… e poi, cazzo, non ridono quasi mai! Pensa subito. Non hanno la nostra ironia, soprattutto quando il senso allude a qualcosa che ha a che fare col sesso. In pubblico sono molto più pudici degli occidentali. sono permalosi, molto reattivi quando si tratta di difendere l’identità nazionale. La smorfia di Johnny Scorreggia è la derivata della risposta neuronale che in pochi attimi i lobi pre frontali gli presenteranno anche nella forma di un pensiero esattamente contrario al sentimento improntato all’entusiasmo dei colleghi. Lo spot sarà una catastrofe, questo gli dice il pensiero. Ma come condividerlo con i presenti? È evidente che i due stilisti hanno già deciso tutto. E per giunta il loro stile egocentrico, cioè organizzare riunioni il cui senso è “guardate come siamo bravi” esclude un contraddittorio razionale. Bisognerebbe avere il coraggio di sopportare le prevedibilissime drammatizzazioni necessarie per togliere dalla faccia dei presenti, l’impronta delle risate isteriche che sono pur sempre un segno di accorata adesione allo spirito dell’azienda. Per togliersi di dosso l’invisibilità che lo caratterizza, Johnny dovrebbe dire ad alta voce che quello appena visto è uno spot di merda, un messaggio che porterà l’azienda alla rovina. Ma chi sono io per mettere in discussione le decisioni di due persone geniali? Pensa, tra sé e sé. Si perché non può non ammirare l’incredibile e duraturo successo dei due creativi, tra l’altro dipinti dal giornalistese come degli abilissimi strateghi della comunicazione nella moda. In definitiva lo spot familiarizza con lo stile provocante e impertinente che i due hanno eletto a vangelo aziendale. Ha sempre funzionato. Perché stavolta no? Gli chiederebbero. E allora dovrebbe lanciarsi a disquisire sulla mentalità asiatica, sul perché i regimi autoritari soffochino dentro le persone quella specie di bandiera della libertà concreta che sono l’ironia, il riso, le cose dette con leggerezza per provocare una reazione…Johnny dovrebbe parlare a lungo, in modo articolato, presentando anche le proprie esperienze. Ma nel Sancta Sanctorum è prevista solo l’enunciazione breve, sintetica, brillante, possibilmente di conferma alle decisioni già de facto operative.
Johnny Scorreggia quindi non dirà una parola.
Il brand dei due stilisti, per colpa dello spot, andrà incontro a una inaspettata catastrofe comunicazionale. L’imprevista e veloce reazione del social travolgerà in un attimo le significazioni attese da Cip & Ciop. La sottovalutazione dello stato di crisi e la prevedibile reazione umorale di Ciop, il più nervoso tra i due, unitamente ai comportamenti passivi dei manager descritti nella fiction, produrrà un cigno nero d’immagine con forti propensioni ad intaccare il fondo semantico e finanziario su cui si regge la struttura del brand (3).
La fiction che vi ho presentato ha valore d’apologo. Ovvero è una storiella creata per suggerirvi una riflessione su questioni che oltre a rilievi tecnici, costringe a prendere sul serio modalità organizzative che rientrano nella dimensione tipicamente umana dei comportamenti auspicabili in vista dell’efficacia di un team. Con alcune note etiche, aggiungerei.
Per esempio, se ci pensate un po’ ovvero fate dire al testo cose che non esplicita direttamente ma presuppone, non dovrebbe sfuggirvi che il brand della fiction viene descritto come robusto nei fatturati ma fragile di fronte a ciò che abbiamo chiamato “cigni neri comunicazionali”.
Perché? Possiamo presupporre infatti che:
- Il brand non abbia una struttura preposta a prevenire i rischi (non ha un risk management)
- Di conseguenza non può velocemente allestire strategie di contenimento adeguate al brusco aumento di scala che i problemi di comunicazione subiscono nella sfide imposte dalla globalizzazione (e dalle tecnologie che ne hanno accompagnato il dominio)
- Le decisioni sono troppo accentrate nelle mani di persone certamente creative ma troppo esposte o coinvolte nel progetto, senza una reale conoscenza degli elementi in gioco nel contesto allargato in cui il progetto diventa azione concreta, attivando le reazioni che sarebbe logico prevedere
- Dal punto 3 discende che il brand è condizionato dal carisma dei protagonisti; carisma che in particolari situazioni può evolvere nell’eccesso di autorità che a sua volta intimidisce il pensiero critico e inibisce una reale partecipazione dei collaboratori.
Nel finale della fiction vi ho detto che lo spot si è rivelato una catastrofe. Prendete sul serio il significato di catastrofe: in questo contesto pensatelo come qualcosa che mette a repentaglio la vita del brand. Ora, provate a immaginare cosa può essere successo dentro all’azienda. Non essendo attrezzata a prevenire rischi, si può congetturare che la notizia della fallimentare reazione del pubblico allo spot, sia stata vissuta come uno shock paralizzante (d’altronde il problema dell’accentramento delle decisioni è proprio lo stato di incertezza in cui versano i soggetti che potrebbero essere utili ma che invece essendo abituati ad attendere ordini restano intellettualmente passivi). A questo punto l’uscita dallo shock può facilmente debordare in risposte umorali, rabbiose, di carattere locale, cioè scollegate dall’aspetto centrale del rischio.
In sintesi: si perde tempo, e si getta benzina sul fuoco. Comprenderete quindi come l’escalation divenga inevitabile e così può accadere che un banale spot possa arrivare a intaccare pericolosamente il capitale di fiducia e prestigio accumulato nel tempo dal brand.
Vi ho anche detto che la fiction ha un valore d’apologo. Significa che in qualche modo ci induce a riflettere su alcune conseguenze del cambiamento di scenario imposto dalla globalizzazione e dall’emersione del media più potente e destabilizzante creato dall’uomo cioè internet.
Se fossi uno dei lettori della fiction, la penserei più o meno così:
La globalizzazione corrisponde di fatto a un aumento del rischio di disordine e complessità. Di conseguenza le possibilità di subire crisi comunicazionali sono all’ordine del giorno.
Le modalità organizzative del passato non garantiscono il ripristino dell’equilibrio.
Occorre immaginare un nuovo livello operativo che coinvolge dimensioni tecniche e consapevolezza etica.
Ancora, direi che mi colpisce il ruolo esorbitante del fattore Tempo, assolutamente decisivo nei fenomeni di coda cioè quando si entra nel vortice dell’evento imprevedibile che abbiamo chiamato cigno nero comunicazionale.
Le fiction o le storie, lo sappiamo bene, piacciono a tutti. In un certo senso ci permettono di osservare con gli occhi dell’immaginazione, aspetti della realtà altrimenti assorbiti dalla disordinata ricchezza percettiva e cognitiva dei fatti tout court.
Sappiamo anche che alcune storie possono avere la proprietà di assomigliare a fatti realmente accaduti.
Per esempio, io credo che a molti di voi l’avventura di Cip & Ciop abbia fatto venire in mente una recente disavventura capitata a Dolce & Gabbana, brand tra i più autorevoli della nostra moda.
A tal riguardo, vorrei precisare che se pur esistono connessioni tra gli eventi provocati e subiti dalle due coppie di creativi, sono connessioni dell’ordine della caricatura. La funzione di una caricatura è raggiungere la verità su qualcosa, attraverso l’accentuazione di alcuni tratti. Deformando determinati aspetti del soggetto si fanno emergere le qualità che rappresentano con maggiore nitidezza e forza alcune sue caratteristiche particolari.
Concordo con i molti di voi che hanno avuto l’illuminazione che sotto sotto, parlassi dei due prestigiosi stilisti italiani, ai quali vanno le mie scuse per l’evidente caricatura proposta. È chiaro che il Sancta Sanctorum non esiste, e nemmeno conosco le modalità relazionali interne alla loro azienda.
