L’abbigliamento ecologico di fattura artigianale non può sostituire di colpo su scala globale quello industriale. Lo sappiamo tutti. Tuttavia, da una decina di anni a questa parte hanno cominciano a prendere consistenza modi di produrre, distribuire e creare linee di prodotti green che rappresentano una valida alternativa all’abbigliamento tradizionale. La mobilitazione delle grandi marche e di testimonials prestigiosi nel nome della “sostenibilità” è fondamentale per immaginare un cambiamento di vasta portata dei modi del consumo tra la gente. (nella foto di copertina: uno dei più recenti abiti sostenibili creati da Stella McCartney).
Uno sguardo al passato
Fino alla prima decade del terzo millennio, uno dei limiti dell’abbigliamento eco-friendly era rappresentato dall’estrema essenzialità del suo design e dalle caratteristiche naif dei materiali usati. In altre parole, per molti anni gli abiti che oggi ci piace definire “sostenibili” erano bruttini, fatti con stoffe naturali ma anche involute e per giunta più costosi di prodotti aventi la stessa funzione.
Se non eri un fanatico dell’ideologia eco, potevi certo indignarti per lo sfruttamento indiscriminato del pianeta, partecipare a qualche camminata, essere d’accordo per la raccolta differenziata dei rifiuti, auspicare l’intervento dello Stato per sostenere il mercato dei pannelli solari o delle auto elettriche, ma non avresti mai comperato per il tuo guardaroba serio l’abbigliamento green.
La trasformazione dell’ideologia eco in un sistema di valori work in progress basati su pochi assiomi condivisi dalla maggioranza della gente ha cambiato le carte in tavola.
L’idea assolutamente generale che da un po’ circola anche tra la gente ordinaria ovvero che possiamo produrre meglio, risparmiando energia e riducendo l’inquinamento, è divenuta per molti una sorta di principio valido a priori, sul quale scommettere per esssere il linea con uno stile di vita che bilanci l’ascolto di desideri con il rispetto per l’ambiente. Inutile aggiungere che il più delle volte non abbiamo affatto le idee chiare su cosa possa significare realmente produrre meglio e come essere più responsabili o etici quando acquistiamo gli oggetti finiti nel nostro mirino. Comunque, malgrado quest’ordine di dubbi, l’idea generale che ho esposto ha cominciato a funzionare come il nuovo orizzonte all’interno del quale, sostengono gli esperti, prenderanno forma le preferenze delle persone riguardo i consumi. Il concetto che oggi sembra esprimere meglio questa nuova frontiera dello stile di vita è evocato dalla parola sostenibilità.
Fig, 1- Tre grandi protagonisti della sostenibilità nella moda: Federico Marchetti, Re Carlo III d’Inghilterra, Brunello Cuccinelli.
Francesco Storace, sociologo e futurologo tra i più accreditati nel nostro Paese, una decina di anni or sono sostenne che entro 5/10 anni la sostenibilità sarebbe divenuta un parametro di qualità della vita irrinunciabile per la maggioranza degli individui.
Le previsioni di Storace discendevano dai report di numerose società specializzate in indagini di mercato, secondo le quali la vendita di prodotti eco-compatibili ogni anno avrebbero dovuto crescere in doppia cifra. Ebbene, diciamo subito che le previsioni non sono state rispettate. Intendiamoci: proclami sulla sostenibilità si sono diffusi ovunque, è aumentata la consapevolezza della gente ma da ciò non sono discesi quei comportamenti che lasciano pensare ad una efficace svolta.
Tuttavia non deve sorprendere se di fronte ad un mutamento del gusto che si annunciava epocale, i protagonisti della moda si sono prontamente attivati per sintonizzarsi con i tratti dominanti del cambiamento di mentalità nato dalla consapevolezza diffusa sulle conseguenze drammatiche causate dall’inquinamento del pianeta. Evidentemente perché anche gli stilisti e i grandi manager della moda sono come noi abitatori di questo pianeta e quindi è giusto che si preoccupino e lo difendano; ma soprattutto perché è il loro mestiere andare un po’ prima di altri là dove arriveranno i desideri della massa dei consumatori.
Nascita di una parola-narrazione
La parola “sostenibilità” deriva dal latino sustinere che significava sostenere, difendere, favorire, prendersi cura di qualcuno o di qualcosa.
Diviene un concetto di tendenza verso la metà degli anno ’80 del novecento, quando fu ufficialmente adottato dalla Commissione Mondiale del’ONU per l’ambiente e lo sviluppo, durante un convegno a Stoccolma nel 1987. Il Report che diffuse gli esiti di quei lavori ebbe una vasta eco e contribuì a diffondere la parola in tutti gli ambienti, da quelli della ricerca scientifica ai luoghi nei quali si progettavano politiche di intervento, dagli intellettuali, giornalisti e opinion leader ai pubblici più sensibili ai problemi ecologici.
Nel 1992 alla conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo, furono i Capi di Stato mondiali, per la prima volta uniti per affrontare a livello globale gli emergenti problemi ambientali, a rafforzare la diffusione del concetto di “sviluppo sostenibile” in tutti gli strati sociali, trasformandolo in una sintetica categoria verbale che alludeva ad una nuova visione strategica e al tempo stesso in una polarizzante parola-narrazione. Tuttavia il riposizionamento semantico che diedero al concetto per accontentare tutti i protagonisti del convegno, risultava anche fatalmente ambiguo: Lo sviluppo sostenibile – si leggeva nei report- è uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni successive di realizzare i propri”.
Da quei giorni abbiamo assistito ad una straordinaria diffusione della parola, seguita come un’ombra da uno sconcertante aumento di tensioni, di polemiche, di critiche.
Mentre si diffondevano a cascata rapporti scientifici, analisi, divulgazioni giornalistiche, proclami di valenza globale, nascevano da ogni parte ondate di critiche più o meno sensate e cresceva una piccola moltitudine di negazionisti. Vale la pena di aggiungere che persino gli intermediari culturali allineati ai fondamenti etici dello sviluppo sostenibile (giornalisti specializzati,ricercatori,analisti), quando osservavano il problema dal punto di vista pragmatico non potevano che registrare il fallimento di tutti gli obiettivi dei primi piani operativi globali.
