ITALIA – Incontro intervista con Salvatore Massimo Fazio. Sopravviveremo alla “regressione suicida”?
Alcuni giorni fa vi avevamo raccontato di un incontro in libreria particolarmente stimolante. Ci riferiamo a quello svoltosi circa due settimane fa presso la libreria Mondadori di Roma in Via Piave 18, dove Salvatore Massimo Fazio, filosofo estraneo ad ogni possibile schematizzazione e agli ambienti accademici tradizionali, ha presentato al pubblico il suo nuovo lavoro intitolato Regressione suicida (clicca qui).
Nonostante i raccordi teorici che lo richiamano a Émil Cioran, a Manlio Sgalambro e all’ambivalente rapporto personale che lo ha legato a quest’ultimo, Fazio ha lasciato intendere, tanto nel testo quanto nelle sue stesse parole, di essere pronto ad affermare la sua solitaria indipendenza per vivere e consigliarci di vivere da “rassegnati”. Concetto, questo, totalmente stridente con lo spirito di efficienza e di pragmatismo di cui è pregna la nostra società e che abbiamo sentito il bisogno di approfondire ulteriormente. Per farlo, però, c’è stato bisogno di incontrarlo nuovamente a tu per tu, data l’eccezionale affluenza e l’altrettanto eccezionale vivacità delle domande dal pubblico che hanno acceso un lungo dibattito, durante il quale non ci siamo avveduti del ticchettio degli orologi e del sopraggiungere di un’ora tarda.
Durante il nostro secondo rendez-vous, decisamente più socratico secondo la maniera antica, abbiamo avuto sin dai primi momenti la conferma dell’estrema gentilezza di chi ci stava di fronte, che lasciava gradualmente scorgere il complesso mondo che colora anche i suoi quadri.
L’estrema cultura, anzi, e la gravità dei temi che andavamo a trattare, parevano restare paradossalmente in secondo piano rispetto all’amabile verve siciliana, grazie alla quale anche la discussione più impegnata non manca di quella punta ironica che ridà il giusto equilibrio alle cose.
Ecco cosa ci siamo detti…
1) Prima di entrare nel merito del tema trattato nel Suo ultimo libro “Regressione suicida”, che nonostante la forza incisiva del titolo non ha nulla a che vedere con il gesto estremo di chi materialmente si toglie la vita, vorrei porLe una domanda su una delle attività che, accanto alla pittura e alla musica, accompagnano il Suo filosofare: la cucina. Ricordiamo infatti che dopo la Sua esperienza inglese Lei continua a lavorare anche come chef.
Solitamente, una volta superata la visione antica e simposiale che caratterizza a tratti il filosofo antico per noi, siamo portati a pensare a chi ha la fortuna oggi di poter fare della filosofia la propria principale occupazione come a una figura quanto mai distaccata dalla materialità e da quelle immagini che invadono in questi anni il piccolo schermo dei talent cooking e dell’intrattenimento in generale.
Mi è parso ancora più singolare che in un autore dominato dalla regressione dell’abbandono al vuoto che tutto sovrasta permanga una tensione così genuina verso la bellezza e i colori del cibo, come se a mo’ di sostrato interiore Lei conservasse l’empito vitale della Sua terra straordinaria senza la quale, per dirla con Goethe, l’Italia stessa non lascerebbe nello spirito immagine alcuna. Nonostante tutto, dunque, “primum vivere, deinde philosophari”?
La figura del filosofo alienato dal mondo è uno stereotipo ancora duro a morire. È vero che il suo spirito deve essere protetto come una sacra reliquia in una teca dorata, ma questo per evitare che venga eccessivamente contaminato dalle nefandezze altrui. Preferisco intendere una filosofia di strada, una street philosophy. Il legame col cibo è la conferma del filosofo fatto uomo, godereccio nella vita ma spietato nella parola. In fondo è il paradosso del filosofo, pensare come si vuole ma comportarsi come gli altri.
2) Da quanto abbiamo avuto modo di ascoltare durante l’ultimo incontro di presentazione di “Rgressione suicida”, Lei condivide con i più la concezione della filosofia come phàrmakon contro gli strali della vita per vivere meglio. Più intimamente, però, considerando anche che viviamo nella temperie del puro computo e del dominio del capitalismo assoluto in cui alcuni si ostinano a ribadire l’utilità dell’inutile (e parliamo di un’“inutilità” sempre più bistrattata dalle stesse Accademie a Lei non troppo care), potremmo chiederLe quale sia il Suo rapporto con quella che potremmo figurarci come una donna forse perfino più impegnativa di quelle in carne ed ossa?
Il termine “pharmakon” da lei usato ha un duplice significato: “cura” e “veleno”. Il mio intento non è quello di curare né tantomeno quello di avvelenare ma quello di mostrare il pensiero prendere forma attraverso un percorso personale. Il lettore e l’ascoltatore sono entità ricettive alla parola. Ma questa non è una cura, al limite un sollievo. Poi se qualcuno si vuole avvelenare ben venga.
