Recensione Macbeth: lievi rughe sul volto del generale regicida?

Il 2016 al cinema si apre con moltissime novità: fra queste vi è il Macbeth del regista australiano Justin Kurzel, che era stato presentato nel Maggio 2015, durante le battute conclusive del Festival di Cannes, ricevendo un plauso non dirompente. La classifica del box office italiano appare ancora dominata dallo spropositato successo di Quo vado? di Checco Zalone, che ha attualmente totalizzato i 50.121.677 euro lasciando di fatto le briciole alle pur ottime produzioni contemporaneamente nelle sale (riporto nell’ordine, dal secondo posto in poi, i titoli della classifica dell’ultimo week-end seguiti dal rispettivo incasso totale: Il Piccolo Principe, di Mark Osborn, con 6.767.150 euro; La Grande Scommessa, di Adam Mc Kay, con  1.743.217 euro; Il Ponte delle Spie, di Steven Spielberg, con 9.474.560 euro, seguito da Star Wars, Il Risveglio della Forza, di J.J. Abrams, che scende in quinta posizione pur avendo incassato  24.557.550 euro).

Un dignitoso ma stabile sesto posto resta, come da principio, nelle mani insanguinate dell’anti-eroe del Bardo Di Stratford, redivivo per l’ennesima volta grazie a Kurzel. Il suo Macbeth è infatti uscito nelle sale italiane il 5 Gennaio, guadagnando nella prima giornata 142.775 euro (699.427 nel primo week-end) e totalizzando ora 1.082.112 euro (11,338,825 dollari complessivamente nel mondo –fonte Box Office Mojo-).

La trasposizione di un classico della letteratura (in questo caso drammaturgica) è sempre un’operazione ardua e rischiosa; moltissime erano le forme assunte dall’ombra di Banquo con cui il regista australiano avrebbe dovuto rivaleggiare: da quella dello stesso Shakespeare alle oltre dieci dei suoi colleghi-maestri della settima arte, fra cui ricordiamo (solo per citarne alcuni) Orson Welles (Macbeth, 1948), Akira Kurosawa (Il trono di sangue, 1957), Roman Polanski (Macbeth, 1971), Béla Tarr (Macbeth, 1982), sino alle versioni di Mark Brozel (2006) e di Geoffrey Wright (Macbeth – La tragedia dell’ambizione, 2006).

Altrettante, anzi di più, le messe in scena teatrali, fra cui una delle più interessanti e originali è a mio parere quella di Carmelo Bene (Macbeth horror suite, 1997), filmata dalla Rai. Bene sintetizzava l’opera in una scena lugubre giocata sul chiaroscuro tra drappi bianchi insanguinati, lampi illuminanti i mefistofelici accessi di follia sul volto dell’attore e il fondo funereo dell’ambientazione; il tutto condito con le dissocianti tecniche dell’assenza di ispirazione lacaniana e  deleuziana.

Ma sentivamo davvero la necessità di una nuova versione cinematografica della tragedia scozzese in grado di sabotare, se nominata, anche il più grande successo teatrale?

Una dei primi elementi a manifestarsi è l’aderenza del film, con qualche licenza fisiologica da parte della sceneggiatura, al testo drammaturgico. Colpisce con pari immediatezza la volontà della regia di stupirci visivamente con scelte autoriali coraggiose nei movimenti di macchina, nei fermi immagine alternati ai rallenties che ci restituiscono pose iconiche ed espressioni cristallizzate dei guerrieri mentre infuria la battaglia tra i ribelli di Macdonwald e uno degli ultimi manipoli fedeli alla corona di Scozia, alla cui testa vi è il generale Macbeth, che mostra in questa prima fase della storia la sua integrità e la sua valentia militare.

Un linguaggio visivo molto simile lo ritroviamo nelle battute finali del film, in cui, come attraverso una chiusura ad anello con variazione, una fotografia dai toni accesi (letteralmente infuocati) ci mostra l’esito dell’efferatezza delle azioni del protagonista e l’epilogo della dannazione della sua anima. Essendo il Macbeth, fra le tante chiavi di lettura possibile, grande esemplificazione del principio universale di causa ed effetto, potremmo rintracciare nel suddetto modulo espressivo una traduzione visiva vincente dell’idea di fondo della tragedia.

I tratti realmente distintivi di questa trasposizione e della relativa regia, oltre che nella ricostruzione di un basso Medioevo dalle atmosfere selvagge, simili ad altre già viste se non fosse per lo stregato sapore mefitico di cui sono pregne («planiamo attraverso la nebbia e l’aria impura», dicono le tre streghe shakespeariane), risultano nell’interpretazione intensa dei protagonisti, Michael Fassbender e il premio Oscar Marion Cotillard, magistrale nei panni di una magnetica e terribile Lady Macbeth, di cui il regista sceglie di non mostrare il sonnambulismo, quanto piuttosto i devastanti effetti di questo nel rapido processo di consunzione interiore della protagonista.

Scelta registica personale sembra anche quella di legare alla simbologia cristiana le scene-chiave che segnano le tappe dell’intimo iter della donna, dalla maturazione del piano omicida in cui coinvolgere il marito, alla macchia della colpa, fino alla follia. Il monologo in cui nascono in Lady Macbeth tutti i suoi feroci propositi dà l’idea di una sinistra messa al contrario ove, proprio in quella che somiglia a una cappella, ella invoca gli spiriti inferi a snaturare la sua natura femminile foriera di vita e a tramutarla nel suo opposto. Tutto sommato, anche in questa scelta non ci pare di ravvisare un eccessivo coraggio, dato che già in Shakespeare alcuni richiami alla simbologia giudaico-cristiana, specie nell’antico legame antropologico tra la colpa e la valenza rituale purificatrice dell’acqua, tante volte richiamata nel testo, sono ben chiari («L’immenso oceano del grande Nettuno potrà mai lavare e cancellare interamente questo sangue dalla mia mano?»…«Un po’ d’acqua basterà a mondarci di quest’azione. Non vedi com’è facile?»). Laddove invece il regista trova un po’ dell’ardire dell’antieroe di Scozia è nel puntare la lama strumento del delitto contro il ventre della sposa (lo stesso che era stato oggetto della oscura preghiera prima dell’omicidio).

La colonna sonora, composta da Jed Kurzel, fatta di tamburi e di quelli che sembrano arcaici strumenti nordici (notevole e greve nelle magnificenti scene in cui si unisce al gotico teatro di incoronazione di Macbeth), costituisce cornice perfettamente armonica con il mood dark, onnipervasivo e ancestrale, in cui si vuole portare lo spettatore, che rischia tuttavia di rimanere sospeso, nello stesso torpore in cui versano i protagonisti, a causa del ritmo ipnotico assunto dai suoni stessi.

L’andamento estenuante di tutto il procedere filmico rendono i 113 minuti di proiezione lunghi come un’eternità in cui si giunge a sperare che la spada di Macduff porti a compimento la sua vendetta quanto prima. L’attesa è però ben ripagata dalle scene finali, costruite come grandi icone pittoriche realmente monumentali, in cui le figure dei personaggi si stagliano megalitiche come quelle di eroi di epopee leggendarie.

A conti fatti, pur essendo questa nuova riscrittura della grande tragedia scozzese una buona prova di regia e nonostante l’ottima prova attoriale dei protagonisti, non siamo di fronte a qualcosa che ci faccia gridare al capolavoro e che dica alcunché di sostanzialmente nuovo, in special modo rispetto ai grandi Welles e Polanski.

Stefano Maria Pantano

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