Quindi, vi propongo ora di fare una brusca deviazione che ci farà planare sull’ordine dei fatti accaduti a Dolce & Gabbana, per allontanarli dalla straniante ombra di Cip & Ciop.
Collochiamoci verso la fine del mese di novembre 2018.
Sui social cinesi appaiono tre spot del brand Dolce & Gabbana, intitolati “Eating with Chopstick”.
Nei video, la modella cinese Zou Ye, viene invitata da una voce fuori campo a mangiare usando le bacchette, tre tipici piatti italiani: pizza, cannolo gigante, spaghetti al pomodoro.
Ovviamente incontra delle difficoltà e finisce col bisticciare con l’esotico cibo. Sembra divertita e al tempo stesso imbranata.
Nello spot del cannolone gigante, la voce fuori campo fa un commento che nell’era #MeToo annuncia prevedibili reazioni isteriche: “ È troppo grande per te?”.
Dobbiamo pensare che, malgrado l’evidente ironia, con questi spot, i responsabili dell’azienda italiana volessero rendere omaggio alla cultura cinese, per alzare l’interesse nei dintorni dell’attesa sfilata evento all’Expo Center di Pudong a Shangai.
L’immediata e durissima reazione dei millennials cinesi alla presa in giro della loro tradizione, si può dire abbia colto di sorpresa i titolari del brand italiano. Forse pensavano che il raggiante abitino rosso indossato dalla modella e l’effetto “look aumentato” prodotto da dorati bijou extralarge, catturasse l’attenzione dei giovani cinesi, attenuando il senso di ridicolo dell’azione di portare alla bocca con innocenti bacchette trance di pizza troppo grandi, superdotati cannoloni e spaghetti. Non è andata così. Perché? Vi propongo una mia congettura: la musichetta cretina e la voce maschile fuori campo, impegnata a far sembrare ancora più ridicoli i gesti della modella, hanno bruscamente deviato il senso emozionale del messaggio, polarizzandolo sullo scontro tra un brand straniero irriguardoso, arrogante e un grande paese asiatico dileggiato. A questo punto posso immaginare che il contesto emozionale dello spot sia imploso. La fragilissima superficie ironica del messaggio è stata di colpo bucata da sentimenti poco conformi alla modazione. Al posto della risatina attesa, guarda com’è buffa la cinesina che bisticcia con il cannolone, e quindi del sorriso che marca il piacere che proviamo quando vediamo situazioni comiche, è arrivata di colpo una ondata di indignazione che si è subito trasformata in rabbia, per via dell’infernale dispositivo a matrice esponenziale del web.
Io credo che la “rabbia” sia una delle poche passioni inassimilabili o quasi dalle narrazioni utilizzate dalla moda per eccitare i suoi pubblici. Comporta rischi di escalation emotiva il cui esito è imprevedibile.
Il filosofo Seneca, nel suo libro De ira ( lo scrive nel I sec. dopo Cristo), descrive la rabbia come una forma di follia di breve durata, nella quale ci comportiamo come animali selvaggi. Pensava inoltre, probabilmente seguendo Aristotele, che le cause di questa brusca involuzione, fossero il sentirsi sminuiti o insultati. Inoltre, aggiunge, la rabbia ci appare particolarmente motivata quando gli insulti arrivano da qualcuno che a nostro avviso non si può permettere di offenderci (4).
Aggiungerei a mia volta alle parole del filosofo, la constatazione che la rabbia è particolarmente contagiosa e si distribuisce in tutte le direzioni cioè può coinvolgere anche chi l’ha provocata (vedremo che questo rilievo avrà una importanza decisiva sugli sviluppi del caso D & G).
Fermiamoci un attimo per pensare a cosa potrebbero dirci Stefano Dolce e Domenico Gabbana se fossero qui con noi. Ve la metto giù così: Cari studenti, noi sapevamo benissimo che il mercato cinese valeva per la nostra azienda 400 milioni di euro. Il nostro obiettivo non era certo fare incazzare i nostri migliori clienti. Però dovete considerare che oltre al fatturato esiste anche il nostro stile, negli abiti e nella comunicazione. Il nostro stile ci ha portato ad essere quello che siamo cioè uno dei punti di forza del Made in Italy nel mondo. Come potremmo definire il nostro modo di confrontarci con il mondo? C’è una parola che a nostro avviso può definirlo meglio di altre: provocazione, nel senso di sfida alle banalità, alla noia, alle cose date per scontate. È chiaro che è uno stile che contempla il rischio di trasgredire, di collocarsi fuori dal coro. Ma cosa saremmo senza il nostro stile? Esisterebbe un brand che fattura 1 miliardo e diverse centinaia di milioni di euro senza il nostro stile? Se siamo arrivati così in alto non significa forse che funziona? Ora forse capite il perché quando per la prima volta abbiamo visto lo spot in oggetto eravamo convinti della sua sostanziale conformità. Oggi sappiamo di aver fatto un errore, ma eravamo in buonafede cioè come sempre desideravamo presentarci per quello che siamo ovvero un brand che non ha paura di dare una scossa alle rigidità che bloccano la fantasia,la creatività, il gusto di sentirsi diversi…
Devo dire, che se veramente i due stilisti, per non so quale miracolo fossero atterrati in quest’aula, ci avessero proposto il ragionamento sopra riportato, non avrei dubbi nel definirlo ragionevole e persino vero.
Ma al tempo stesso classificherei quel concetto di verità come non utile e paradossalmente troppo intellettualistica. Perché? Se faccio della provocazione il tratto dominante del mio stile (di comunicazione) devo essere pronto a prevederne gli effetti sistemici: se non riesco o posso calcolarne la valenza (perché per esempio non conosco il contesto culturale nel quale dovrà interagire il mio messaggio) è meglio lasciar perdere la provocazione che piace a me, anche se la media dei successi del passato parla a suo favore.
In questi casi fidarsi delle medie ( cioè ragionare guardando il passato) è una idiozia. Sono i fenomeni di coda a entrare pericolosamente in gioco. Ma i fenomeni di coda possiedono un altissimo tasso di casualità. In altre parole non sono prevedibili ( ecco perché generano i cigni neri comunicazionali). Ma allora cosa si deve fare? Per esempio si può optare applicando una sorta di “principio di precauzione” da utilizzare per i processi comunicativi estremi, ovvero riducendo la quota di “provocazione” del messaggio.
Facciamo degli esempi. Provate a togliere la voce fuori campo dal nostro spot e vedrete che la presunta accusa di sessismo non ha ragione di emergere. Visto che sono in ballo, aggiungo una ulteriore riflessione. Provate a immaginare che, senza la voce fuori campo ovviamente, provate a immaginare dicevo questa scena finale: la bellissima cinesina, dopo aver bisticciato un po’ con il cibo italiano, ripone delicatamente le sue bacchette di fianco al piatto, afferra elegantemente il cannolone, o la pizza, e prendendolo con due dita se lo mangia. Non trovate che in questa forma anche l’accusa di razzismo fatta dai millennials nazional/cinesi non abbia ragione di esistere? In definitiva cosa “dice” la modella con quel gesto? Qualche volta occorre sospendere la tradizione (le bacchette delicatamente, riposte), per risolvere empiricamente il problema del cannolone (è vero: con gli spaghetti la vedo un po’ dura, ma perché gli spot devono essere proprio tre? Forse bastano due). A questo punto la modella trasmette sia reverenza nei confronti della sua cultura e sia l’idea di essere intelligente in senso pratico. La provocazione c’è ma fa ridere e non incazzare. Missione compiuta.
