Dario Fo: Storia proibita dell’America

Dario Fo: Storia proibita dell’America

Una sciabordante ondata di dati, racconti, aneddoti, nomi, cifre e un solo nocchiero al timone di quella quarta caravella mai partita da Palos: Dario Fo in “Storia Proibita dell’America” andata in scena ieri sera in prima nazionale al Teatro Duse di Bologna,  regalando ai presenti  una versione alternativa ma ben documentata di quella scoperta del Millennio che inaugurò una nuova era, suggellando così le porte al Medio Evo e spalancandole alla modernità. Testo uscito per Guanda nel novembre del 2015 ultima fatica – perché di fatica a ragione si tratta – del Maestro e del figlio Jacopo senza omettere il contribuito che aveva dato anni addietro Franca Rame, la compagna di una vita. Uno spettacolo impegnativo sotto tutti gli aspetti: partendo dalla lunghezza sia del testo che dello spettacolo poiché di due ore e trenta circa la durata, considerato che abbiamo un uomo solo al comando con una pletora di personaggi da far sfilare a cui prestar voce o suono se si tratta di animali: sì, vi erano anche quelli!, non può che dirsi oneroso un tale compito. Un grande spettacolo con  attore unico per intelligenza artistica e per la grande energia profusa nella situazione, ma anche per la costruzione testuale in sé. Un retropalco su cui spiccano i coloratissimi quadri realizzati da Dario Fo a illustrare momenti della storia che di lì a breve verrebbe narrata, uno sgabello alto e un tavolino per gli immancabili bicchieri utilmente colmi. Alle 21,17 fa il suo ingresso scusandosi col pubblico del lieve ritardo – dovuto dice lui – a un incontro con un gruppo di giovani impazienti che gli chiedevano l’impraticabile:  ricevere l’autografo sul libro, durante il breve intervallo, cosa che il Maestro fa ormai da sempre, ma solo dopo la fine dello spettacolo.  Uno scambio di battute con la sala dove il  pubblico lo segue con un interesse e un raccoglimento mai scontato, i rallegramenti espressi con la gioia quasi di un bambino per aver ottenuto il più alto numero di presenti saturando così di presenze la capienza del teatro, sarà questo la brezza che lo spingerà a salpare in tutti i sensi, per un viaggio a ritroso nel tempo. Una precisazione in anticipo che bene chiarisce come i primi navigatori convinti di essere nel giusto, riferissero di una conquista basata su una correttezza negli intenti e nelle azioni, tale solo nelle loro teste e da lì  fissate con l’inchiostro a imperitura memoria sui diari e giornali di viaggio, sdoganati solo con autorevolezza dalla Storia. Con un vigoroso  colpo di timone il Nostro riporta un equilibrio nella valutazione, riesumando in serie tutti quei figli di un dio minore che nella pratica hanno dimostrato come i fatti fossero stati riferiti al contrario, visto il trattamento riservato a coloro che fossero diversi, quindi “inferiori”. I racconti mescolano la realtà con la  finzione: fatti reali narrati  da personaggi fittizi, dove i generi e gli stili si uniscono in una favola dalle buone intenzioni con re, regine, ammiragli e personaggi esistiti ad altri presi della commedia dell’arte come Johan Padan tanto per farne un esempio, protagonista della narrazione della prima parte. Una conoscenza quest’ultima precedentemente nota, poiché qui si racconta «la storia della scoperta dell’America, vista non dal castello di prua, ma da sottocoperta, cioè da un disperato, un poveraccio, un pendaglio da forca», colui che trascorrerà nella più totale inedia un anno fra i selvaggi, che riuscirà a scampare il pericolo di venire divorato da questi, assumendone con scaltrezza un ruolo di spicco. Un racconto intenso, rapido, sfaccettato narrato secondo un’ottica dettata da un binocolo rovesciato dove gli umili e i vinti assumono nel contesto, il ruolo di protagonisti e vincitori. Una carrellata di figure, di elementi minori dove però storia e finzione riescono a darsi la mano: Little Turtle e la sua intuizione di radunare più tribù per contrastare gli invasori, in grado  addirittura di assaltarli persino cavalcando tronchi e pagaiando sul fiume. L’apertura mentale dei Calusa divenuti in seguito Seminole che li favorì al punto di applicare un sincretismo esemplare, loro che “aborrivano l’idea che un essere umano potesse essere tenuto schiavo, comprato e venduto” accolsero schiavi fuggiti, persone di diverse etnie accettandoli e dando loro “cittadinanza” poiché li consideravano degli esseri come loro a tutti gli effetti.

Menzionando poi anche i movimenti che negli USA si opposero a queste guerre contro le popolazioni dei nativi americani, condotte con ogni mezzo e spietata crudeltà, scandalizzando gli stessi cronisti nord americani visto il numero massiccio dei morti delle popolazioni bianche e nere annesse ai Seminole, tanto da superare quelli dei morti di tutte le altre battaglie precedenti, contro le popolazioni indigene. Senza omettere il costo spaventoso che tale macchina bellica aveva imposto  “il Congresso USA dei primi dell’ ‘800″  fu messo sotto accusa dalla opinione pubblica, per cui  “arriverà a secretare le decisioni prese contro i Seminole” , proprio un “secolo prima della mattanza del Vietnam”. I Seminole ritornano a noi e sono in grado di dare lezioni di civiltà, loro che consentivano una carriera a chi pur essendo diverso fosse in grado di dimostrare valore in battaglia, i Seminole che  in virtù “di una forte cultura del merito che non dava spazio a privilegi di sangue, (…) riescono sempre a trovare leaders geniali” da cui lo spunto spinge l’attore a chiosare dicendo che  “forse si potrebbero risolvere tutti i nostri problemi accettando che un nero diventi presidenti o politico della nostra nazione” o ad “entrare in parlamento e forse cambieranno le cose” a questo punto gli applausi del pubblico giungono numerosi, ma non assoluti e la cosa non sfugge al Maestro che subito commenta aggiungendo poi un divertente ma paradossale  “siate liberi!”, i Seminole sono per così dire usciti dall’oblio seppure nello spazio breve della narrazione.

La storia giunge al suo finale con rapidità, enunciando un’epopea che di alti e bassi farà sua regola, dove i bassi talvolta  si susseguono con più verticalità rispetto agli alti, fino poi a giungere al riscatto con  Mae Tiger la prima presidentessa donna dei Seminole, la creazione del corpo di polizia ad opera del figlio della stessa, già ex combattente nella guerra del Vietnam, le drammatiche discese ma anche le ascese di questa popolazione che all’interno della nazione americana, aveva trovato un suo spazio di dignità quella “che non si può comprare”, segnando la differenza rispetto ad altre popolazioni indigene, la lotta all’analfabetismo, l’inaspettata “metamorfosi nata dal bingo” e da lì una fortuna economica…

Insomma una storia celata dalla Storia ma svelata dall’arte con dovizia di particolari, una brillante esposizione, l’abilità sempre di raccontare tanto e annoiare per niente.

Uno splendido mazzo di rose rosse, un tripudio di pubblico, una lunghissima fila di spettatori in attesa di farsi autografare il libro e fra essi, sicuramente anche quei ragazzi menzionati dal Maestro prima dell’apertura dello spettacolo.

Informazioni e prenotazioni

Ufficio di biglietteria

Via Cartoleria, 42 Bologna

051 231836 – biglietteria@teatrodusebologna.it

Daniela Ferro

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