Fig.2- I magnifici tre del Green Carpet Award 2023: Livia Giuggioli-Firth, Tom Ford, Cate Blanchett.
Diciamo che, soprattutto all’inizio dei tentativi di tradurre i principi della sostenibilità in protocolli di azione, sin dalle prime fasi degli interventi operativi, in sede di rendicontazione emergeva una preoccupante distanza tra riscontri e le aspettative.
Probabilmente era il prezzo da pagare per aver impostato le narrazioni soprattutto a livello di analisi globali diffondendo interventi difficili da ochestrare, vuoi perchè troppo ambiziosi, vuoi perchè si basavano su sincronie improbabili tra Paesi e forme di governo troppo eterogenei. Ovvero di aver trascurato la realtà delle persone, dei territori, degli ambienti e delle culture nei quali agiscono e vivono.
Occorrevano oltre alle necessarie focalizzazioni su dati scientifici e a nuove regolazioni, strategie glocal che documentassero l’effettiva consistenza del concetto di sostenibilità sulla specificità di territori e individui non riducibili a medie statistiche o a scontate generalizzazioni. Occorreva la collaborazione con il potenziale narrativo dei dispositivi della moda, i più efficienti per orchestrare desideri e non solo bisogni, orientandoli verso nuovi scenari; dispositivi notoriamente molto efficaci per deviare, grazie a salti percettivi, la traiettoria dei comportamenti; i dispositivi tra i più creativi a nostra disposizione per domare la folle passione di novità che aveva caratterizzato la post-modernità (e accelerato la crisi ecologica del Pianeta).
Protagonisti della moda sostenibile
L’entrata in scena convinta dei grandi nomi della moda ha cambiato radicalmente il significato operativo dell’abbigliamento sostenibile dando ad esso quell’allure che, nel tempo delle origini evocato all’inizio, la moda green non aveva.
Uno degli esempi più eclatanti che ricordo fu l’abito che Giorgio Armani disegnò per Livia Giuggioli, moglie del celebre attore Colin Firth, divenuta nota al grande pubblico per aver creato il Green Carpet Challenger. La foto della celebre coppia sul green carpet dei Golden Globes 2012 con la bellissima Livia resa ancora più glamourosa dallo splendido abito di Giorgio Armani fece il giro del mondo. E con essa si diffuse il messaggio etico metacomunicato dall’immagine: la moda sostenibile è bella sia per stile e sia per i suoi contenuti “etici” dal momento che il tessuto dell’abito, chiamato Newlife di Filature Miroglio è ottenuto dal riciclo di bottiglie di plastica. Inoltre l’intera filiera produttiva, dalla materia alla produzione è certificata.
Quindi, grazie all’alleanza tra un grande interprete della moda come G.Armani e le due star si platonizzava l’ideologema della sostenibilità, attraverso una invisibile struttura di senso che metteva in connessione il bello con il buono e il giusto.
E’ chiaro che con un “immaginario” congruente con quelli del fashion, sostengono molti autorevoli analisti, per come siamo fatti, il messaggio Green può influenzare in modo più efficace le disposizioni, i comportamenti e i valori della pubblica opinione, proiettando l’abbigliamento sostenibile su scenari profondamente diversi rispetto al tempo in cui moda ecologica significava poco più del riciclaggio di abiti usati e ruvida creatività. Ma può cambiare il comportamento al punto da produrre una svolta all’effettivo stile di vita della gente? Tornerò presto a questa domanda. Per ora voglio spendere alcune parole di riconoscenza nei confronti di chi ci ha messo la faccia e per quanto possibile ha agito con coerenza e lealtà.
Fig.3- Livia Giuggioli-Firth e Colin Firth in una delle tante edizioni del Green Carpet
Nella fase di messa a punto dei motori della moda etica a cui ho accennato, credo sia stata fondamentale la citata Livia Giuggioli-Firth. Fin dal 2007, profondamente ed emotivamente coinvolta dalle ripercussioni sociali del mutamento climatico, in parte causate dai modi di produzione e di consumo dei prodotti moda, cominciò a riflettere sul cosa fare per tradurre in azione e dare concretezza ai tanti proclami pronunciati nel nome della sostenibilità. Probabilmente nelle fasi iniziali del suo coinvolgimento emotivo, l’elemento compassinevole verso chi sopportava i costi esistenziali delle conseguenze della globalizzazione e del cambiamento climatico, era dominante. Ma il suo attivismo si rivelò gravido di intelligenza. Sono convinto che Livia conoscesse benissimo ciò che gli scienziati del clima sostenevano da decenni e che condividesse l’importante impegno di divulgare dati, informazioni relative alle criticità del Pianeta. Ma aveva maturato l’idea che senza il coinvolgimento diretto dello Star system e dei creatori di bellezza e moda, difficilmente la sostenibilità avrebbe intaccato in profondità lo stile di vita delle persone. Nel 2009 fondò dunque Eco-Age, una azienda di consulenza nata per dare un supporto di conoscenze alle aziende che timidamente si accostavano ad un problema complesso. Poi ideò il Green Carpet Challenge come modalità di ingaggio con i personaggi dello Star System sensibili alle criticità eco, capaci di far emergere con la loro presenza, potenti narrazioni emozionali al servizio della sostenibilità. Emulando il famoso red carpet, Livia creò un cerimoniale analogo dove attori e attrici famosi vestiti rigorosamente green da grandi creativi della moda, apparivano nei momenti più mediatici di eventi, premiazioni, festival di levatura mondiale. Il primo intervento operativo fu un Gala del Golden Globe (è uno dei massimi riconoscimenti nel settore cinematografico e televisivo, secondo solo al premio Oscar) del 2009, nel quale Livia grazie alla collaborazione con Tom Ford, in quell’occasione premiato per la sua regia del film “A Single Man”, presentò il Green Carpet Challenge suscitando l’attenzione dei media. L’idea di fondo, come tutte le buone idee in realtà era semplice da comprendere quanto efficace negli effetti immediati: si trattava di utilizzare il “linguaggio emozionale” della moda-spettacolo per coinvolgere grandi attori e famosi stilisti ad impegnarsi concretamente per trasformare gli stili di vita delle persone sensibili al fascino dello Star System.