Qualcuno di voi, maliziosamente, potrebbe sostenere che come ricordavamo sopra, nell’era #MeToo far vedere una modella che si infila in bocca un cannolone, corra il rischio di far rientrare dalla finestra il sessismo al quale pensavamo di aver sbarrato la porta. Vorrei però farvi notare che non c’è nessuna voce maschile che dà ordini; il gesto è l’espressione di una libera scelta della modella. E poi trovo veramente ridotto male chi mai dovesse immaginare simili contenuti a partire da un efficace quanto innocuo gesto che appartiene alle soluzioni euristiche di tutti i popoli ( chi non si è mai trovato a mangiare temporaneamente con le mani qualcosa alzi la mano?).
Ritorniamo alle questioni serie.
Gli esempi di re writing dello spot, forse un po’ cretini, che vi ho esposto, servivano a farvi capire qualcosa che reputo importante.
Le emozioni, quelle che sentiamo o subiamo, non sono le etichette verbali che le classificano secondo il registro di razionalità linguistica che abbiamo eletto ad equivalente generale dello scambio di pensieri. Le emozioni sono più dense e fluide delle parole. Le emozioni si muovono, cambiano in intensità e qualità.
Per esempio, l’ira familiarizza con la rabbia, con la stizza o il furore. Ma noi sappiamo che ci inducono a reazioni molto diverse.
Se è vero che le narrazioni preferite dalla moda sono quelle che mobilitano le emozioni dei fruitori, allora chi si trova all’inizio del processo cioè chi le crea, dovrebbe avere su di esse un maggiore controllo di chi eventualmente le subisce.
Io credo che Dolce & Gabbana abbiano perso il controllo sul grado di provocazione compatibile con il contesto nel quale dovevano agire.
Come sia possibile che un brand così esposto con strategie basate sulla provocazione (non era certo la prima volta che le pubblicità del brand avevano suscitato accese polemiche, ma, a mia memoria mai così devastanti), abbia sbagliato in modo così clamoroso, è la domanda che più o meno tutti si sono posti.
Di passaggio, vi ricordo che l’idea della fiction come apologo, mi è venuta proprio a partire da questa domanda. Ho immaginato che non ci fosse stata una analisi critica preliminare dello spot, sia per l’eccessivo accentramento decisionale e sia per la configurazione organizzativa sbagliata della parte di azienda preposta alla comunicazione globale.
Inoltre ciò che ha tradito il brand è la scarsa presa in considerazione di come funzionino i social nel web. L’aspetto più divertente di tutta la faccenda è che D & G è stato travolto dal modo più naturale per trasmettere le informazioni. Prima dell’invenzione della carta stampata e dei mass media, le persone si scambiavano le informazioni parlando tra loro. Erano cioè sia i destinatari che i mittenti delle notizie che circolavano. Il web ha ripristinato questo modo naturale di scambiarsi le notizie. Con una differenza fondamentale: l’enorme velocità di propagazione della notizia con la conseguente impossibilità di fermare il contagio (prima che si estingua per moto proprio).
Infatti, dopo sole 24 ore, lo spot era stato rimosso dai social. Ma nonostante questo intervento, l’andata di rabbiosa indignazione non ha potuto che crescere.
Facciamo un altro intermezzo. Se i fatti si fossero conclusi con la rimozione dello spot dalla rete, immediatamente seguito da una semplice dichiarazione di scuse per il disagio inflitto agli ipersensibili difensori della tradizione cinese, probabilmente il caso D & G avrebbe seguito il decorso di tante “crisi comunicazionali” che alla fine, non hanno comportato nessun costo visibile per i brand coinvolti.
In altre parole, molti brand della moda, incorrono in sottovalutazioni degli effetti sistemici negativi che arrivano a cascata dall’interazione con il web. L’ho già detto: il webnauta ha rispolverato l’antico “passaparola” che però oggi viaggia alla velocità di una astronave spaziale di Star Trek.
Bisogna anche considerare gli effetti della duplice funzione che più o meno consapevolmente interpreta. Il webnauta dei social è destinatario ma anche mittente, rovesciando così la gerarchia implicita venuta a cristallizzarsi nell’era della carta stampata e della Tv, nella quale, si fa per dire, poche testate e pochi esperti tenevano sotto controllo la situazione problematica (insomma, alla fine ti potevi sempre accordare, per esempio comprando pagine pubblicitarie).
Quindi, con il web, le bolle comunicazionali negative, sono molto più frequenti rispetto il passato. Le aziende-moda hanno imparato in fretta ad interagire con questa nuova dimensione del rischio. Se oggi tutti o quasi i grandi brand esibiscono come trofei protocolli etici, non lo fanno certo perché i loro manager sono diventati improvvisamente più buoni. Credo che si debba attribuire in parte al web questa assunzione di responsabilità.
Per farla breve: i brand della moda hanno capito il nuovo orizzonte del rischio che comporta lo sfruttamento del web e quasi sempre riescono a rimediare alle loro cazzate.
Al punto che, per molti sapientoni, in certi casi non risulta ben chiaro se una determinata bolla carica di energiche polemiche pronta ad esplodere, sia veramente casuale oppure calcolata pro domo sua da un brand. Potremmo definire strategia del negativo questo modo di incamerare una paradossale notorietà. Grosso modo la faccenda funziona così: scelgo deliberatamente una forma/contenuto polarizzanti, appena l’ondata isterica dei social prende quota, chiedo scusa a tutti, ricordando quanto sono buono e bravo con il protocollo etico ben esibito nel mio sito; prometto che sarò attentissimo e intransigente sull’etica, faccio un po’ di merchandising umanitario, e….incasso un premio di notorietà che non avrei mai raggiunto (in tempi così brevi) con una campagna buoni sentimenti. A questo punto gli isterici webnauti saranno soddisfatti e forse ne avrò tirato molti dalla mia parte (compreranno miei prodotti), i miei clienti risulteranno immunizzati dalle polemiche. Fine (provvisoria) del game.
Come vi dicevo esistono numerosi casi che potrebbero rientrare nelle cornici strategiche che vi ho velocemente delineato. Il maglione Blackface di Gucci, la modella battezzata dai social come un elogio dell’anoressia di una campagna di Patrizia Pepe (2011), cominciata con critiche pesantissime contro il brand e finita in sbaciucchiamenti tra la stilista e organizzazioni specifiche…Se smanettate sul vostro computer, in internet troverete facilmente altri esempi.
Non escludo che qualcuno in D & G, relativamente allo spot in oggetto, pensasse a una concatenazione di eventi simili a quanto vi ho descritto e quindi sottovalutasse i rischi di coda (per esempio l’orgoglio nazionalistico dei cinesi, molto diverso dal gusto tutto italiano di provare un inconfessabile piacere nell’assistere e/o partecipare al dileggio dell’italianità), dimenticandosi di una regola aura che mio nonno, eroico imprenditore agricolo, conosceva benissimo e mi ricordava in forma di adagio (così Erasmo da Rotterdam chiamava motti e proverbi popolari che discendevano dalla cultura dei classici latini): non gettare mai benzina sul fuoco, se vuoi spegnerlo.
Ma ora, non prima di porvi le mie scuse per la digressione, torniamo alla questione che ci appassiona, chiedendoci:
Cosa ha trasformato la “crisi comunicazionale” in cui era precipitato Eating with Chopstick, in un un cigno nero?
Probabilmente molti di voi lo sapranno già, ma è utile ricordarlo alla lettera.
Leggete cosa riporta l’immagine che vi presento.
