Recensione Il Divin Codino: un disastro (non) annunciato

Recensione Il Divin Codino: un disastro (non) annunciato

ITALIA – Se la cosa più bella di un film risiede nei titoli di coda, vuol dire che qualcosa è stato sbagliato. Raccontare Baggio in soli 92 minuti è impresa titanica, se non eretica. Dalla durata troppo breve ai salti temporali, dalla resa complessiva del protagonista ai mastodontici vuoti di trama, andiamo a vedere le ragioni di un disastro che poteva essere evitato o, quantomeno, contenuto. 

Roberto Baggio, nel giro di un secondo. Di una parabola calciata. Spesso pronunciato tutto insieme, tutto d’un fiato, ricalcandone la sonorità e il ritmo proprio come si fa con le preghiere, con le litanie popolari, rimbombandone la “b” e immaginando un universo unico nel quale nome e cognome sono principio e fine, prosecuzione naturale di una musicalità non infrangibile, proprio come nelle liriche dannunziane dove la parola è atto, contenuto, principio primo e ultimo, cassaforte e testamento di un senso inesplicabile se non nella sua musicalità. Nella sua ritmicità. Parola parlata, parola cantata; non spiegata.  Roberto Baggio, quindi. Anzi, Roby: nella delicatezza del diminutivo è lui il protagonista del film Il Divin Codino. In questa titanica impresa si è imbarcata Letizia Lamartire, giovane regista trentaquattrenne, che ha firmato il film e con lei un cast di tutto rispetto con a capo il protagonista, Andrea Arcangeli, nelle vesti di Roberto Baggio.

L’impresa era titanica, dicevamo, preceduta da elefantiache aspettative che aspettavano e speravano di trovare conferma: così non è stato. L’impresa è clamorosamente fallita e il tentativo di costruire un biopic di grande livello si è sciolto come neve al sole, lasciando lo spazio a 92 minuti di disastro assoluto. 

PERSONAGGI CARICATURALI, RITRATTI SCIALBI E LA DURATA E’ UN PROBLEMA: I DIFETTI DE IL DIVIN CODINO

L’obbiettivo del film, almeno nelle intenzioni, anche se queste non possono essere giudicabili e non bastano per fare grande un racconto cinematografico, era quello di rappresentare il privato, l’animo di Baggio, l’uomo spogliato dal mito e desacralizzato dalla sua immagine pubblica, iconica. Narrare il destino favolistico e fiabesco del bambino di Caldogno che giunge poi ad abbracciare il buco nero della disfatta di Pasadena, nucleo centrale del racconto, con quel rigore che ancora oggi viaggia nei pertugi inesplorati delle menti di tutti gli italiani.

Queste le intenzioni, che però sono rimaste tali. La resa è stata catastrofica, insufficiente, con una regia per larghi tratti inadeguata e un’impalcatura generale che avrebbe trovato ragione, forse, in una fiction di Canale 5. Ma torniamo al mondiale ’94. E’ quello il perno attorno al quale ruota tutta la narrazione, il dramma, l’abisso individuale che diventa collettivo, voragine nella quale cade un’intera nazione seguendo con gli occhi sgranati la parabola di quel maledetto pallone che sfonda il muro del suono americano, eppure è tutto scialbo. Spento. Tutto ammantato da un piattume corale che lascia attoniti. Anche il ritratto proposto di Arrigo Sacchi, Commissario Tecnico della Nazione in quel mondiale e impersonato nel film da Antonio Zavatteri, è caricaturale, macchiettistico, al limite del ridicolo, ingabbiato da un manierismo gestuale e verboso che farebbe impallidire anche il più benevolo degli imitatori: tutto sbagliato.

La durata del film, appena 92 minuti di proiezione, è un altro enorme problema del film. Intendiamoci: l’essenzialità nella cifra stilistica può essere un assoluto pregio se ben calibrata e soprattutto centrata nella trama del racconto, ma non in questo caso.

Comprimere la parabola umana di Roberto Baggio in 92 minuti, è quasi un atto eretico. Blasfemo. Le falle di sceneggiatura, i siderali salti temporali (si passa dal 1988 al 1994 in un battito di ciglia), le esperienze annacquate di Torino, Milano e Bologna e la fretta con cui è stato affrontato il finale di Brescia, e il rapporto col “papà” Mazzone, ne sono la riprova. Ogni cosa è spezzettata, masticata e poi vomitata senza alcuno spessore. Senza alcuna empatia. Di nuovo tutto sbagliato.

MA BAGGIO E’ DAVVERO COSI’ DEPRESSO COME CI E’ STATO RACCONTATO SU NETFLIX?

Ma il difetto più imperdonabile, almeno agli occhi di chi scrive, è proprio il ritratto che viene fatto del Divin Codino. Non l’uomo, non il genio del nostro tempo tremendamente forte quanto fragile, non il mito nella sua finitezza, nella sua incompiutezza, non il bambino e nemmeno il padre, ma un depresso. Un sommesso. Un mesto figuro afflitto da indecisione cronica che invece di calciare, magistralmente, il pallone, lo contempla. Baggio ne esce non umile, ma modesto. Non fragile, ma debole. Non grande, ma forte. Tutto il contrario, quindi. Il calcio qui è completamente assente, o quasi, ed è solo un pretesto che serve a destrutturare il mito. Il calciatore come mera estensione dell’uomo, nulla di più. Nulla di altro. Tutto ridotto ad un deprimente trattatello psicologico che ambisce ad essere poetico, ma risulta soltanto patetico. 

Roberto Baggio è stato un eroe, invece, proprio perché perennemente sospeso, incompiuto, contradditorio, perdente. Baggio è stato un eroe anche se sconfitto, vinto dal fato, perché è rimasto fedele a sé stesso, ai suoi ideali, e quindi libero. L’eroe è tale perché può perdere tutto, ma mai sé stesso. Mai il suo categorico morale. Baggio è stato quel rigore spedito alle stelle non per le ragioni esposte nel film, ma perché quell’evento non l’ha mutato, non l’ha scostato dal suo stato di quiete, di olimpica compostezza anche se a predominare ancora oggi è il dolore dell’errore. Della perdita. Roberto Baggio è stato un eroe complesso, un’icona da innalzare a baluardo di una generazione disgraziata, svuotata di ogni ideologia, di ogni slancio culturale. Il Divin Codino è tutto fuorché ciò che viene fuori da questo “film”.  Baggio ha dato spessore al fallimento. Dignità alla sconfitta. E per questo eternamente grande. Eternamente impareggiabile. Un eroe autentico, come pochi.

Claudio Troilo

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