Ebbene, gli esempi di Tom Ford/Giogio Armani/ Livia Giuggioli-Firth sono solo uno dei tanti avvenimenti e progetti grazie ai quali la sostenibilità raggiunse effetti da prima pagina. E devo riconoscere che per quanto riguarda il coinvolgimento degli stilisti e dello star system il Green Carpet Challenge fece un’ottimo lavoro. Da quei giorni i protagonisti del comparto del lusso che con collezioni capsule di abiti o accessori strizzano l’occhio alla moda green non si contano. Quasi tutti i brand del settore, in un modo o nell’altro, si sono misurati, a livello di prodotto, di campagne pubblicitarie e di etica produttiva, con la sfida della sostenibilità. Anche se è vero che in alcuni casi era evidente l’intenzione di sfruttare l’interesse crescente da parte del pubblico per fornirsi un’aura etica sostanzialmente fasulla dal punto di vista pratico, credo si possa sostenere che i casi di greenwashing, perpetrati in modo cinico, nel settore moda siano stati sostanzialmente irrilevanti rispetto alle adesioni forti e pro-attive a programmi e/o progetti ecologici. Da citare assolutamente, perché animati da un alone di romantica autenticità al sopra di ogni sospetto, sono gli innumerevoli interventi creativi in versione eco di Vivienne Westwood, il cui impegno etico comincia negli anni novanta del novecento. L’ultimo suo progetto che ricordo in ordine di tempo era rappresentato da una piccola collezione di borse e accessori battezzata “Ethical Fashion Africa”, realizzata da centinaia di artigiane keniote usando come materiali cavi elettrici, alluminio di scarto, vecchi cartelloni pubblicitari, logore tende da safari. Un’altra stilista british da anni impegnatissima su questo fronte è Stella McCartney. Vegetariana da sempre, nelle sue collezioni dominano borse e calzature realizzate in pelle ecologica e nel business, racconta il suo ufficio stampa, preferisce interagire con soggetti economici che investono parte dei propri ricavi in fonti energetiche pulite. Anni fa, incuriosito dal green design di Stella McCartney acquistai i suoi occhiali da sole eco sostenibili (costavano quasi il doppio di un buon occhiale di marca). In che senso li si poteva dichiarare tali? La responsabile del punto vendita alla quale posi la domanda quasi si vergognava delle anoressiche e sgangherate frasi che poteva offrirmi. Allora cercai informazioni nel web e scoprii che il materiale più usato per realizzarli era la bio plastica iniettata che contiene il 54% di olio di semi di ricino. Dal quel che mi è dato capire quegli occhiali si dichiaravano sostenibili poiché le piante di ricino utilizzate per produrli erano OGM free. Inoltre, prevedendo la scontata obiezione del ropicoglioni negazionista di turno, basata sul fatto che di solito le varietà naturali hanno meno resa rispetto le OMG e quindi necessitano di più terreno finendo con consumare più acqua e più energia, l’efficiente ufficio stampa della stilista dicevo, a suo tempo aveva diffuso la notizia che le piante di ricino crescono su suoli poveri in aree semiaride e che quindi necessitano di pochissima acqua e nessun pesticida. Insomma con Stella McCartney non si scherza. La sua adesione alla causa green è da sempre seria, duratura e coerente.
Fig.4- Look (A/I 2016-17) in stile vegano della stilista Raffaella D’Angelo presentato alle sfilate milanesi di qualche anno addietro.
Ma anche creativi e marche lontane dal romanticismo ecologico delle due stiliste britanniche, oltre alle adesioni etiche sulla trasparenza e correttezza morale dei rapporti di produzione, sperimentavano la sostenibilità a livello di prodotto moda. Frida Giannini quando era l’art director di Gucci presentava regolarmente prodotti sostenibili come le scarpe eco-friendly (ballerine in plastica biodegradabile). Quando la coppia Bizzarri/ Alessandro Michele fu chiamata al comando strategico della marca, rafforzarono l’impronta green dell’immaginario Gucci e diedero il via a numerose iniziative per la sostenibilitù. In un modo o nell’altro tutti i grandi brand programmarono una svolta nell’identà di marca orientata a valorizzare l’etica eco. Uno dei primi interventi creativi in chiave sostenibile di Ferragamo aveva come oggetto borse ecologiche. Alberta Ferretti insieme all’attrice Emma Watson, nel tempo in cui forse era più famosa tra il pubblico giovanile con l’orrendo nome di Hermione, la protagonista della saga di Harry Potter, creò un piccola collezione di abiti eco andata subito esaurita.