L’account di Instagram Diet Prada, certamente non posta un commento amichevole. Ma il suo punto di vista non è poi così inusuale. Lo sappiamo tutti che la pubblicità vive di stereotipi, così come spesso gli stilisti cercano ispirazioni studiando e quindi citando costumi storici. Lo fanno praticamente tutti i creativi. Molti però trovano tutto questo risibile. E allora? Non era poi così difficile dare una risposta pacata all’abile istigatrice. E invece Stefano Gabbana indugia a ripetizione nell’errore “conversazionale”, affidandosi a offensivi stereotipi…i cinesi mangiano i cani, il loro paese è una merda (merda scritta con gli emoticon, ma nei social questa precauzione da educanda non commuove nessuno).
Cosa passasse per la testa del grande creativo imprenditore non possiamo saperlo; possiamo però fare delle congetture, anche se, ve lo confesso, quando lessi la frase, “D’ora in poi dirò in tutte le interviste che faccio che la Cina è un paese di merda, e che puoi stare tranquilla, viviamo benissimo senza di te”, mi sono chiesto se non fosse il caso di prevedere l’etilotest o l’antidoping, per chi in una situazione di crisi si assume l’onere della presa di parola che significa, ve lo ricordo, compiere una vera e propria azione.
Stavo esagerando ovviamente. Stefano Gabbana era probabilmente troppo confuso e scioccato dalla crisi comunicazionale che stava velocemente montando, e quindi non si è accorto che rispondeva con rabbia alla rabbia. L’escalation passionale che porta inevitabilmente al cigno nero era completata. E così è stato.
È chiaro che Stefano Gabbana stava conversando, si fa per dire, con una singola modella e non con il popolo cinese. Ma in una situazione di crisi, sui social, queste distinzioni razionali non sono contemplate. È chiaro che le risate ostentate ah!ah,ah! o gli insulti tipo mafiosa cinese arrogante, in un contesto discorsivo privato ci evocano poco più di un banale litigio. Non sui social nei quali bastano una dozzina di influencers specializzati nell’esasperare i contenuti per scatenare l’inferno; non in una situazione di crisi, non se ti chiami Stefano Gabbana, fatturi un miliardo di euro e da te dipende la vita di migliaia di persone.
Si perché le conseguenze della rabbia tribale (mi riferisco alle logiche tribali che dominano nei social) posso essere devastanti. Provate a pensarci su: quando vi arrabbiate sul serio cosa vorreste fare del vostro antagonista? Liquidarlo con bacino riparatore? Invitarlo ad analizzare razionalmente la situazione? Lo invitate a cena e gli fate pagare il conto? Non ci credo. Penso che proviate la mostruosa fantasia di farlo a pezzi (o di fare a pezzi qualcosa). Ora, come individui abbiamo imparato a proteggerci da questa increspatura della sensibilità e da persone civili e timorate di Dio, la releghiamo tra le sceneggiature immaginarie nella stanza della mente dove raccogliamo le cose che non devono mai realizzarsi (per chi non possiede questa stanza interiore abbiamo creato solide strutture che si chiamano manicomio e carcere). Ma sappiamo tutti che il solo fatto di trovarci in gruppo (anche se solo virtuale), cambia la situazione. Bene, sembra che il web sia un grande catalizzatore di emozioni esasperate, estreme. Dal momento che sono solo chiacchiere e cinguettii, potendoci tra l’altro dissimulare usando pseudonimi, succede che ci abbandoniamo all’ebrezza delle emozioni del momento. Con estrema leggerezza ci trasformiamo in creduloni (fake news), siamo propensi a esagerare, godiamo nel partecipare alle mille forme che la crudeltà, il cinismo, la noncuranza verso “l’altro” indubbiamente ci procurano.
Voi sapete che è per questo che molte persone vivono con ansia il dominio dei social nella vostra vita.
Allora quale sarà stata la conseguenza della rabbia nel caso D & G? Ve lo dico in termini brutali. La logica tribale che discende dall’effetto sistemico dei social ha preso subito la strada della distruzione (simbolica, ma fino a un certo punto) della marca. Forse comprenderete ora meglio la reazione di Stefano Gabbana. Certo non per giustificarlo. Ma per capire quale era divenuta la posta in gioco della faccenda. Ebbene non ho remore a ribadire che la posta in gioco era la sopravvivenza del brand. Spero che a questo punto vi sia chiaro cosa significa cigno nero e il livello di rischio che comporta.
Comunque l’elenco di ciò che a tutti sono apparsi veri e propri errori di gestione della crisi, non è finito. Infatti, sembra che D & G abbiano voluto con struggente generosità consegnarci un caso veramente esemplare di idiozia comunicazionale, negando l’evidenza, nascondendosi dietro al presunto hackeraggio del proprio sito, effettuato evidentemente da sconosciuti che avevano l’intenzione di danneggiarli fomentando le polemiche.
Come era prevedibile attendersi, nessuno ha creduto agli hackeraggi. Gli internauti rabbiosi hanno trovato nuova linfa per perseverare nell’opera di distruzione del brand (vi ricordo che in internet potete trovare dei video nei quali ragazzi cinesi incendiano magliette D & G, ci saltano sopra, le imbrattano etc.), mentre ai più moderati non restava che scuotere la testa e pur a malincuore forse, allinearsi ai primi con i like e commenti.
Una crisi comunicazionale di queste dimensioni, anche se può sembrarvi un’assurdità, la dovete pensare come se fosse una crisi ecologica grave. Chi vi si trova coinvolto ha in realtà pochissime opzioni. La migliore è dire la verità, tutta, subito. L’errore più grande è raccontare balle.
Questa nota raccomandazione o massima, decidete pure voi l’etichetta con la quale memorizzarla, nata dall’analisi di casi ben più gravi e letali, ben conosciuta da chi segue le euristiche legate alle strategie messe in campo dalle aziende coinvolte in eventi di grande impatto negativo sull’opinione pubblica, è stata finalmente raccolta dai nostri due stilisti dopo 4 giorni di tremenda esposizione mediatica.
Con un laconico videocomunicato hanno chiesto scusa alle istituzioni e ai ragazzi cinesi, ammettendo di aver imparato molto da questa esperienza.
Devo tuttavia aggiungere che 4 giorni di esposizione sono troppi. In questi casi il fattore tempo è decisivo. Probabilmente, dopo il videocomunicato, il fuoco che alimentava la rabbia dei giovani cinesi si è attenuato. Ma la sua intensità prolungata troppo a lungo, ha quasi certamente depositato risentimento e sfiducia. Sentimenti meno letali della rabbia, ma più durevoli.
Tra l’altro la lunga esposizione comporta a cascata l’arrivo di problemi causati dall’accanimento analitico a cui viene sottoposto il testo in oggetto. Vi faccio un solo esempio. Yu Wei Wei, corrispondente dalla Cina per il Corriere della Sera, un paio di giorni dopo lo scatenamento dell’orda social, scrisse un articolo nel quale pontificava che la modella scelta da D & G per la campagna, avendo sottili occhi a mandorla e zigomi alti, anche se per noi occidentali risulta carina, per i cinesi era brutta. Probabilmente il giornalista voleva mettere a fuoco i rischi connessi all’uso disinvolto di stereotipi nella pubblicità. Ma, nel contesto polemico che ho brevemente descritto, il senso implicito dell’articolo finiva con trasmettere anche un messaggio ambiguo del tipo, D & G offendono la Cina mostrando una modella brutta… o qualcosa del genere. Ebbene, qualunque cosa volesse dirci Yu Wei Wei, senza la prolungata esposizione ai social, quell’articolo non sarebbe mai stato scritto in quel modo cioè alla ricerca del classico ago nel pagliaio. Chiaramente, se le mie presupposizioni sono plausibili, l’accanimento analitico aggiunge all’indignazione, il dileggio che segue come un’ombra i segni dell’incompetenza, aggiungendo nuovi elementi negativi alla assordante sinfonia emotiva che il brand deve subire.