3) Anche se si è tentato di farlo nel corso dell’incontro, posso chiederLe di provare nuovamente a spiegarci che cos’è il “nichilismo cognitivo” di cui Lei è indicato da alcuni come uno dei capiscuola, se di “scuola” si può parlare, dato quanto abbiamo appreso dalla lezione di Sgalambro?
Il nichilismo cognitivo è una sigla coniata dal giornalista Luigi Pulvirenti e che comunque non mi dispiace. Da molte fonti vengo considerato il capostipite di questo movimento insieme al co-fondatore Davide Bianchetti. Mi viene in mente un aspetto cognitivo del linguaggio chiamato T.O.T.E. (test, operazione, test, uscita). Test è il vivere, operazione il suicidio, test dopo il suicidio metaforico si rivive in modo rassegnato, uscita o si continua a vivere o ci si suicida materialmente.
4) La via del paradosso è adottata per quella che dopo “Insonnie” è probabilmente la Sua prima opera “sistemica”. Il Suo terzo lavoro era però più incentrato sulla formula del “pensare breve” di cui sottolinea l’importanza in “Regressione suicida” e su quella densità fulminante della scarica di mitra necessaria per colpire il destinatario del messaggio in questo nostro presente che ostinatamente rifiuta la complessità in ogni sua forma?
Col pensare breve si intende la forza propulsiva del pensiero, il dispiegamento dello stesso. Qui lo ritroviamo come in “Insonnie”, che qualcuno definì un libro che non poteva mancare in nessun comodino di casa, alla stregua di una Bibbia. Con “Regressione suicida” il pensiero viene spiegato ma è appunto nel paradosso che il filosofo si mostra coerente.
5) Un’opera come “I dialoghi di Liotrela. L’albero di Farafi o della sofferenza”, che Umberto Eco, fra le altre cose, aveva intenzione di adottare per un suo corso monografico all’Università e di cui chiese una copia da Lei autografata, si presterebbe a un adattamento per il teatro? Da una breve lettura mi pare i presupposti ci siano tutti.
Sì
6) Come mai, secondo Lei, dopo quanto dichiarato dal giornalista Luca Ciliberti sulla Sua “figliolanza spirituale” che La legherebbe a Sgalambro, seguì un certo raffreddamento dei rapporti con il Suo maestro? In fin dei conti non possiamo essere responsabili anche delle affermazioni di qualcun altro.
Guardi le cause possono essere state molteplici. Che il discepolo, ammesso che lo fossi, uccida il maestro è cosa nota. Ma che il maestro allontani il discepolo fa più riflettere. In fondo non trovo importante questo discorso.
7) Venendo ora ai termini centrali di “Regressione suicida”, Lei parla della necessità di uno scatto che, passando per un imprescindibile “parricidio di Parmenide”, ci liberi dall’apatia illusoria di una speranza laica o religiosa riportandoci al momento originario della nostra venuta al mondo. Già in questa fase siamo il risultato di un atto di arroganza da parte di chi ci ha concepito e di cui siamo destinati a pagare lo scotto, ma siamo forse più a diretto contatto con la missione affidataci dal nostro dàimon perché liberi dai condizionamenti dei miti, dei padri e dei maestri. La forza regressiva di questo salto all’indietro può avere qualcosa a che vedere con la simbologia del racconto gnostico del “Canto della perla”, in cui appunto un giovane principe rinuncia alla propria condizione per iniziare un viaggio impossibile alla ricerca dell’oggetto-simbolo del suo status originario di cui conservava misteriosamente il ricordo?
Una regressione intesa come rinascita dopo che si è metaforicamente suicidati. Il che può dischiudere anche molteplici suicidi e rinascite all’ interno della stessa vita. Una riappropriazione di se stessi e vivere uno stato di rassegnazione intesa come evitamento che l’altro possa colpirci. Una sorta di indifferenza elaborata, non solo emotiva.
8) In caso di risposta affermativa alla precedente domanda, il richiamo del sé profondo che spinge il principe della storia a partire è la stessa forza che spingerebbe noi a regredire verso l’abbandono e il vuoto? In tal caso si avrebbe un superamento del nichilismo al centro del volume per richiamarsi necessariamente a dottrine spiritualistiche come quella della metempsicosi. Dunque quella metafisica di cui per Sgalambro dobbiamo liberarci con una sana empietà rischierebbe di rientrare dalla finestra…
Non è proprio una regressione verso il vuoto e l’abbandono. È una regressione verso la vita intesa come rinascita. Abbandonarsi alla vita, lasciarsi vivere, osservare il vuoto.