Oltre alle iniziative delle grandi marche della moda anche molte famose singolarità dello Star system del cinema e della musica sono entrate dalla porta principale creata da Livia Giuggioli-Firth metacomunicando significazioni certamente non banali su come praticare la sostenibilità. Per farmi intendere citerò solo qualche recente esempio: al Festival del Cinema di Venezia del 2023, Amal Clooney si fece vedere e fotografare insieme al marito George, indossando un abito Dior di John Galliano della collezione che lo stilista presentò nel 2000; l’attrice Sidney Sweeney nel party organizzato da Vanity Fair nel corso della cerimonia degli Oscar 2024 indossò un abito da sera dello stilista Marc Bower che era già stato indossato da Angelina Jolie agli Academy Awards di vent’anni prima; nel corso della stessa manifestazione anche Margot Robbie, si presentò con un corpetto e gonna che Terry Mugler aveva creato nel 1996; l’attrice Zendaya alla serata Naacp del 2023 fu una delle star più ammirate e di certo non passò inosservato il completo bianco della collezione Prada del 1993; Miley Cyrus al Grammy 2024 si esibì indossando un abito a frange metallizzate che era stato creato negli anni settanta del novecento dal costumista Bob Mackle forse ispirato dal grande Paco Rabanne; Claudia Shiffer alla settimana della moda di Milano esibì una minigonna dorata creata da Versace nel 1994; Nicole Kidman affascinò tutti i partecipanti al Met Gala 2023 con uno stupendo Dior del 2004…A questo punto avrete senz’altro capito dove voglio andare a parare e ritengo inutile aggiungere altri esempi. Il lettore curioso o interessato può rivolgersi al podcast “Pre-Loved” di Emily Stochl, divenuta una vera e propria esperta di moda second hand. Nel suo profilo social, l’attivista eco, educatrice e scrittrice, documenta da anni con insolita precisione ogni apparizione pubblica dei personaggi famosi che indossano abiti di seconda mano. In questa sede io sono interessato a ragionare sulle conseguenze o sui probabili effetti di queste scelte. E’ chiaro che non possiamo riportare il senso di tutto il riciclo al concetto di Vintage di valenza storica, operativo da oltre mezzo secolo (negli anni sessanta creativi come Ossie Clarck, Walter Albini, Biba, solo per fare qualche nome, citavano in continuazione gli anni venti/trenta e oltre ad ispirarsi ai look di quel periodo per le loro creazioni, stimolarono tanti consumatori ad esplorare con più attenzione i mercatini dell’usato). Quel Vintage, dal punto di vista motivazionali, aveva ben poco di ecologico; era semplicemente un modo di dare consistenza storica alla creatività e/o di suggerire alla gente un modo concreto e semplice di essere protagonisti nella stilizzazione delle proprie apparenze. È solo quando il paradigma ecologico diviene ineludibile se non dominante, che il concetto di seconda mano focalizza la questione del riciclo degli abiti, suggerendo pratiche anti-spreco subito contornate da un’aura etica. Comunque, mi ripeto forse, dal punto di vista del potenziale estetico il vintage, da quando la moda si è democratizzata, è sempre stato presente nella vita della gente anche come pratica anti-spreco. Ricordo che da adolescente il primo capo di abbigliamento che mi fece percepire intorno a me attenzioni alle quali non ero abituato, fu un vecchio cappotto inglese in solido tweed di mio zio che mia madre abile sarta con un piccolo intervento riadattò. Nessuno dei miei amici aveva un capo simile e posso aggiungere che probabilmente mi invidiavano. Ma purtroppo non avevo l’appeal di un divo del cinema e quindi non cambiai affatto le loro abitudini. Questo apologo autobiografico mi permette di arrivare al punto. La star che sceglie di indossare l’abito di seconda mano in eventi pubblici e di grande risonanza mediatica evidentemente non può evitare di rivolgersi a capi prestigiosi, di lusso. Appartiene alla logica della situazione che difenda la propria unicità o distinzione. La massa dei consumatori di certo non può concretamente imitare le scelte green di una star. Gli abiti vintage estremamente qualitativi (abiti couture), sono rari e costosi. Ma tuttavia, dobbiamo partire dal fatto che è molto più importante dell’oggetto moda, il messaggio etico trasmesso a tutti i pubblici che intercettano nei Web, in TV, sui magazine, queste messe in scena di una identità responsabile. Possiamo considerala solo come una tendenza dello star system, ammantata di furbizia, per abbindolare un pubblico divenuto sensibile per la causa ambientale? I sospetti sono legittimi, ma è innegabile che senza l’intervento di personaggi famosi, difficilmente il paradigma della sostenibilità avrebbe raggiunto il vasto pubblico così velocemente.
Come ho già ricordato, molti brand della moda sono scesi in campo per dare sostanza agli appelli per la sostenibilità. Ancora una volta devo ricordarvi che mi riesce difficile enumerare tutte le iniziative che a cascata sono state riversate sul largo pubblico, per la verità sinora molto disponibile a partecipare allo spettacolo della Green Identity quanto poco propenso ad aderire fattualmente in massa a consumi più responsabili. Comunque, per citare un esempio virtuoso, la holding OTB di Renzo Rosso, senza troppo clamore, in pochi anni ha ridotto del 20% le emissioni prodotte dalla loro attività, aumentando la quota di approvvigionamento di materiali a basso impatto e utilizzando fonti energetiche rinnovabili (che costano il 12% in più delle tradizionali). Secondo Renzo Rosso la sua holding dovrebbe raggiungere zero emissioni intorno al 2050. Un efficace bilancio di sostenibilità implica investimenti di milioni di euro ogni anno. Non si rischia così di favorire chi cinicamente continua nella ricerca del massimo profitto? Il leader di OTP, come sempre coerente con la sua massima Be Stupid, suggerisce una soluzione molto semplice da comprendere quanto efficace: tassiamo di più i brand che inquinano, non hanno un bilancio di sostenibilità o che non lo rispettano.
Fig.5- Gisela Bündchen riceve l’Eco Laureate Award nel Green Carpet Fashion Award alle sfilate milanesi, indossando un abito di Stella McCartney in viscosa sostenibile.
