La città è la strada: Basquiat al Mudec

La città è la strada: Basquiat al Mudec

MILANO – Non poteva esserci spazio più adatto del MUDEC per la bella mostra sulle opere di Jean-Michel Basquiat: il Museo delle Culture rappresenta in questo momento il luogo fisico del confronto multietnico e il luogo mentale del multiculturalismo, con le sue interessanti collezioni  provenienti dalle Americhe, dall’Asia, dall’Africa e dal Pacifico; inoltre  si integra efficacemente con Zona Tortona, il territorio su cui sorge e che dimostra l’efficacia del riuso nel tessuto urbano della città più dinamica d’Italia.

Ormai da anni consacrato fra i protagonisti del contemporaneo, come testimonia la base d’asta di alcuni suoi dipinti che negli ultimi anni a New York è partita da vari milioni di dollari, Basquiat rimane amatissimo non solo fra i cultori dell’arte come trasgressione ma anche fra coloro che apprezzano quel legame fra espressione artistica e riflessione sociale che innerva il pensiero moderno al di là del potere del mercato.

La complessa biografia dell’artista americano, nato a Brooklyn  nel 1960 ma di origine afro-caraibica, sembra quasi un catalogo delle contraddizioni degli USA nel secondo Novecento: vittima del bullismo razzista, ribelle e anticonformista per reazione, espulso da varie scuole, dopo la separazione tra il padre haitiano e la madre portoricana finisce a vivere per strada, rubacchiando insieme a una banda di giovani delinquenti abbandonati a se stessi.

Tuttavia proprio in quegli anni accumula esperienze che si riveleranno preziose nella costruzione del suo mondo creativo, e intanto riempie di graffiti le mura di vari edifici di Manhattan: intorno ai venti anni si mantiene vendendo disegni, cartoline, collages e t-shirt dipinte e comincia a frequentare il mondo della moda e del cinema e i locali off di New York, dove incontra vari artisti di belle speranze, fra cui Madonna con cui intreccia una breve storia sentimentale.

E come in tutte le declinazioni del sogno americano, arriva a conoscere critici e collezionisti che inizieranno a supportarlo economicamente, consentendogli di dedicarsi solo alla realizzazione delle sue opere: fra questi nientemeno che Henry Geldzahler che all’epoca dirigeva il Dipartimento dell’arte del XX secolo presso il mitico Metropolitan Museum.

Ma pochi sanno che in questi anni di faticosa ascesa i  primi a credere nelle potenzialità di Basquiat sono due galleristi italiani, Annina Nosei che gli mette a disposizione un atelier ed Enrico Mazzoli che organizza nel 1981 a Modena la sua prima mostra personale, seguita l’anno dopo dal lancio definitivo nella galleria newyorchese della Nosei.

Proprio a partire dal’estate del 1982, dopo la partecipazione alla prestigiosa rassegna Documenta di Kassel , dove è il più giovane dei 176 artisti presenti, comincia la fase più importante del percorso artistico di Basquiat , che per tutti gli anni Ottanta diventa uno dei personaggi più inseguiti dalle riviste patinate e dai locali mondani, in quella macchina massmediatica che poneva al centro dell’attenzione alcuni veri talenti come Keith Haring e soprattutto il geniale Andy Wahrol con il suo potente entourage della Factory.

Forse la mostra milanese poteva dedicare maggiore spazio ai rapporti  fra Basquiat e il demiurgo della Pop Art, particolarmente importante per lo sviluppo  di un’arte trasversale in cui lo sguardo dei creativi si incrocia con il glamour ma esprime anche lo scontro tra materia e spirito.

Avendo in borsa il grosso volume dei Diari di Wahrol, leggiamo in data 2 ottobre 1984 : Jean Michel è venuto in ufficio per dipingere, ma si è addormentato per terra. Lì disteso sembrava un barbone, ma io l’ho svegliato e allora ha fatto due capolavori, davvero grandi.