9) Su Cioran Lei afferma in un passo del testo: «Soltanto l’aspirazione al Vuoto ci preserva da quell’esercizio di contaminazione che è l’atto di credere». Non sappiamo se Lei faccia completamente Suo tale assunto, ma durante il nostro incontro romano Lei si è definito “cattolico di sponda”. Intendiamoci, non vi è da parte mia un’ossessione di salvare Dio in calcio d’angolo come fa Cartesio nel suo sistema ma, dato che le Sue riflessioni sembrano davvero lasciare poco spazio per abbandoni di tipo fideistico, vorremmo sapere se possiamo liberarcene definitivamente o se, oltre Nietzsche, dobbiamo esclamare “Dio è morto. Viva Dio!”.
Mi ricollegherei a Sgalambro e al suo credere a Dio e non in Dio. Dio esiste in quanto ne parliamo. Credere in lui è una scelta secondaria. Credere a lui è l’aspetto fondamentale.
10) Durante la presentazione di “Regressione suicida” si riferiva a Diego Fusaro come un “collega” riguardo certe riscritture della filosofia marxista. Tuttavia non ci sembra di riscontrare molte analogie tra Lei e il giovane studioso. Leitmotives del pensiero di Fusaro sono infatti frasi come “Il futuro è nostro” in quella che lui definisce “filosofia dell’azione” e che di certo non procede in prospettiva di un rassegnato abbandono (vero o apparente che sia). La lotta contro il potere oppressivo (oggi più in forma che mai dietro la facciata di democrazie puramente nominali che si vogliono confinare in spazi sempre più ridotti) si richiama in Fusaro ad autori come Gramsci, in cui leggiamo cose come «Odio gli indifferenti, peso morto della storia».
Se punti in comune vi sono, come può una filosofia come quella di Salvatore Massimo Fazio fungere da riferimento teorico per una massa critica che voglia concretamente migliorare il presente, se essa riguarda solo scelte individuali di “suicidio”?
La filosofia dell’azione di Fusaro, coincide pari passo con la filosofia rovesciata del nichilismo cognitivo, quasi una cassa si sistemi donde il sistema per emergere è quello del rifiuto, ontologicamente la rassegnazione, che necessita per lo slancio (ecco l’azione fusariana) vitale.
11) In un passo del libro si fa riferimento alla necessità di una forza aggressiva al centro di un testo perché questo possa durare nel tempo. Molti testi laici e religiosi come la Bibbia o il Corano, benché nelle grandi religioni si parli molto di amore e di compassione, ne sono manifestamente pregni. Sebbene l’atto suicidario di rifiuto delle attuali regole del gioco sia di estremo coraggio, non trova che esso si ponga comunque nel solco dell’attuale “pensiero debole” che, in un momento storico in cui si parla di “perdita di memoria”, “presentificazione”, “epoca delle passioni tristi”, la fa già abbondantemente da padrone su tutto il giro d’orizzonte teorico e pratico attorno a noi? Non trova, cioè, che in mezzo a tanta de-costruzione (benché la nostra epoca sia anch’essa “ideologica” nella sua opera di distruzione del mondo valoriale borghese) ci sia più bisogno di pràxis che di nuovi “esistenzialismi epicurei”? In altre parole questa, life-in-death coleridgeana che il “suicidato” si trova a vivere, non rischia di apparire metaforicamente come l’autoevirazione di un uomo che non trova altro argomento di rimostranza di fronte alla propria partner?
Appunto ha detto bene, le scelte sul suicidio è giusto che siano individuali. Perché non considerare come forma di miglioramento personale e in seguito anche collettivo il suicidio stesso? Il suicidio teorico pensarlo è un dovere morale, applicarlo una scelta.
Il punto è che si continua a pensare al suicidio come scappatoia alla vita o come una negatività personalizzata o altre storielle tristi e patetiche. Credo invece sia opportuna una educazione al suicidio, una pedagogia del suicidio. L’uomo ha la possibilità che l’animale non ha: l’ipotesi suicidati. Educarsi ad essa e gioire di questa. Insomma farsi fuori e alla svelta. non è un autoevirarsi per punirsi o punire chissà chi, è un processo educativo che ha una logica ragionata.
12) Riguardo il passaggio successivo alla “regressione suicida”, ossia al ritorno nella comunità dopo l’acquisizione da parte del singolo di questa nuova consapevolezza, non c’è il rischio che, qualora questi cercasse di scuotere la coscienza del consesso sociale che lo ri-accoglie, possa esserne neutralizzato più o meno violentemente come accade agli uomini nella caverna platonica?
Ritornando alla concezione metaforica del suicidio il rischio che l’uomo suicidatosi, regresso e purificato possa non essere ben accolto è un problema che c’è comunque. Solo che lì dovrà imparare a non soffrire più come prima.
Grazie infinitamente per l’attenzione e la disponibilità dimostrata ai lettori di MyWhere, a nome dei quali Le facciamo i nostri migliori auguri, con la speranza (che si dibatte negli ultimi colpi di coda dopo il mortale attentato che le abbiamo riservato) di incontrarLa nuovamente molto presto.
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