Tra i protagonisti della moda sostenibile, nel mio personale Olimpo, colloco altri due eroi della sostenibilità nella moda che mi hanno dato conforto e argomenti su cui riflettere. Il primo è il già citato Giorgio Armani, ma non solo per i suoi abiti Green o per le altre dimensioni eco che investono l’organizzazione della produzione dell’abbigliamento; bensì per le lucide parole con le quali affronta spesso l’argomento nelle numerose interviste che ho avuto agio di incrociare. Per farvi capire, in questa sede, prendo come esempio una citazione tratta dalla sua autobiografia intitolata “Per amore” (Rizzoli,2022): “…non si può scindere in alcun modo l’etica dall’estetica. In particolare, non si può produrre il bello a scapito del pianeta che abitiamo, che è uno e che dovremmo consegnare il più possibile intatto alle generazioni che seguiranno…L’attenzione per l’ambiente è stata sempre forte in me, ma trasformare tutto ciò in un modo di fare business nella moda, a trecentosessanta gradi, è stato un percorso che ho intrapreso, con grande passione e dedizione, relativamente di recente, un po’ come tutti, Penso che la coscienza ambientale sia il movimento di pensiero più forte emerso negli ultimi anni…È un percorso vitale e coinvolgente che arriva dal basso e in particolare dai giovani, travolgendo l’intera società e costringendo tutti ad aprire gli occhi…Per quel che mi riguarda sto rendendo il più possibile responsabile ogni aspetto del mondo Armani…Il processo di miglioramento a cui miro passa attraverso la catena produttiva, il coinvolgimento dei fornitori, la scelta delle materie prime, ma anche l’organizzazione degli eventi…Mi rendo anche conto che il rischio nel nostro sistema, improntato alla comunicazione, sia quello di non far seguire sempre alle parole i fatti. Per questo non ho soluzioni generali, ma solo soluzioni personali. Nel mio gruppo una divisione sostenibile è all’opera in maniera rigorosa e trasversale a ogni branca, ogni aspetto, non ultimo quello che riguarda la filosofia dello stile e del vivere”. Le parole di Armani mettono chiaramente in stretta relazione la sostenibilità con l’assunzione di inedite responsabilità e, quando lessi la sua autobiografia, il mio pensiero andò subito a Hans Jonas, in particolare al suo libro più famoso ovvero “Il principio di responsabilità”, apparso nel 1979 (tradotto da Einaudi). La riflessione sull’etica del filosofo tedesco, motivata dalle conseguenze dell’insensata applicazione della tecnologia su tutti gli aspetti della vita si estendeva anche all’ecologia, molti anni prima che emergesse la parola/narrazione “sostenibilità”. Sono convinto che Giorgio Armani come uomo sottoscriverebbe l’imperativo categorico implicito nel principio di responsabilità proposto a suo tempo da Hans Jonas con queste parole: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”. Ma la lunga citazione del nostro più grande stilista dice anche altro: ammette la difficoltà di allineare business e sostenibilità, riconosce la difficoltà nel passare dalle parole ai fatti e parla dell’importanza dei piccoli inizi. Infatti, dopo Jonas le sue parole mi hanno rimandato ad uno dei miei fotografi preferiti ovvero a Sebastiaõ Salgado; non ai suoi straordinari reportage sul lavoro degli ultimi, sull’orrore delle guerre, sulla distruzione del pianeta da parte dell’uomo, immagini importantissime che hanno scosso e la coscienza di milioni di persone…Non a questo, ma all’idea di piantare insieme alla moglie poche centinaia di piante, quasi tutte subito morte, per poi riprovarci una volta e poi un’altra ancora, ed ecco che nel breve battito di pochi anni materializzarsi la rinascita della Mata atlantica su centinaia di ettari. Qual’è la massima morale che traggo da Armani e Salgado? Da piccoli inizi possono nascere grandi cose. Per quanto riguarda invece l’allineamento tra riconfigurazione Green del processo produttivo e logiche del business, il discorso sui piccoli inizi lascia uno spazio aperto a molte ambiguità. Occorrono scelte coraggiose, radicali e costose. Nello spazio dell’ambiguità invece, scivoleranno parecchi protagonisti del fashion. Ma di questo parlerò più avanti.
Ora permettetemi di presentarvi il secondo degli eroi della sostenibilità Made in Italy ovvero Brunello Cuccinelli, creatore del performante brand della moda che porta il suo nome, divenuto uno degli esempi di capitalismo umanistico più coerenti ed efficaci del pianeta. Pensate che esageri? Lo ammetto sono di parte, ma tuttavia vi suggerisco di leggere l’ultimo libro scritto dallo stilista/imprenditore/filosofo intitolato “Il sogno di Solomeo” (Feltrinelli,2018) dal quale emerge in modo suggestivo l’idea di un ordine interiore al soggetto (primo fra tutti il Brunello Cuccinelli uomo) che annoda l’istanza del profitto d’impresa, l’efficienza del lavoro con una dimensione etica rispettosa della dignità delle persone e dell’ambiente nel quale vivono. Agli scettici che ritengono la visione virtuosa dell’autore una platonizzazione dei reali processi vitali, suggerisco la visita al Borgo di Solomeo, magnificamente restaurato, dal Castello alla periferia, grazie ai soldi dell’azienda. Anche senza aver letto J.J.Gibson (Ecologia della percezione) scommetto che non potranno evitare di percepire le affordances di bellezza e armonia che il borgo trasmette al punto da creare una immediata liason con il sentimento del buono e del giusto. Comunque ci tengo a precisare che aldilà del mio interesse per il pensiero filosofico di Brunello Cuccinelli e della suggestiva bellezza del Borgo di Solomeo, la mia alta considerazione del brand in relazione all’argomento centrale di questo script, discende dalla lettura attenta del Bilancio di sostenibilità dell’azienda che per quanto mi riguarda mi è parso un pertinente modello di gestione del capitalismo umanistico promosso e praticato dallo stilista, orientato ad allineare il necessario pragmatismo senza il quale nessuna azienda potrebbe sopravvivere in un mercato competitivo, con i valori di un umanesimo sostenibile.
Per quanto riguarda la fascia di pubblico che matura i propri comportamenti soprattutto interagendo nel web, mi piace ricordare che un segnale significativo del progressivo aumento di una clientela eco-responsabile discese dalla scelta di Yoox.com, il sito web dell’e-commerce modaiolo con clienti in tutto il mondo, di creare una versione eco-frendly chiamata Yooxygen.com, con in vendita prodotti e collezioni di stilisti attenti all’ambiente. Il protagonista di questa svolta nella rete che tentava di fondere l’etica della sostenibilità con l’interazione commericiale degli internauti sensibili alla moda fu Federico Marchetti, uno dei più brillanti ed efficaci imprenditori della sua generazione, la cui adesione alla causa ambientale si rivelò coerente e duratura. Quando decise di uscire da Net-à-porter (che nel frattempo aveva assorbito Yoox nominando Marchetti A.D.) entrò da protagonista nella Task Force creata da Re Carlo III per battersi in difesa del paradigma della sostenibilità nella moda che, ricordiamolo, è uno dei comparti industriali più inquinanti del pianeta. Penso che le sue idee sul come rendere sinergico il rapporto tra innovazione e ambiente gli abbiano assicurato una posizione di rilievo presso la Commissione Europea e Re Carlo III d’Inghilterra, soprattutto nella configurazione del “passaporto digitale” ovvero un certificato virtuale che notifica ogni passaggio che porta un prodotto dalla produzione all’uso. A più riprese Marchetti ha sostenuto che questa sia la vera svolta per dare concretezza ad ogni discorso sulla sostenibilità. Quali sono gli effetti e o le conseguenze pratiche del passaporto digitale? Se nell’etichetta del prodotto posso leggere la storia dell’oggetto, dalle condizioni sociali di produzione alla sostanza materiale utilizzata, allora ogni alibi per le anime belle viene a cadere e al suo posto può collocarsi la consapevolezza dell’impatto che la mia scelta idividuale produce. Voglio aggiungere che con la “storia” dell’oggetto al posto dei contenuti di una etichetta ordinaria, la merce, un abito se volete, non è solo tracciabile o politicamente corretto, ma si introduce per la porta stretta che lo porta a contatto con la condizione umana. Da un certo punto in poi le merci hanno cominciato a parlarci e a farci sognare ovvero desiderare un in-più di tutto. Con il “passaporto” i loro discorsi quasi sempre menzogneri e le immagini che li trasformano in sogni, vengono bilanciati con verità fattuali che attivano la consapevolezza dei limiti che i nostri desideri devono darsi per far sì che la propensione alla bellezza e al piacere abbia sostanziali note etiche. Oltre alla storia di un abito il passaporto digitale di Federico Marchetti incorpora un tipo logico di istruzioni in questa fase fondamentali per l’uso responsabile di ciò che entra nel nostro guardaroba. Mi riferisco al come riciclare gli abiti che compriamo. E’ un problema serio, difficile da affrontare. Ma riciclare significa aumentare la longevità di un capo d’abbigliamento. Abiti che vivono di più nei guardaroba di milioni di consumatori sono una risposta concreta ai problemi che pone la sostenibilità.
