CAPOVERDE – Una vacanza in un paradiso perduto situato nell’Africa Occidentale. Voglio credere che sia impossibile sfruttare questi luoghi inerpicati ai confini del mondo e che rimarranno per sempre come sono. Angoli inospitali di un paradiso perduto e mai davvero ritrovato.
Il destino, a volte, tende delle trappole in cui è dolce cadere.
Lo scorso inverno mi sono ritrovato nella rara e invidiabile condizione di avere un mese libero da ogni impegno. Una lunga bonaccia tra le mareggiate.
La mia wanderlust ha subito iniziato a scalpitare. Temevo di finire prigioniero della noia e ho obbedito all’impulso di cercare delle destinazioni per viaggiare.
Ho trovato un’offerta per un volo a Capo Verde a un prezzo stracciato. Come una falena alla fiamma, è stato impossibile resistere. Susana non ci messo molto a farsi convincere: appena si presenta l’occasione, diventiamo viaggiatori compulsivi e partiamo felici alla sprovvista, senza pensare a quello che ci aspetta.
Il mio cuore batteva davanti alla “fecondità dell’ignoto”, come la chiamava Pierre-Joseph Proudhon, il fondatore del pensiero anarchico. Sorrido ritrovandomi in questi estremismi; poi mi perdono, perché oggi mi rispecchiano. Ognuno trova conforto nel sistema di pensiero che gli dà più conferme. L’importante è stare a testa alta tra le onde.
Atterriamo a Sal e l’impatto non è dei migliori: l’isola è invasa dai villaggi turistici, il mare non è niente di speciale e l’entroterra è desertico, privo di qualunque attrattiva.
Il mio cuore fuorilegge si è trovato di nuovo in trappola. Questo mondo non può piacere: al più ci si adegua. L’unica alternativa è continuare a fuggire.
Ma le belle sorprese stavano per arrivare. Ci siamo precipitati in una piccola agenzia di viaggi locali per esplorare le altre isole dell’arcipelago, col cuore pieno di fiducia.
Iniziava il vero viaggio.
CAPO VERDE, un viaggio dentro al viaggio
Due giorni dopo, eravamo nell’isola di São Vicente tra villaggi di pescatori e città affollate da mercati di ogni sorta affacciati sul mare, circondati da montagne remote che nascondono valli sconosciute. Sentivo già il profumo della scoperta.
Con una barca abbiamo raggiunto l’isola di Santo Antão, la più remota dell’arcipelago verso l’oceano Atlantico.
Siamo saliti sul suo cuore, il vulcano Caldeira de Cova, attraversando il grande cratere ricoperto da vegetazione e coltivazioni tropicali. Arrivati sul lato opposto, si è spalancata una visione mozzafiato: la Valle di Paúl, una gola profonda e rigogliosa che in pochi chilometri strapiomba sul mare.
Da quasi duemila metri di altezza potevo apprezzare la curvatura dell’orizzonte a occhio nudo: un piccolo assaggio del mio sogno impossibile di raggiungere lo spazio cosmico e guardare da lontano il nostro pianeta bianco e blu.
Col cuore in gola e le ginocchia agonizzanti, siamo scesi per un angolo segreto di Eden verticale, dove la gente ha imparato a trattenere l’acqua con terrazzamenti da capogiro in cui si coltiva la guayaba e il caffè per impedire alle piogge torrenziali di desertificare la valle. La terra dei paradossi: verde come il paradiso terrestre, mentre alla stessa latitudine, sul continente africano, inizia il deserto del Sahara.
E prima di arrivare all’isola di Santiago, che ospita la capitale Praia con la sua triste storia, abbiamo visitato il parco nazionale dell’Ilha de Fogo, un cono quasi perfetto di lava alto tremila metri che si erge nero come il carbone dalla superficie dell’acqua fino ad attraversare le nuvole.
Voglio credere che sia impossibile sfruttare questi luoghi inerpicati ai confini del mondo e che rimarranno per sempre come sono. Angoli inospitali di un paradiso perduto e mai davvero ritrovato.
Forse ho davvero trovato l’isola che non c’è.
CAPO VERDE, un gulag nell’Atlantico
Nei secoli scorsi, Capo Verde è stato uno degli scali più importanti per la deportazione degli schiavi in America.
I trafficanti seguivano una rotta triangolare: le navi partivano dall’Europa per rifornire le colonie africane; poi, aiutati dai sovrani locali, facevano provvista di “merce umana” che portavano nelle Americhe; infine tornavano in Europa colme di mercanzie saccheggiate oltreoceano.
Durante la fase coloniale portoghese, fino all’abolizione della schiavitù nel 1865, le condizioni di vita a Capo Verde erano paragonabili a quelle di un gulag.
Il Portogallo aveva infatti vietato qualunque tipo di imbarcazione per evitare la fuga degli schiavi.
Senza poter pescare in mare, gli abitanti dell’arcipelago vivevano della sola pesca costiera, di agricoltura e allevamento. Lo sfruttamento del suolo, insieme alla deforestazione, portò a una progressiva desertificazione, a gravi siccità e periodi di carestia in cui morivano a decine di migliaia, senza un gesto di soccorso dal Portogallo.
“Il destino ti ha condannato al supplizio di Tantalo”, scrisse il poeta capoverdiano Pedro Monteiro Cardoso, “Il tuo collo è accarezzato dalle onde e tu muori per mancanza d’acqua”.
A Capo Verde ho sentito il dolore della terra che brucia come una cicatrice ustionata dal sole. Alla fine, dopo essere sopravvissuta al morso di un predatore, la vita ricresce tranquilla in piccoli villaggi aggrappati alle ripide scogliere sul mare.
Negli occhi dei suoi abitanti ho colto l’ombra di un orgoglio remoto, striato di rabbia e di residui di dissimulata paura. Bambini che sorridono, anziani dallo sguardo indurito. Capo Verde è una doccia calda di umiltà.
In Beloved di Toni Morrison, un’anziana schiava afferma: “Nella vita non esiste la sfortuna, esiste solo l’uomo bianco”.
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Caro Angeloti invidio. I tuoi viaggi, fatalmente interrotti dal virus immagino, sono sempre avventure. Tra l’altro sei.molto bravo con le immagini e le parole.
Caro Lamberto, sono felice che ti sia piaciuto e ti ringrazio dei complimenti. Spero ci siano molti altri viaggi da raccontare presto!