ROMA – Un documentario fine, intelligente, importante che ha sbaragliato la concorrenza e si è aggiudicato l’ultima edizione del Festival di Venezia
Non esiste una definizione assoluta e oggettiva riguardo al ‘bello’ e alla sua estetica, ma possiamo certamente far rientrare in questa categoria Sacro GRA (G. Rosi). Un documentario fine, intelligente, importante che ha sbaragliato la concorrenza e si è aggiudicato l’ultima edizione del Festival di Venezia.
Il Leone d’oro, dunque, torna a casa e lo fa nel 2013, un anno che il popolo italiano ricorderà per i sacrifici, le paure, la rabbia, la continua disillusione, ma che ottiene una piccola rivincita con questo immenso lavoro. Sì perché Sacro GRA parla degli italiani più umili, delle loro storie, delle loro vite ai margini della società, relegati ai confini della città. Parla di storie comuni vissute nella loro pienezza tra piccole consolazioni e ruvidità dell’esistere sullo sfondo della macchina statale che macina un altro tipo di realtà e si ferma lì, vicino a loro, percorrendo quel confine rappresentato dal Grande Raccordo Anulare, rotta di viandanti post-moderni che scandisce religiosamente – come un’incessante campana – le giornate della gente che Rosi pennella con grazia muta, trattando la macchina da presa come puro ripetitore di immagini senza una sceneggiatura che pilota lo spettatore verso verità confezionate e pronte all’uso.
In questo documentario sono le vite stesse che si raccontano tramite i loro reali e consapevoli attori: un nobile caduto in disgrazia che affitta la sua dimora e la storia della famiglia per gli usi più disparati; uno strambo uomo barbuto e una donna che vivono la loro vita affacciati alla finestra dei propri appartamenti-alveari dai quali, come libere api operose, ronzano la loro semplice gioia d’essere vivi alla faccia di chi li crede semplici frazioni d’uomini alla periferia dell’umanità occidentale; un solitario infermiere della croce rossa, angelo delle vittime del GRA (Grande Raccordo Anulare) che si divide tra rapporti eterei con utenti delle chat e visite alla madre sofferente di demenza senile; dignitose e cinematografiche transessuali attempate, uno studioso d’insetti divoratori delle palme, giovani cubiste in mostra in un freddo locale periferico di una città come quella di Roma che, però, potrebbe essere Milano con il suo reticolo di tangenziali o la Torino del Lingotto, ma non alla portata di molte altre città del mondo perché nonostante le nostre colpe, i nostri difetti e le nostre mancanze, solo noi italiani sappiamo continuare a sorridere (croce e delizia del nostro popolo).
Ne sapeva qualcosa il Wittgenstein di gaberiana memoria.
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Grazie Marco per questo articolo. Mi aveva incuriosito il titolo e mi era balenata l’idea di vedere il documentario. dopo questa tua lettura, sono certa che ci andrò. ti farò sapere.
Cara Alessandra, grazie mille a te per aver letto l’articolo. Aspetto eventuali riscontri allora!