Per concludere la mia riflessione sul “passaporto” ricordo al lettore che tutte le ricerche effettuate nel nome della sostenibilità documentano la prevalenza dell’interesse dei giovani su altri cluster di consumatori. Millennials e Generazione Z amano il digitale, mettono in gioco la loro sensibilità nel web, maturano le loro propensioni nei social. Ecco perchè personaggi come Marchetti hanno un ruolo decisivo per focalizzare la sostenibilità presso un tipo di pubblico strategico per raggiungere la svolta più volte evocata, e anche per orientare le scelte operative del web marketing di tantissime aziende.
Allora, la moda sta facendo la sua bio rivoluzione?
Sembrerebbe di sì, soprattutto a livello degli immaginari creati dalla moda; ma dobbiamo fare delle distinzioni. Per quanto riguarda la sostenibilità ecologica, il gran numero di iniziative dei brand della moda parlano da sole. Anche se risulta difficile per l’opinione pubblica verificare step by step l’efficienza/efficacia dei progetti, conviene a tutti crederci, per motivare i brand ad impegnarsi sempre di più e per stimolare quelli meno sensibili almeno a provarci. Come ho fatto intendere sopra, sul fronte delle narrazioni e degli eventi, non si può che inchinarsi di fronte al grande investimento di risorse messo in campo dai protagonisti della moda per divulgare messaggi che in un modo o nell’altro evocano il tema in oggetto. Le criticità appaiono quando si plana sulla sostenibilità economica e sociale, la quale, pur avendo obiettivi diversi da quelli ecologici è strettamente correlata al paradigma del cambiamento climatico. Infatti, le dimensioni etiche dell’agire aziendale sono l’altra faccia della medesima moneta che chiamiamo sostenibilità. Non è ragionevole separarle. Ovvero, non è possibile essere credibili se agiamo, cinicamente o come dei sonnambuli, degradando da un lato la dignità delle persone costringendole a vivere e lavorare in condizioni precarie, per poi, in un secondo tempo, ripulirci la coscienza con campagne o investimenti di risorse su questioni “Green”. E purtroppo, devo aggiungere, le pratiche organizzative inappropriate dal punto di vista etico, sembrano molto più frequenti di quanto risulti possibile immaginare, sovrastati come siamo dal meraviglioso e pirotecnico advertising modaiolo. Azioni palesemente riprovevoli coinvolgono spesso brand di prima grandezza. Non sto a descrivervi lo scoramento che ho provato quando sono stato messo a confronto con la notizia che la Giorgio Armani operations spa, controllata dalla Giorgio Armani spa, era stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria dal tribunale di Milano, con l’accusa di sfruttamento del lavoro e altre nefandezze. Naturalmente sapevo benissimo che si trattava del solito gioco di appalti tali per cui alla fine si delega la produzione ad aziende semi abusive che schiavizzano i lavoratori nel più totale degrado ambientale. La Giorgio Armani spa, probabilmente si era rivelata incapace di prevenire e/o arginare probabili effetti di sfruttamento che discendevano da deleghe produttive valutate solo per la loro convenienza economica. Una parte di me rifiutava di pensare che Giorgio Armani come stilista, imprenditore e persona, fosse in qualche modo coinvolto. E a dire il vero, non risultava che l’azienda madre fosse indagata. Un’altra parte di me, tuttavia, mi suggeriva che se la cronaca giudiziaria accusava una sua azienda satellite di sfruttamento e altri reati, allora, non solo qualcosa negli appalti non aveva funzionato, ma anche che tutte le dichiarazioni, promesse, iniziative etiche del brand potevano essere poco più di studiate menzogne. Cosa succede quando notizie negative entrano in tensione con quelle positive? Numerosi neuroscienziati ritengono dimostrato dalle tecniche di indagine effettuate con la risonanza magnetica che le notizie che causano percezioni negative vengono elaborate dal nostro cervello con un’intensità e una localizzazione diverse rispetto alle notizie positive. Inoltre portano a livelli più alti l’attenzione e hanno maggiore propensione ad essere ricordate più a lungo. Detta in poche parole, le percezioni negative pesano di più, producono reazioni più forti di quelle positive e per cauterizzarle occorrono molti più segnali positivi di quelli che avevano prodotto negatività. Il medesimo problema della Giorgio Armani Operations ha visto coinvolta recentemente una società italiana di Dior (Holding LVMH). Secondo gli inquirenti, l’azienda non è stata capace di prevenire l’illegalità nel ciclo produttivo, nel quale venivano coinvolti opifici cinesi che sfruttavano lavoratori clandestini confinati in ambienti degradanti. Sulla stampa sono apparse informazioni sconcertanti: le borse venivano a costare a Dior 53 euro, per poi essere vendute nei negozi a 2600 euro. Come percepirà la gente questa tipologia di informazioni? Che correlazione possiamo prevedere possa crearsi tra le promesse etiche di un brand e il momento critico che lo presenta coinvolto in una realtà molto diversa? Lo abbiamo visto prima: svariate ricerche ci allertano sul fatto che siamo più sensibili alle negatività, rispetto alle positività, ovvero le sconfitte pesano di più delle vittorie. Ora la domanda è: quanto incidono notizie del genere sulla credibilità dei progetti di sostenibilità del brand? Dobbiamo veramente sorprenderci se rimane sempre troppo numerosa la platea di persone che reputano i proclami/progetti di sostenibilità della moda, poco più di un ipocrita greenwashing? Come risposta provvisoria alle domande possiamo immaginare che la negatività di cui vi ho presentato alcuni casi, ovvero brand che non rispettano il proprio mandato (trascurano la sostenibilità economica e sociale), oltre a fomentare pagamenti in nero, traffico di clandestini, degrado sociale e ambientale producano un bias cognitivo nelle persone che intercettano la notizia, con effetti tali da compromettere l’efficacia degli investimenti etici fatti nel nome della sostenibilità, divenuti di colpo percettivamente irrilevanti. Punto di arrivo provvisorio: la moda potrà realizzare la sua bio rivoluzione, eravamo partiti da questo ricordate?, solo quando alla sostenibilità ecologica aggiungerà il rispetto per le regole della sostenibilità economica e sociale, che possiamo certamente discutere cambiare, migliorare, aggiornare, ma non rimuovere.
