Pasquale De Antonis. La bellezza del fotografo che non amava la moda

Pasquale De Antonis. La bellezza del fotografo che non amava la moda

ITALIA – Pasquale De Antonis è il fotografo artista italiano del dopoguerra che mette in scena in modo perfetto l’atteggiamento ambivalente delle nostre elite intellettuali nei confronti della pubblicità e della moda.

Probabilmente fu Irene Brin a convincerlo a prendere sul serio la foto di moda e a dare una certa continuità al suo impegno in questo settore. Gli articoli di una delle prime grandi giornaliste della moda italiane sulla rivista “Bellezza”, dal 1947 al 1968, sono puntualmente accompagnati dalle fotografie di  Pasquale De Antonis, quasi sempre scattate nei luoghi che evocavano le ambizioni artistiche del fotografo: palazzi antichi, rovine della grande Roma, atelier di artisti, antiquari e grandi sarti e sarte.

Ma se non ci facciamo sorprendere dal fascino di immagini contestualizzate in una scena storico artistica in sé pregnante, ci accorgiamo che questo grande fotografo è interessante proprio perché non amava la moda. Le modelle di Pasquale De Antonis sono vere donne, non cercano mai di incantarci con pose civettuole, esprimono una serena gravità rara nella fotografia di moda. Il disinteresse di De Antonis per la moda intesa come stile di vita, retroagisce sulla sua pratica artistica confinando le sue visioni in una traduzione formale dell’abito indossato attenta a definirne con precisione le linee strutturali. Molte sue foto sembrano quasi suggerire la vacuità dell’abito come dispositivo estetico autonomo, ponendolo al servizio di una assiologia in fieri dipendente da dimensioni come l’eleganza, la grazia che provengono da motivazioni interiori che potremmo definire in termini forse vaghi, intelligenti o impegnate. La donna di De Antonis è più intelligente che sexy. Manca in De Antonis la sottolineatura del sex appeal tipica della foto di moda. Manca il carattere glamoroso delle sue protagoniste. Ovviamente queste mancanze viste con gli occhi di oggi, resi bulimici dalle dosi tossiche di figurazioni del desiderio proposteci dalla maggioranza dei fotografi contemporanei, si trasformano in un in-più che rende particolarmente interessante il suo lavoro.

Pasquale De Antonis di tutti i fotografi di moda italiani attivi negli anni cinquanta, Elsa Robiola, Lina Tenca, Elsa Haertter, Elio Luxardo, è il più bravo a sottrarre emozioni, a narcotizzare il potenziale erotico dell’abito bello indossato da un corpo eccellente, per deviarne il senso verso una seduzione leggera, sempre sotto controllo, mai intrusiva.

Tuttavia non possiamo dimenticare che la direzione che prenderà la foto di moda dagli anni sessanta in poi sarà molto diversa da ciò che sembra suggerirci lo stile di De Antonis. Detta come vuol detta, non possiamo dimenticare che rischiando il cattivo gusto, l’osceno e il volgare, la foto di moda ha saputo raccontare nei suoi modi intrusivi e spettacolari le verità di un desiderio polimorfo quale fondamento della soggettivazione dell’oggetto-moda.

Ancora, se proprio non vogliamo usare il cannocchiale della storia minima della moda per “leggere” gli scatti di Pasquale De Antonis, bisogna pur aggiungere che l’etica percepita nelle sue foto è in realtà il risultato del sostanziale disprezzo (denegato, direbbe uno psicoanalista) che la maggioranza degli intellettuali del periodo riservano alla moda. Sia il coté comunista e sia i cattolici affrontavano la modazione della società con una sostanziale alzata di spalle, considerandola effimera, immorale se esprimeva troppe pulsioni, alienante dal momento che allontanava i soggetti dalle responsabilità vere.