E in data 7 ottobre 1984: Jean Michel è molto difficile, non si sa mai in che stato d’animo è, che cosa abbia in mente. Diventa paranoico e dice: mi stai solo usando, mi stai usando!E poi si sente in colpa per essere paranoico e fa di tutto per farsi perdonare.

Dopo l’improvvisa scomparsa di Warhol per complicazioni successive a un’operazione alla cistifellea, Basquiat passa da una disintossicazione a una ricaduta, fino a quando viene ritrovato cadavere nel suo appartamento per un’overdose, il 12 agosto del 1988: i magnifici anni del riflusso stanno per concludersi e la sua fine prematura costituisce una metafora degli eccessi di un decennio irripetibile.

A differenza della mostra romana di Palazzo Ruspoli del 2008, che presentava poche opere, quella milanese è molto più ampia e rappresentativa di tutti i periodi della ricerca di Basquiat, dalle opere dipinte su porte e listelli di legno ai grandi dipinti su tela, dagli acrilici fino alle raffinate ceramiche da collezione, con la ricorrente ossessione per la corporeità nata quando da bambino rimase a lungo in ospedale dopo un grave incidente stradale, e anche con la continua presenza dei fantasmi della propria giovinezza, fra cui gli immancabili eroi della Marvel: la deformazione della figura umana, a partire dagli autoritratti  fino ai grandi stravolgimenti espressionistici, è frutto della sua grande passione per i cartoons televisivi e i comic books degli anni Ottanta ma è anche figlia di uno sguardo ironico sul mondo circostante come balletto di maschere nel tragico quotidiano, che reca tracce di un’adolescenza inquieta, ingenua e maliziosa come per tutti gli artisti provenienti dalla strada, che rimane scuola di formazione di tanti creativi che esercitano lo sguardo sullo street style anche nella moda.

In un documento audiovisivo filmato da Tamra Davis a Beverly Hills  nel 1986  e quindi pochi anni prima della morte, Basquiat si definisce ‘un bambino molto naif’ e quando la giornalista gli chiede di descrivere la sua arte, egli ribatte che sarebbe come chiedere a Miles Davis di descrivere il suo suono’.

Nonostante la precoce scomparsa, la carica di rabbia di Basquiat perdura fino ai nostri giorni, si ritrova nei movimenti Occupy Wall Street, e ci ricorda dolorosamente che  il più potente Paese del mondo è ancora caratterizzato da enormi disagi socioeconomici  e da gravi conflitti interetnici.

A un osservatore superficiale le sue opere possono apparire grottesche e barbariche, in realtà non si prestano al consueto giudizio sulla  divergenza tra bello e brutto ma testimoniano la concezione del reale che caratterizza la post estetica della rappresentazione; e comunque il suo segno rimane fortemente iconico e continua a produrre una grande influenza sulle tendenze dell’arte contemporanea, come si può notare anche solo passeggiando a Soho, a Tribeca o nel Village in cui nei loft più trendy si continuano a elaborare mode e modelli del grande caleidoscopio newyorchese.

Uscendo dal robusto edificio dell’ex Ansaldo, dopo aver apprezzato i servizi  accoglienti, un buon ristorante, l’efficiente bookshop e soprattutto il raffinato design store che gareggia con il famoso 10 Corso Como per originalità, riconsideriamo il MUDEC come un magnifico esempio di restyling metropolitano.

Malgrado i disagi dovuti alla chiusura del Ponte degli Artisti, la struttura in ghisa lunga 36 metri che collega via Tortona a Porta Genova, il quartiere mantiene la sua vivacità: percorriamo la strada milanese ricca di opifici e studi di architettura, fra la sede di Deloitte e il Silos di Armani, in cui galleristi e artigiani, imprenditori e commercianti convivono negli stessi pub e bistrot, si nutrono dello stesso clima culturale, in un interscambio relazionale che alimenta il nuovo boom della Milano post industriale e post moderna.

Forse in questi showrooms e nei vicini atelier d’innovazione pensano e vivono i nuovi Basquiat, vibrando al ritmo jazz del suo amato Charlie Parker…

Basquiat

Gennaro Colangelo
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