A volte ci dimentichiamo che “moda” è solo una parola. Non esiste una cosa con quel nome. Esistono aziende che sono diventate dei brand, e delle forme o oggetti che ci fanno sentire degli individui, dei soggetti animati da desideri e passioni. Aziende e brand nascono e si sviluppano partendo da nicchie ecologiche, sociali e culturali, eterogenee. Secondo una ricerca condotta qualche anno or sono dall’Università Internazionale di Monaco (IUM) e organizzata da Marie-Cecilie Cervellon, Sandrine Ricord e Melena Hjerth, intitolata “Green in Fashion”, esisterebbe una profonda differenza tra il contesto anglosassone e il resto dell’Europa. Grazie ad un questionario centrato sulle motivazioni d’acquisto, le ricercatrici hanno in qualche modo misurato l’interesse dei consumatori per l’eco-moda, stabilendo che il pubblico anglo-americano in media è maggiormente predisposto alla sostenibilità rispetto al consumatore del vecchio continente. Perché? Direi che la risposta la possiamo abdurre dal differente impatto che hanno sul pubblico adesioni fortemente motivate e coerenti come quelle che ho descritto caratterizzare Vivienne Westwood e Stella McCartney, rispetto agli appelli ecologici estemporanei delle grandi marche del lusso francesi e italiane.
Certamente è importante che PPR (la seconda holding del lusso al mondo) abbia diffuso fin dal 2011 l’informazione che da quel momento al 2016 la produzione dei prodotti delle proprie griffe ridurranno l’impatto sull’ambiente del 25%. Così come non è certo banale che Gucci abbia dichiarato fin dal 2010 l’uso di imballaggi 100% riciclabili. Comunque sia, se prendiamo in considerazione gli investimenti finanziari, la dimensione bio per le grandi marche francesi ed italiane rappresenta ancora una piccola parte del proprio eterogeneo approccio marketing al mercato globale.
I produttori e designer americani e inglesi sembrano più determinati e convinti. Soprattutto tra i pubblici anglofoni funziona meglio la strategia basata sullo star system: coinvolgendo i grandi divi di Hollywood si influenza molto di più il consumatore rispetto a tanti proclami etici subito sommersi dal pirotecnico e spettacolare doping comunicazionale del fashion system.
Tuttavia della ricerca citata, malgrado risalga a una decina di anni or sono, mi ha incuriosito un dato per me significativo: gran parte degli intervistati sembra che non avesse chiaro il concetto di green fashion.
La correlazione di questo apparente paradosso con il successo della logica d’ingaggio dello star system citata sopra mi pare chiara: se uso l’immagine del divo per indurre un consumo etico, non desta alcuna sorpresa il fatto che poi il consumatore narcotizzi l’interesse per le informazioni di base che caratterizzano il prodotto acquistato. Il sogno del green sopravanza la percezione della sua reale consistenza. E’ chiaro che, come ho suggerito sopra, tra sogno e realtà possono imbricarsi tutte le astuzie che potete immaginare, che di verde non hanno proprio nulla. E infatti molti scettici nei confronti della svolta etica della moda, hanno evocato il già citato greenwashing ovvero hanno accusato i brand della moda di fare solo marketing e campagne pubblicitarie, programmando iniziative e messaggi sostanzialmente vuoti. Di conseguenza le narrazioni green si diffondono, diventano persino dominanti, ma non intaccano più di tanto lo stile di vita.
Fig.6- Immagine che mostra il funzionamento del Passaporto virtuale
Quindi in sintesi, si può sostenere che la moda farà la propria rivoluzione green quando non solo utilizzerà in modo dominante e ripetuto tutto il suo potenziale di comunicazione compreso l’uso dei grandi dello star system, per diffondere, per gradi se volete, la sensibilità al lato green della vita; ma anche quando riuscirà a far diventare di tendenza la piena consapevolezza della posta in gioco, ovvero il cambiamento dello stile di vita. Non ho niente contro espressioni divertenti e leggere come eco-friendly, green fashion etc., di innegabile appeal discorsivo ma con insufficienti riscontri pratici sullo stato dei consumi. A tal riguardo mi piace ricordarvi che un cambiamento a livello di disposizioni individuali significa deviare gli assunti del senso comune a livello percettivo e che le nostre percezioni non coincidono con il nome che diamo alle esperienze o ai fatti che ci coinvolgono.
