I Gatti Persiani

I Gatti Persiani

In Occidente, quando si parla di Iran vengono subito in mente immagini offuscate dalla sensazione di chiusura e isolamento culturale un po’ indotto, un po’ ricercato. Qui, però,  non è il caso di discutere di argomenti socio-politico-economici che poi, alla fine, sono tutti come bastone del pollaio: sporco di escrementi da tutte le parti.
Discorsi da beceri telegiornali di disinformazione a parte, sono spesso i prodotti culturali persiani che ci parlano dell’Iran. Ricordiamo (forse) tutti, il delizioso Persepolis (sia il film che la graphic novel da cui deriva) e, soprattutto, la produzione di Abbas Kiarostami ma, tra questi, esiste anche un piccolo, grande e quasi sconosciuto prodotto filmico chiamato I Gatti Persiani (Bahman Ghobadi, 2009), capace di aggiudicarsi il premio speciale della giuria a Cannes nel 2009.
04I Gatti Persiani parla di un ragazzo (Ashkan) e una ragazza (Negar) alle prese con il sogno di uscire dal loro Paese per far conoscere la propria musica. In Iran, infatti, è pressoché impossibile sfuggire alla severa tagliola della censura sui prodotti culturali. Per farlo, Ashkan e Negar chiedono l’aiuto di Nader, uomo d’oro della produzione musicale clandestina iraniana che promette loro passaporti falsi e buone possibilità di carriera. E così, inizia l’avventura nel ventre della musica underground di Teheran e ‘underground’ è il termine perfetto per descriverla. I tre personaggi principali, infatti, iniziano il loro viaggio tra scantinati, attici, appartamenti insonorizzati, fattorie sperdute ecc. (tutti luoghi di sale prove improvvisate) alla ricerca di batteristi e chitarristi per riuscire a formare una band da far suonare all’estero.
La regia, semplice ma efficace, con l’uso preponderante della camera a mano, accompagna lo spettatore – guidato dai tre ‘Virgilio’ sopra citati e promosso a testimone diretto dalle soggettive mancate – all’interno della scena culturale giovanile sommersa, fatta di concerti clandestini, feste illegali e chi più ne ha, più ne metta.
La pellicola diventa quindi il pretesto perfetto per raccontare la variegata scena musicale iraniana e, così, le prove dei vari gruppi diventano immediatamente tanti frammentati videoclip musicali di diverso genere, dall’indie al metal passando per il rap, che congelano momentaneamente la trama raccontando per immagini ciò che sta fuori da queste sale prove improvvisate, la pelle del Paese, il suo strato più esposto. Dipingono l’Iran e la sua gente per la durata d’un brano approfittando di un tanto sapiente quanto discreto montaggio (che più si avvicina all’estetica e al linguaggio del videoclip).
Per tutta la durata delle immagini, balza all’occhio dello spettatore la freschezza e l’ironia, oltre che la determinatezza e la spavalderia, con la quale i giovani ‘dissidenti’ armati di strumenti affrontano il regime rischiando giornalmente il carcere e le punizioni corporali.
Questa positività, però, viene meno con il finale del film quando la musica finisce, la realtà si riappropria degli spazi, dei corpi e delle menti e il tono della narrazione cambia improvvisamente. Sta a voi scoprire come.

Marco Leoni
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