L’opera andata in scena al Teatro Duse di Bologna, è l’opera prima di Cristian Ceresoli.
Il testo è approdato al Fringe Festival di Edimburgo, nel 2012 presentato in lingua inglese, dove ha fatto man bassa di premi e di riconoscimenti; oltre a ciò, non ha perso il vezzo, di registrare sold out ovunque venga presentato, radunando numeri imponenti di spettatori. Questa sera, un pubblico diverso affolla la platea e le gallerie, come era prevedibile.
Merito della novità della scrittura, l’organizzazione del testo divisa in tre parti, come se fosse una partitura musicale ma anche grazie al coraggio dalla bravissima attrice Silvia Gallerano, che ne è la sola e finora unica interprete.
Il personaggio femminile a cui lei dà voce, non ha un nome, è una ragazza di questo tempo “che vuole farcela”, costi quel che costi, lei è una che “resiste” poco importa ciò che dovrà mandare giù, tanto è disposta, a tutto. La protagonista si mostra senza veli, sotto la luce impietosa dei fari, con solo il microfono tra le mani, la nudità va letta come volontà di mostrarsi così come si è, nell’ aspetto non solo esteriore quanto interiore; senza voler nulla nascondere, mettendosi a nudo, ci si pone senza difese, apparentemente si mostrerebbe vulnerabile, ma nei fatti e nei contenuti, si dimostra di una forza quasi bestiale: non teme nulla il nostro personaggio, si è già disposto verso ogni cosa. L’unico suo “vestito” è il testo, al cui confezionamento ha fornito materiale, l’attrice stessa.
Voce studiata, molto diversa dalla timbrica naturale dell’attrice Silvia Gallerano, il suo personaggio pare stia per scoppiare a piangere da un momento all’altro, cerca una tonalità da bambina, “quasi tenera” ma che poi si rivela in contrasto con la parole beffarde che lei stessa saprà usare.
Novella Cunegonda, a differenza del compagno Candido – qui assente – è certa che questo non sia il migliore dei mondi possibili, l’ha ben compreso già tredicenne e quindi dall’alto del suo piedistallo – trespolo, riversa sul pubblico e chi l’ascolta tutta la rabbia e l’alienazione con cui l’accettazione bieca la ricompensa, moneta che lei stessa, per prima, ha accettato avidamente.
Il personaggio si racconterà attraverso la sua storia, i rapporti coi genitori ma soprattutto la figura paterna, uscirà quasi come un leitmotiv, poiché lei spesso ricorda quest’ uomo piccolo, “come gli eroi che fecero il nostro paese”, uomo sensibile che sa commuoversi, anche davanti al telegiornale. Un padre-pinguino che si suiciderà, buttandosi sotto al treno ma che le lascia come diktat la parola “impegno”; un’eredità di buoni esempi, consigli che lui stesso non ha saputo seguire e che lei ribalta a suo modo, rimarcando la differenza fra pensiero e azione.
L’attrice è sola, ma è bravissima nel rappresentare anche i tanti personaggi assenti sul palco, che però intervengono prendendo vita grazie alla sue corde vocali e alla sua innegabile bravura.
Monologo serratissimo, testo da leggere e rileggere, senza pregiudizi e senza pruderie, può piacere, può non piacere, come ogni opera. Certamente non lascia indifferenti; ognuno può trovare –come di fronte ad ogni prodotto d’arte –i propri significati e i propri rischi li corra pure, andando sotto la superficie – come direbbe Wilde – ma evitando una lettura affrettata, come consiglia chi scrive.
Lo spaccato che il testo offre, di una certa realtà, di determinati ambienti, e della condizione generale fra vincitori e vinti, fra chi “sta sempre pronto a inginocchiarsi davanti a tutte le tirannidi” è ascrivibile non solo all’Italia, ma a una società ben più allargata, le varie tematiche trattate accomunano molte realtà differenti. Questo buttar fuori e ributtare poi dentro –non solo metaforico – ma disgustoso e nauseante è purtroppo il prezzo e il paradosso insieme che si paga “pur di farcela” e non solo.
La piece termina con l’attrice che solo rivestita del Tricolore, quasi fosse un’eroe caduto per la patria, accenna all’Inno nazionale, qui forse e non prima, l’apoteosi raggiunge il suo culmine stritolandosi in una morsa crudele con il paradosso più cinico e senza mostrare una via d’uscita.
Applausi, applausi e ancora applausi.
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