Non voglio dire che tutto ciò fosse nella mente di De Antonis quando scattava. Eppure a me pare che il suo interesse fosse più che altro motivato dagli affari anche se il suo talento e la padronanza tecnica gli consentivano di essere efficace. Ovviamente non dobbiamo dimenticare che il suo occhio verso la moda era Irene Brin, figura alla quale sta stretta l’etichetta di stylist ma che senz’altro seppe orientare il suo obiettivo Per certi rispetti la  sua carriera è paragonabile ad un altro grandissimo fotografo italiano che negli anni sessanta sembra riceverne il passaggio del testimone: Ugo Mulas amava soprattutto fotografare i sui amici artisti e le loro opere d’arte, ma pur non amando la moda seppe interpretarla da protagonista. I primi grandi fotografi italiani che seppero capire in profondità la moda del loro tempo, probabilmente perché a loro modo la amavano, furono Alfa Castaldi e soprattutto Gianpaolo Barbieri. Ma siamo ormai verso la fine dei sessanta e Pasquale De Antonis cessa di essere attivo sulle riviste di moda per concentrarsi sulle vere passioni della sua vita da artista fotografo.

Pasquale De Antonis, era nato nel 1908 a Teramo. Approcciò la fotografia da autodidatta durante la prima adolescenza trascorsa a Pescara. La sua formazione ebbe una svolta professionale all’inizio degli anni trenta quando si trasferì a Bologna per lavorare presso lo studio fotografico di un amico del padre. Il periodo bolognese è contrassegnato da un adeguamento culturale modernista e da un confronto con le esperienze artistiche delle avanguardie cubo-futuriste. In questa fasesi evidenzia anche la vastità delle curiosità intellettuali del fotografo. Nel 1934 rientrò a Pescara e aprì il suo studio fotografico. Oltre al lavoro di routine per sbarcare il lunario si impegnò in fotografie che documentano il sociale e il rapporto uomo ambiente. In un certo senso, si può dire che anticipò di quindici anni il realismo sociale espresso dal cinema negli anni cinquanta. L’efficacia dei suoi reportage antropologici contribuì a farlo entrare nel Centro di sperimentazione cinematografica di Roma. Nel 1936, pur continuando a gestire il proprio studio, frequentò i corsi per operatore cinematografico. La svolta nella sua vita avvenne nel 1939 quando rilevò lo studio di piazza di Spagna del fotografo futurista Arturo Bragaglia; partecipò alla realizzazione di film e si immerse nell’ambiente artistico e intellettuale del Caffè Greco di via Condotti. In breve tempo divenne un ritrattista affermato e il suo studio cominciò ad essere il punto d’incontro per le chiacchiere in libertà a dominante culturale  che nel novecento, soprattutto nell’era fascista, rappresentavano la cultura in atto più efficace.

Dopo il secondo conflitto mondiale la notorietà dei lavoro del De Antonis subì una rapida accelerazione. Luchino Visconti gli commissionò nel 1946 le foto di scena di Delitto e castigo rappresentato al teatro Eliseo. Poi in rapida sequenza, collaborò come fotografo con tutti i registi più importanti delle decadi cinquanta-sessanta. Grazie a loro, mise a profitto le sue doti di ritrattista  fotografando i personaggi del bel mondo romano e i divi del cinema.

Ma contemporaneamente frequentava le gallerie d’arte d’avanguardia di Roma, ritraendo artisti  e si appassionò della fotografia di opere d’arte. In particolare verso la fine dei quaranta cominciò a gravitare nei dintorni della galleria l’Obelisco di via Sistina, fondata e diretta da Gaspero del Corso e da Irene Brin, giornalista di moda. Dalla frequentazione degli artisti astratti che prediligeva prese ispirazione per una ricerca fotografica che ne emulava lo spirito. Come ho ricordato sopra, Irene Brin lo convinse ad interessarsi della foto di moda. Probabilmente l’amicizia e la stima di una delle giornaliste più importanti di quegl’anni lo convinsero ad interessarsi di un genere che di certo non amava. Gli esiti furono eccellenti. Non ci sono dubbi che le foto di moda di De Antonis sono il meglio che si possa trovare nel nostro Paese negli anni cinquanta. Ma mancano di passione.

Se le paragoniamo ai grandi fotografi di moda del periodo, Richard Avedon, Irving Penn, Cecil Beaton, Horst… tradiscono una mancanza di sperimentazione e di creatività sorprendenti per un fotografo sensibilmente attratto dall’arte contemporanea. Le pose delle modelle sono eccessivamente formali, come i codici deboli dell’immagine del periodo imponevano. I set sono en plein air, con uno sfondo rappresentato da grandi palazzi, rovine romane, statue. Rappresentano senz’altro una innovazione rispetto le foto di moda italiana degli anni trenta ma hanno un sapore spesso eccessivamente turistico. Da un grande fotografo ci aspettiamo qualcosa in più del rispetto delle regole empiriche (non scritte) che attualizza l’industria editoriale fase per fase. Le foto negli interni sono realizzate con una ammirevole  attenzione e rispetto dei luoghi della moda e infatti De Antonis tra le altre cose diverrà, suo malgrado mi viene da dire, un testimone oculare  di un momento esaltante dalla moda italiana localizzata a Roma.