A distanza di mesi, il caso che vi ho riportato, fa emergere con maggiore evidenza rispetto a quei concitati giorni, tutte le esagerazioni nate a partire da uno spot senz’altro irriguardoso e troppo ironico per il pubblico cinese. Ma da questo a considerarlo, al di là di ogni ragionevole dubbio, uno spot razzista o sessista o dissacrante la tradizione di quel paese, ce ne passa.
Come mai non si è levata una sola voce, non per difenderlo, ma per così dire, rimetterlo con i piedi per terra? Possibile che tanti giovani che hanno studiato in Occidente, vestono alla moda come noi se non meglio, possibile che nemmeno uno di loro abbia tentato di dare la giusta proporzione ai fatti?
Come hanno fatto pochi rabbiosi commenti ad accecare milioni di internauti?
Io credo sia entrata in azione una derivata di ciò che il filosofo Karl Popper chiamava “regola di minoranza” (ovviamente il grande filosofo pensava a come si sviluppava la scienza e non certo ai mutamenti delle mode, a internet o agli spot). Come funziona questa regola? Ve la propongo attraverso le autorevoli parole di Nassim Nicholas Taleb: “A una minoranza intransigente (di un certo tipo) che si metta in gioco (o meglio ancora, che ci metta l’anima) basterà raggiungere una soglia irrisoria, diciamo il tre o quattro per cento della popolazione totale, per costringere quest’ultima ad adeguarsi alle preferenze di una minoranza” (5).
Nassim Nicholas Taleb, con i ragionamenti contenuti nel libro citato, mi ha convinto che un piccolo numero di persone intolleranti e virtuose, disposte a mettersi in gioco, possono, in un contesto dominato dalla complessità, governare, condizionare, guidare tutte le altre.
Se ci pensare bene il movimento #MeToo è cominciato proprio così e oggi lo ritroviamo così potente da arrivare persino a censurare i libri che leggevamo a scuola quasi come i classici, rimuovere quadri capolavoro dai musei, farci vergognare delle innocue espressioni colorite che usavamo con leggerezza quando si parlava tra amici di “oggetti immaginari” chiaramente attratti dal vortice della pulsione sessuale.
Il funzionamento dei social è paragonabile alle dinamiche dei sistemi complessi cioè ai dispositivi ad alta entropia, nei quali non è importante chi è veramente il partecipante, bensì è decisivo il tipo di interazione che lo dissemina e annoda ad altri elementi. Una delle proprietà emergenti dei sistemi complessi è l’imprevedibilità dei comportamenti che discendono dalle interazioni. Quindi le singole parti non contano quasi nulla, perché è l’effetto macroscopico del “tutto” a creare problemi. Queste proprietà emergenti non devono essere necessariamente complicate. La regola di minoranza è un esempio di proprietà emergente molto interessante per capire come mai pochi post possono mettere in crisi il prestigio, la reputazione di un potente brand.
Per concludere, vorrei ritornare brevemente da dove ero partito, dalla fiction/apologo. Spero abbiate capito che i problemi di quel brand senza nome, prima di materializzarsi nella campagna fallimentare, si presentavano nella forma di modalità discutibili se non proprio sbagliate, nell’uso di risorse umane. Insomma, manager che hanno paura di dire quello che pensano, non rispettano il loro mandato. Certo, il successo, il carisma e il pessimo carattere di Cip & Ciop contribuiscono a renderli un po’ sonnambuli. Lo comprendiamo bene. Ma Johnny Scorreggia, l’unico che ha l’esperienza e le informazioni utili per l’esercizio del pensiero critico sullo spot, non può essere completamente assolto. Cosa gli manca? Cosa manca a quel brand? Mancano le virtù morali che chiamiamo coraggio, condivisione, prudenza, responsabilità, temperanza (nel senso di equilibrio). Sono queste virtù morali che ci aprono a ciò che gli antichi chiamavano saggezza (equilibrio nelle decisioni, capacità di trarre dall’esperienza il consiglio utile). La saggezza può renderci immuni dai cigni neri comunicazionali? No! Però può suggerirci la strada verso il sapere utile per ridurre il rischio di essere travolti. Può rendere il nostro brand antifragile ( nel senso dato al concetto da Nassim Nicholas Taleb). E l’avvento del web con i suoi sofisticatissimo algoritmi, non ha affatto cancellato il bisogno di saggezza. Al contrario, io credo lo abbia rafforzato.
Cosa dire infine, di Dolce & Gabbana? Il trauma subito dal brand non toglie nulla al mio rispetto per creativi e imprenditori che non hanno mai avuto paura di metterci la faccia. Dal mio punto di vista, come avrete intuito, qualcosa nell’azienda dovrebbe cambiare (soprattutto in relazione ai social). Probabilmente l’assorbimento del cigno nero subito richiederà del tempo e comporterà delle perdite. Provate a riflettere sui presunti costi che ha subito l’azienda. Spot ritirato, i Vip hanno annullato la loro adesione alla mega sfilata, le Istituzioni Cinesi idem, sfilata annullata, i prodotti D/G rimossi da tutti i siti e-commerce cinesi, capi di abbigliamento calpestati e incendiati trasmessi da video virali a tutte le tribù di internet…Non credo che le ombre negative sul brand si dissiperanno in fretta.
Ma personalmente non suggerirei mai ai due fantastici creativi di perdere la propensione al rischio che li ha sempre contraddistinti, migliorati e irrobustiti. La loro creatività è fuori discussione. Il loro stile caratterizzato da provocazioni e da robuste note di irriguardosità, ci ha donato spesso collezioni di sublime bellezza. Semplicemente raccomanderei maggiore saggezza quando affrontano situazioni comunicazionali caratterizzate da una insopprimibile incertezza, situazioni che possono mettere a repentaglio la sopravvivenza del brand.
Addenda:
Il testo che presento ai lettori di Mywhere è il resoconto di una lezione tenuta presso il corso ITS McLuhan a Bologna.
Per assecondare il mio piacere di completezza didattica aggiungo le note euristiche implicite alla lezione, scritte in modo dogmatico.
a) È impossibile arginare o avere il controllo delle conversazioni dei social, quindi è improbabile si possa prevenire ogni possibilità di crisi. Non sappiamo bene il perché e il come, ma nei social le fake news hanno maggiori probabilità di successo. Ecco perché le aziende più evolute preparano e simulano Piani di comunicazione di crisi, con l’obiettivo più o meno esplicito di prevenire i livelli di rischio eccessivamente pericolosi per l’immagine del brand che risultano in qualche modo calcolabili, ma che hanno una funzione primaria di allenamento del team agli stress che inevitabilmente comporta la crisi di comunicazione.
b) La globalizzazione ha reso necessari atti comunicativi che attraversano velocemente contesti culturali molto diversi tra loro. I fraintendimenti interculturali sono molto più numerosi dell’eco che ci arriva dalla comunicazione standard (quella mediata dal giornalismo professionale). L’orizzonte dei rischi collegati agli atti comunicativi necessari per la modazione si è allargato in misura esponenziale. Quali sono i rischi che dobbiamo e/o possiamo correre? Tutti gli altri sono da evitare (lì comincia il territorio dei cigni neri).
c) Quali sono le tattiche preventive che diminuiscono i rischi (di crisi)? Eccovi un breve elenco di virtuosità comunicazionali:
– Ascoltare i propri pubblici (soprattutto le cose che non vanno)
– Monitoraggio permanente di news, community, mutamenti di opinione, grandi temi che appassionano trasversalmente il pubblico del web. La rete rende facile per soggetti squilibrati praticare l’esercizio che li fa più godere, senza alcun rischio di sanzioni, cioè dire cazzate, con la speranza che funzionino come un petardo gettato in una polveriera. Occorrono dunque tattiche anti-cazzata alternative alla banale “strategia del silenzio” (la più praticata dai brand, un po’ per arroganza e molto per paura). Il silenzio spesso diviene complice dell’aumento di scala del problema ed è un segno di non esistenza della marca. Comunque vada esistere è meglio di non-esistere.
– Delineare in anticipo le procedure che sincronizzano i costributi delle risorse professionali che collaborano per arginare lo stato di crisi ( le procedure riducono lo shock iniziale e il caos interno all’azienda che ne consegue).
– Avere un piano di attivazione degli Stakeholder per sfruttare la loro influenza sui pubblici coinvolti nello stato di crisi. Se ben coordinati possono deviare le probabili negatività. Qualche volta assorbirle e dissiparle. La loro opinione diviene cruciale con l’aumento di intensità dello stato di crisi.
– Decidere chi sarà la Spoken Person cioè colui che rappresenterà l’azienda.
d) Con i social è importante dedicare inoltre una estrema attenzione alla dimensione emozionale degli atti comunicativi. Le emozioni non stanno ferme, si muovono, aumentano o diminuiscono la loro intensità…
L’attività dei social quando raggiunge una certa temperatura di ebollizione, fa emergere una semantica semplice del tipo bianco/nero, vero/falso, bello/brutto etc. Qualunque sia la direzione che prenda, al suo interno emergono sempre configurazioni estreme che risultano spesso dei concentrati di odio, irrazionalità, disumanità, opinioni al limite della salute mentale etc. Tuttavia non bisogna mai dimenticare che a livello olistico i social pretendono dai brand della moda comportamenti che sono esattamente l’opposto di quelli che animano i singoli elementi che incendiano una community. Di conseguenza:
- di fronte a problemi (veri e pseudo) manifestare sincera preoccupazione (stringendo i denti potete anche simularla, chi volete che se ne accorga?)
- Occorre mettere in campo empatia, sincerità, umanità (anche in questo caso a volte dovrete mentire a voi stessi; non rispondere a tono alle stronzate presentate come fossero il problema dell’umanità, è un esercizio utile, dopo un po’ vi scoprirete molto più empatici di quanto potevate immaginare e di fronte a problemi veri non tentennerete)
- Non cessare mai di dare spiegazioni (o di tentare di farlo)…mantenete il contatto con chi esibisce problemi in qualche modo identificabili come tali. Non rispondete mai alle idiozie dei ritardati mentali. Mantenere il contatto con i primi trasforma il silenzio con i secondi in un intelligente meta messaggio agli internauti più numerosi e pericolosi: quelli che aspettano di vedere che piega prendono le cose per poi con i like farle decollare verso i guai.
- Assumersi sempre le proprie responsabilità( metterci la faccia, sempre)
e) Dotarsi di esperti nella comunicazione interculturale, possibilmente prima di subire un evento critico ( l’esperto interculturale sarà utile anche per diffondere in azienda una sensibilità verso la complessità dei pubblici impliciti nel progetto di globalizzazione del mercato)
f) Attenzione estrema al fattore Tempo. Il tempo del web non è quello della famosa nonna in carriola, non è quello che scandisce le attività del vostro papà, e non è nemmeno il vostro tempo ordinario. Il tempo del web adora il caos.
Note:
1) Orrenda canzone scritta da Claudio Baglioni, cantata qualche anno fa insieme a Gianni Morandi, in un memorabile concerto per adulti invecchiati male. Dicono fosse ispirata al celebre libro di R, Kipling, “Captain Courageous” del 1897. I manager della fiction non meritano di essere associati al celebre romanzo. E nemmeno al grande Spencer Tracy, interprete principale del film hollywoodiano tratto dal libro, diretto da Victor Fleming (1937). La parafrasi della canzonetta dunque, mi è parsa più consona al carattere dei personaggi della mia fiction.
2) Si tratta di una citazione “ignorante” dell’omonimo romanzo di Camilleri (1999), nel quale avviene un rovesciamento di ruoli: il testimone diviene l’accusato. Uso la parola “ignorante” nel senso attribuitagli dai frequentatori dei bar sport, quando per esempio parlano di gol ignoranti (quelli nati da azioni sgangherate o da tiracci improvvisati, nei quali dopo la moviola il tifoso crede di scorgervi una certa illogica bellezza). Nella fiction in oggetto, si allude a due rovesciamenti: a un repentino cambio di marcia della marca su un mercato decisivo per la crescita; e agli stilisti che divenendo strateghi si mettono praticamente al posto del loro management.
3) Uso l’espressione Cigno nero, nel senso che gli conferisce Nassim Nicholas Taleb nel suo famoso e a mio avviso fondamentale testo “Il cigno nero”, pubblicato in Italia da il Saggiatore nel 2008. Si tratta di un evento improbabile, isolato, con effetti negativi o positivi esponenziali, di grande impatto. La sua casualità ci prende alla sprovvista e il più delle volte ci travolge. Visto a posteriori ci da spesso l’illusione di comprendere ciò che lo ha causato. In realtà quasi sempre ce ne accorgiamo solo quando il fenomeno estremo positivo o negativo è già avvenuto. Le presunte cause a posteriori, secondo Taleb, non contano nulla cioè hanno un valore euristico praticamente inutile. Io penso però che se sopravviviamo, l’esperienza di un Cigno Nero possa ritornarci utile. Forse il significato più alto o più profondo della saggezza così come la pensavano gli antichi filosofi, è il residuo interiore di questi eventi estremi che possono portarci alla rovina.
4) Potete trovare una brillante descrizione della “rabbia” nel libro di Tiffany Watt Smith intitolato “Atlante delle emozioni”, Gedi ed., 2018.
5) Mi spiace tanto per il lettore esigente ma questa citazione di Nassim Nicholas Taleb che ho tratto da una scheda redatta nel corso della lettura dei sui libri, non sono in grado di precisarla con esattezza ( titolo del libro, numero di pagina etc). Sono però sicuro che se leggerete la triologia “Incerto” non potrete non incontrarla.
- Fashion Report: da Alfa a Missoni – 29 Settembre 2023
- Guy Bourdin, not only storyteller – 1 Settembre 2023
- René Lacoste Style, il morso del coccodrillo – 31 Luglio 2023
Devi dire che i due stilisti mi avevano deluso, anzi, fatto arrabbiare anche se non sono cinese. Però l’articolo mi ha fatto nascere il dubbio che tutto fosse esagerato, fuori misura, anche le critiche. E’ veramente strano che proprio nessuno sia intervenuto a loro favore. Ma allora la reputazione serve a qualcosa oppure no? Come si fa a condannare un brand per un solo messaggio discutibile? Anche i social non ci fanno una gran figura.
È successo tutto troppo in fretta. Ci mancava solo lo scontro nazionalista Italia contro Cina. Non credo che i post a favore servissero tanto. Francamente a me lo spot è apparso banale. Malgrado la modella c’è la mettesse tutta non faceva ridere. Come fa capire l’autore dell’articolo era meglio se Dolce e Gabbana avessero chiesto scusa subito senza tergiversare. Se avessero preso questa decisione diciamo dopo al massimo un giorno, non sarebbe successo niente di gravissimo. Invece che fare la figura degli arroganti, con un po’ di umiltà avrebbero minimizzato i danni. E poi con la sfilata avrebbero recuperato tutto.