I suoi scatti documentano gli interni di atelier come quelli delle sorelle Fontana che diverranno mitici grazie all’intreccio con le dive che animavano i set cinematografici di Cinecittà. Ma troppo spesso si affida al suo grande mestiere senza cercare nulla che non sia una adesione al suo lavoro di fotografo. I suoi reali interessi erano altrove. Nell’arte come abbiamo già detto e nell’eccitante mondo del teatro di ricerca e del cinema che stimolavano il suo talento ad uscire dalle prigioni della tecnica. Probabilmente il suo tentativo più ragguardevole di uscire da una semplice foto di moda ben fatta (per soddisfare la redazione delle riviste committenti) sono le foto dedicate alla sfilata in stile space age, con abiti di Germana Maruccelli, scattate a Roma  a pochi giorni dalla prima di uno dei film più attesi della stagione 1968: 2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, uno dei capolavori assoluti della storia del cinema.

Non posso dire che queste foto siano belle nel senso comune del termine. Ma finalmente vi si intravede qualcosa di diverso che di colpo proiettano De Antonis in una luce nuova. Negli anni sessanta a mia memoria nessun fotografo ha tentato di raccontare la moda con tanta inconsapevole poesia. Qual è il segreto di queste fotografie poco conosciute? Per la prima volta De Antonis ha guardato la moda con le lenti delle sue ricerche sull’astrazione.

Grazie ai colori che usava pochissimo nelle foto di moda standard, è riuscito a catturare il sentimento di romantico futuro che per una brevissima stagione catturò la fantasia degli stilisti. Il resto della sua produzione precedente, pur di alto livello, non può essere paragonata a ciò che scoprivano i grandi fotografi raccolti intorno alle redazioni di Vogue e Harper’s Bazar. Ma questo è un problema che interessa chi ha imparato a considerare la moda e il suo modo di comunicare un oggetto di ricerca eccitante e valido alla stregua di tanti altri, e non certo Pasquale De Antonis, sinceramente innamorato dell’arte e della possibilità attraverso il mezzo fotografico di esprimerne forme e contenuti.

Le immagini dell’articolo sono tratte dal libro a cura di Maria Luisa Frisa: Pasquale De Antonis, La fotografia di moda 1946-1968, edito da Marsilio

 

Lamberto Cantoni
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One Response to "Pasquale De Antonis. La bellezza del fotografo che non amava la moda"

  1. ELisa Marina Melagrani   23 Aprile 2015 at 08:12

    Sarebbe così bello poter parlare con Pasquale De Antonis.
    Davanti ad un caffè.
    E chiedergli cosa pensa dell’odierna moda.
    Se durante la sua vita fisica e professionale era “disincantato”, passatemi il termine, chissà ora cosa penserebbe.
    Potrebbe sorridere, compiacersi.
    Se per lui la fotografia di moda era (anche o soprattutto?) fonte di guadagno, l’attuale moda è in perfetta sintonia con il suo pensiero.
    Ma a differenza del fotografo, il talento e la padronanza tecnica sembrano essere stati sostituiti dai numeri. Non taglie, non lunghezze ma introiti, incassi.
    “Vuole un po’ di zucchero? Magari la pillola si addolcisce”
    Depauperata da idee, filosofia ed arte, la moda ormai è un semplice sinonimo di “business”.
    “Dice che devo avvisare la Treccani?”
    Oppure, il fotografo rovesciando il caffè sconvolto dalla notizia di questo degrado, potrebbe rallegrarsi di non essere testimone di tutto questo, di non far parte di questo sistema malaticcio. 
    “Le offro il caffè.
Capisco che abbia fretta e che preferisca tornare ai suoi anni in cui moda e arte non avevano in comune solo la A. Nel nome, non nei fatti.”

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