Per me è tutto molto semplice.Quando si fanno degli errori si deve pagare. Non è detto che l’intransigenza dei social sia poi così sbagliata. Alla fine anche i grandi brand capiranno che il tempo in cui potevano manipolarci senza pagare dazio è finito.
I social sono un’arma a doppio taglio. I brand a volte hanno l’illusione di poterli usare per raggiungere i propri scopi. Per esempio io ricordo che proprio Dolce e Gabbana furono tra i primi a invitare blogger alle proprie sfilate mettendoli in prima fila al posto dei giornalisti veri. Non mi risulta che questi siano intervenuti dicendo che era tutta una esagerazione. Bisogna essere realisti ed ammettere che le dinamiche dei social sono qualcosa che le aziende non sanno ancora gestire. In questi casi la prudenza è la soluzione migliore.
Io credo sia mancato il rispetto per un’altra cultura. Ma mi chiedo: come si fa ad essere irriguardosi e al tempo stesso manifestare rispetto? Si può colpevolizzare uno stile?
Conosco solo un modo per tenere insieme i due effetti di senso ai quali hai fatto riferimento. Giocarsi la carta del comico, del riso. Probabilmente era questo l’obiettivo dello spot. Il problema è che i ragazzi cinesi non sono stati al gioco. Perché? Il catalizzatore semantico dello spot è diventato subito un problema di identità interpretato come un’aggressione allo stile di vita tradizionale.
Concordo con il sospetto che l’autore dell’articolo ha cercato invano di nascondere, che vede come corresponsabili le persone dedicate ai social di Dolce & Gabbana. Dovevano essere loro ad allertare i capi sull’andamento sempre più pericoloso dei social cinesi e a suggerire soluzioni. Gli stilisti sono dei creativi, il loro mestiere è un’altro. Se pagano lo stipendio a dei tecnici esperti di internet, questi devono fare il proprio dovere. Avere paura di esprimere la propria opinione ai colleghi che hanno altre funzioni, in casi come questi non dovrebbe essere tollerata. Il tecnico web ottuso, capace solo di smanettare con il computer non serve a niente in aziende globali della moda. O entra in rete con le altre funzioni aziendali oppure fa danni. Dolce e Gabbana sono stati lasciati soli e hanno reagito come può reagire che si sente aggredito.
Quanto avrà influito nel casino scoppiato, la bruttezza dello spot? Da creativi come Dolce e Gabbana mi aspettavo di meglio.
Non credo che il messaggio ovvero lo spot centri tantissimo. Credo piuttosto che il signori Dolce e Gabbana abbiano lavorato male sulla funzione comunicativa che Jakobson chiamava funzione fatica, quella cioè inerente i destinatari del messaggio. si è prodotto allora uno scollamento con il popolo dei social. Bisognava che l’azienda ripristinasse un contatto. con le dichiarazioni citate dall’autore questo non è stato possibile.
Vorrei aggiungere che per me l’accusa di sessismo era meritata. Quella di razzismo credo di no.
Capisco quello che vuoi dire, ma permettimi di correggere qualche piccola imperfezione. Evidentemente utilizzi i suggestivo modello della comunicazione che il grande linguista Roman Jakobson notificò in un celeberrimo saggio verso la metà degli anni cinquanta. Ispirato dalle sue letture cibernetiche, postulò che ogni processo di comunicazione fosse la conseguenza dell’interazione di 6 elementi fondamentali: emittente, messaggio, destinatario, contatto, contesto, codice. A questi elementi associò le rispettiva funzioni ovvero f. espressiva/emotiva, f.poetica, f.conativa, f.fatica, f.referenziale, f.metalinguistica. Ora, se vuoi sottolineare il fatto che i problemi D&G sono collocabili a lato del destinatario devi parlare di f.conativa e non f, fatica, la quale corrisponde a ciò che nello schema è il contatto.
Comunque ti invito a pensare che anche la mancata considerazione del contesto ha fatto problema, per non parlare del fraintendimento dei codici. Ancora, è evidente che anche modi, forma e contenuti del messaggio hanno suscitato polemiche infinita (f.poetica). Quindi se applichi il modello Jakobson con più attenzione, non puoi non accorgerti che tutte (e non solo una) le funzioni che strutturano la comunicazione, presentano problemi. Ecco perché l’effetto è stato un cigno nero negativo.
Sono pronto a scommettere che questo caso si spiega con una semplice considerazione: la moda non ha ancora capito che il web marketing è una cosa seria. Grandi brand che usano oggi i social con l’approccio romantico, conviviale di dieci anni fa, ne vedranno delle belle!
La tesi dell’autore è facile da capire: un maldestro commento di Stefano Gabbana ha causato un putiferio. Da questo fatto l’autore deduce la pericolosità dei social. Ma è proprio vero? Tutto qui?
Ha ragione chi scrive. Dolce & Gabbana sono un caso da manuale del marketing. Leggendo l’articolo mi è venuto un dubbio. E se fossero stati veramente attaccati dagli hackers? Non è poi così insolito che avvengano incidenti del genere. Il commercio globale genera molti conflitti.
con internet è facile risalire alle fonti di un eventuale hackeraggio. le tracce rimangono. Erano solo patetiche scuse. Però dà da pensare che un gruppo che fattura più di un miliardo faccia errori del genere. Ci sono cose che non tornano.
Non credo alla teoria del complotto. Fino a prova contraria preferisco attenermi ai fatti. Indubbiamente il brand Dolce & Gabbana è molto efficiente nel web, per quanto riguarda il numero dei follower. I dati a mia disposizione lo collocano al secondo posto dopo Gucci, con oltre 16 000 000 di internauti che perlopiù guardano immagini e video ( dati 2018; il tasso di engagement è però molto basso, 0,38, come quello di tutti i brand della moda del resto). Il mio intervento verte su un problema che molti fanatici della tecnologia sottovalutano: la tecnologia è importante ma solo se si sposa a una formazione adeguata che, nel caso riportato fonde questioni tecniche con considerazioni umanistiche. In definitiva, almeno sinora, gli utenti di internet non sono robot ma persone che come tutti noi, cercano di dare un senso alla propria vita.
L’unico pensiero che mi sento di esprimere dopo aver letto questo articolo è che “errare umanum est”. Per quanti “Algoritmi” circolino nell’ universo all’ uomo e stata concessa ancora la possibilità di commettere un errore di valutazione. Il futuro che ci attende : e quello progettare una civiltà sempre più tecnologica dove ogni errore umano verrà previsto e successivamente annullato dall ‘ algoritmo”-. Valutazioni errate come quella perpetrata da Dolce e Gabbane, oggi frutto di una riflessione umana, quando l’uomo diventerà completamente succube dell’”Algoritmo” non accadranno più, ma questo vorrà dire anche che “l’Algoritmo” si è sostituito al nostro libero arbitrio .Grazie Dolce Gabbana per aver commesso un errore questo nel bene e nel male indica che siete ancora” uomini sapiens” capaci di commettere errori ,ma con il vostro intelletto capaci di ripartire con maggiore grinta.
Credo che un’agenzia pubblicitaria, interna o esterna che sia all’azienda (in questo caso dall’articolo deduco che sia interna), che faccia uno spot come quello che ho visto sia da depennare. Nei percorsi di vita si imparano alcune cose, una di queste é che l’ironia occorre prima di tutto farla su se stessi (l’autoironia é il punto di partenza), e poi, eventualmente, allargarla all’altro. Se immaginiamo il filmato “ rovesciato” vale a dire se ci fosse stato un italiano che prova a mangiare i suoi piatti ( pizza, spaghetti, cannolo) con le bacchette ( ricordiamo che l’ironia é prendere la realtà e capovolgerla!) e fosse poi alla fine stato affiancato dalla ragazza cinese che gli consegnava sorridendo coltello e forchetta, lo scopo sarebbe stato raggiunto: noi italiani vogliamo imparare dalla Cina (bacchette) mantenendo la nostra identità (piatti nazionali), la Cina ci apprezza ed é pronta a venirci incontro (anche in Cina si possono avere coltelli e forchette) la ragazza è orientale (identità), sorridente, graziosa senza essere particolarmente bella. Lo spot avrebbe strappato sorrisi, la presenza dell’uomo avrebbe cancellato ogni possibile accusa di sessismo: era l’incontro (progettato e chiaramente non riuscito) tra due culture che si valorizzano e si compensano reciprocamente. Purtroppo spesso il fatto di essere famosi ci fa lasciare indietro il concetto di umiltà e in questo modo anche quello di ironia, o più semplicemente di quell’ironia “dolce”, bonaria, (l’ironia cattiva distrugge e il confine tra ironia e sarcasmo a volte é impercettibile)), che serve proprio (nel suo primo significato di finzione) o per sottolineare qualcosa che ci interessa o che non é di nostro gradimento. Riassumendo: ironia significa “ridere con” non “ridere di” . Chi non usa in modo adeguato l’ironia vola troppo alto con la fiducia in se stesso e il tonfo prima o poi é inevitabile, nei messaggi di moda come in tutti gli altri messaggi, sia che questi siano in internet, nei mass media,nei cartelloni pubblicitari (quanti ne sono stati tolti), insomma in ogni tipo di pubblicità, perché i valori espressi dai concetti astratti, quali il rispetto e la considerazione dell’altro, seppur bistrattati esistono ancora. Compreso nella comunicazione di ogni giorno con le persone che incontriamo.
Sono d’accordo con quello che scrivi. La distinzione tra “ridere di” e “ridere con” mi pare intelligente e da preservare.
l’articolo mi ha fatto riflettere sulla reale utilità dei social per le politiche dei brand. Non conviene farne a meno? Perché rispondere a tutte le questioni? Che utilità può avere? Mi chiedo anche se esiste per il web il reato di diffamazione. Nel mondo reale se accuso qualcuno devo avere delle prove altrimenti mi becco una denuncia. Vale lo stesso per internet?
La diffamazione è un reato anche nel web. Ma è difficile da provare dal momento che moltissimi account sono fittizi.
Comunque non credo che il caso D&G rientri nelle specifiche individuate dal legislatore relative al reato a cui fai riferimento.
La questione vera è un’altra: i social sono equiparabili a un media oppure no? Se la risposta è sì allora esiste il diritto di critica, se la risposta è no, ogni eventuale critica può diventare un problema. Facciamo un esempio: immaginiamo che non ti piaccia la pubblicità di un brand perché ritieni che la modella utilizzata sia troppo magra; ebbene, non guardarla (chi ti obbliga?) e pensa ai fatti tuoi. Che diritto hai di utilizzare Facebook per discreditare il mio brand? Se Facebook non è un media, chi ti attribuisce la facoltà di seminare critiche che mi danneggiano?
Naturalmente tutti sappiamo che se un brand della moda utilizzasse questo argomento, verrebbe stroncato dai social. E quindi prudentemente i web manager si tengono alla larga da questioni per ora indecidibili.
Io credo che i social siano molto importanti per recuperare i big data che in seguito consentono di fare previsioni. Non è pensabile che i brand della moda ne possano fare a meno. Come dimostra l’articolo ci sono dei rischi. Ma se i brand di tendenza non vogliono perdere il contatto con i millennial, devono stare al gioco.
Analizzando il caso in questione e facendo tesoro delle considerazioni del suo articolo, la simpatia dell’usare la fiction come modello, mi porta a valutare aspetti importanti della comunicazione usata, apparentemente in contrapposizione, se si parte dal presupposto che il brand ha sempre rivestito una posizione di predominanza sui mercati globali, testimonianza ne sono i successi indubbi verificatesi negli anni passati.
Fatico a pensare che in una azienda all’avanguardia siano possibili errori così apparentemente marchiani, che si giustificherebbero soltanto se le posizioni professionali di management fossero cosi timorose da non opporsi alle voglie del deus ex machina, o peggio, fossero incompetenti/assenti.
Non voglio qui entrare nelle considerazioni che determinano lo sviluppo di un management attivo e propositivo oppure da “yes Man” all’interno di una azienda.
Per questo, provo nella sua stessa logica di fiction a formulare una ipotesi diversa, cercando di individuare un percorso che abbia qualche razionalità giustificativa, seppur facendo appello a una dose di creatività.
Supponiamo quindi che la campagna adottata per il mercato cinese non sia un errore, ma che sia stata coscientemente studiata sia per proseguire nella logica comunicazionale dalle caratteristiche provocatorie tipica del brand, e che tenga in considerazione però anche dei rischi a cui si sarebbe andati incontro.
Ciò che si osserva sui media subito dopo l’avvenimento mi induce a pensare che le conseguenze, che sia da un punto vista etico che economico, sono state di grandi proporzioni, siano giustificabili solo se ritengo che il mercato occidentale avrebbe potuto trarre vantaggi superiori ai rischi previsti sul mercato orientale.
E’ indubbio che siamo in una fase storico-economica dove i contrasti tra il modello occidentale e quello cinese abbiano raggiunto livelli tali anche da influenzare le strategie commerciali.
Senza entrare nell’analisi dei differenti modelli, sono significative le recenti guerre sui dazi e le polemiche sulla sicurezza nazionale in merito alle supertecnologie comunicative.
E’ indubbio che stia crescendo in occidente un sentimento anticinese condito da razzismo e da timori competitivi.
Dolce e Gabbana perciò avrà valutato in primis le dinamiche sociali attuali del modello economico e statale cinese essere in una fase di transizione ( livellamento sociale ) tali da innescare criticità in termini di domanda del target di riferimento del brand, anticipando in modo forzoso un calo naturale della domanda a vantaggio di una conseguente crescita della domanda sul mercato occidentale, potenzialmente alimentata da un fattore emozionale anticinese trasversale al prodotto offerto.
Mi rendo conto che questo mio esercizio di interpretazione potrebbe scontrarsi con una buona parte delle informazioni in mano a tutti.
Trattasi di una interpretazione della strategia del negativo del brand diversa e che giustificherebbe l’esasperazione della gestione dei tempi di smentita ( con conseguente grandissima ampiezza della risonanza mediatica ) e dei modi ( utilizzo di strumenti e toni non convenzionali per fare presa ).
Come romanzo giallo la trama è ammirevole. Sacrifico il mercato cinese per le plusvalenze che otterrò dai consumatori occidentali, finalmente vendicati. Ma perché mai un brand che ha raggiunto fatturati considerevoli in un grande mercato dovrebbe effettuare questo sacrificio? Non conveniva evitare di arrivarci? Corro il rischio di essere accusato di razzismo e sessismo per protestare contro il dumping che ha favorito la Cina? Direi che come scrittrice di bestseller fantamoda hai davanti a te una luminosa carriera. Dal momento che immagino sia più probabile il tuo futuro come manager di una azienda mi permetto di suggerirti che il tuo intervento alla Trump, potrebbe funzionare benissimo all’inizio di un brainstorming, ovvero in quel preciso momento di una riunione in cui tutti i tuoi colleghi sono reticenti a metterci la faccia. Ecco allora che la tua capacità di creare visioni fantamoda, potrebbe contribuire a rompere il ghiaccio, trasformandoti per il gruppo, in una provvisoria leader. A patto però, che dopo aver messo tutti a proprio agio facendoli ridere, tu sappia poi costruire fiction più congruenti alla situazione problematica. Comunque a me la fantamoda piace. Quindi complimenti.