Dunque piena consapevolezza significa certo un incremento di conoscenza, un approccio critico sulle nostre scelte, un impegno pratico; ma significa anche un affinamento delle percezioni che orientano le nostre vite, comprese le speranze e le idee sul futuro. E, oggi, la prima critica andrebbe rivolta ai troppo scontati vangeli green, troppo propensi a sopravalutare il potere delle parole. La seconda, al tipico modo del settore moda di delegare ad una vertigine di immagini il proprio contributo alla causa ecologica. I cognitivisti classici e i neuroscienziati ci dicono che la nostra mente funziona grazie a “rappresentazioni mentali” che possono essere indagate come immagini o come enunciati. Il confronto tra queste due forme della rappresentazione, quale sia la dominante, è molto controverso. Ma, aldilà delle tensioni tra teorie divergenti, è importante ricordare che con entrambe le dimensioni della rappresentazione spesso ci sbagliamo. Non si tratta dunque di negarne l’incidenza ma di riportarle puntualmente a fatti, a problemi condivisi, a progetti misurabili, controllabili anche dalla gente, per permetterci di valutare la loro congruenza, consistenza e verità, affinché risultino convincenti aldilà della loro immagine oppure, se troppi fragili o addirittura ingannevoli, in qualche modo sanzionabili.
Riuscirà dunque la moda green a sopravvivere alla domanda imbarazzante: possiamo vestire il mondo (9 miliardi di persone) con l’attuale modo di concepire il biologico e la natura? Ancora, non conviene porre la sostenibilità in una relazione di confronto critico e non di conflitto con il modo industriale di organizzare i nostri guardaroba? Come coinvolgere altri attori della filiera moda come le decine di migliaia di punti vendita indipendenti, impossibilitati ad agire come le grandi marche, ma anche a contatto diretto con un considerevole numero di clienti? E soprattutto: come riuscieremo a trasformare in profondità la percezione della gente dal momento che il solo effetto immagine ha mostrato i suoi limiti?
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Tutto l’articolo che non ho nemmeno finito perché non se ne può più di tutto questo blaterare sulla sostenibilità, si basa sull’idea che la crisi ecologica sia colpa dell’uomo. Come mai ci sono tanti scienziati che dicono di no che non è vero? Perché si evita di prendere in considerazione un mutamento del clima causato dai normali cicli metereologici che non dipendono da noi? Quando parlo di queste cose mi danno del negazionista e invece che farmi capire il perché non dovremmo lasciare le cose come sono continuano a dirmi che sono un negazionista come dei grilli parlanti. Il passaporto virtuale è una buffonata. Viola privacy delle aziende che hanno il diritto di mantenere riservate le informazioni che non c’entrano nulla con le caratteristiche del prodotto. L’autore si chiede come vestire il mondo? una cosa è sicura: il green al massimo vestirà qualche milione di presuntuosi personaggi che vogliono essere una elite sbandierando argomenti che producono paura nei cittadini. Il mondo lo sta vestendo l’industria producendo abiti al giusto prezzo.
Sì Giacomo è un negazionista e con i negazionisti è inutile parlare. A cosa serve discutere con uno che mette in discussione il bisogno per la moda di produrre senza inquinare? Il passaporto digitale è fondamentale dovrebbe essere obbligatorio. Io ho il diritto di sapere tutto di come viene prodotta la merce che compro.
Giusto, inutile parlare con un negazionista. E’ come un fondamentalista religioso. Non lo smuovi. Come si fa oggi a non sapere che l’industria dell’abbigliamento inquina tantissimo? Come si fa a negarlo? Io sono per togliere la parola sui media ai negazionisti. Ci vorrebbe una legge come già esiste credo contro il negazionismo di stampo nazista sullo sterminio degli ebrei. Non puoi negare la realtà per fare propaganda alle tue idee reazionarie. Io credo che un danno gravissimo lo facciano i giornalisti che per una assurda par condicio continuano ad invitare il Tv personaggi che per un atomo di notorietà fanno in bastian contrari senza nessun titolo. Per l’audience permettono di far circolare un sacco di discorsi che confondono i teleutenti. Sono d’accordo con Vincenzo cioè il passaporto è un nostro diritto come consumatori. Con il passaporto vestiamo il mondo? No! lo rendiamo semplicemente migliore.
La libertà di parola è sacrosanta. Per tutti, anche per i negazionisti dell’emergenza green. La moda fa benissimo a schierarsi, così dimostra che condivide le nostre preoccupazioni. A me la moda green piace e ho scoperto che H & M e altri produttori di fast fashion hanno molti prodotti green. E fanno anche molta pubblicità e iniziative green. Non è vero che sono i nemici della moda ecologica. Anzi senza la loro collaborazione come facciamo a vestire il mondo in modo sostenibile? Mi piace anche il “passaporto” di Marchetti. Antonio e Vincenzo hanno ragione è un diritto del consumatore e dovrebbe essere la normalità avere al posto della etichetta un codice che con l’ app del cellulare mi permette di capire la tracciabilità del prodotto e le altre info che lo caratterizzano. Vorrei aggiungere una considerazione. Per me sarebbe importante che i marchi più importanti facessero formazione green ai loro addetti alle vendite, per insegnarli a presentare i prodotti eco in modo credibile. Potrebbero diventare dei veri promoter per diffondere abiti sostenibili.
Grazie Lucia per aver ricordato a quei nazigreen di Antonio e Vincenzo i miei diritti costituzionali. Pensano di conoscere la realtà e chiudono gli occhi diventando marionette delle informazioni che ci propinano ogni giorno agenzie finanziate dai tanti Soros che hanno interesse a seminare paura di catastrofi. La moda ha sempre seguito le tendenze dell’opinione pubblica e la sua adesione alla sostenibilità lo dimostra. La chiamano etica ma è solo un allineamento con ciò che credono pensi la gente, per continuare a vendere.
Io Nazicosa !!! Chiedo alla redazione il permesso di insultare il negazionista Giacomo!
Mi associo! Anch’io lo voglio insultare
PERMESSO NEGATO! Ora non ho il tempo per intervenire. Lo farò al più presto. La questione del negazionismo è seria e merita di essere indagata.
La crescente consapevolezza della crisi climatica ha spinto molti settori, compreso quello della moda, a rivedere le proprie pratiche per abbracciare una via più sostenibile, come: utilizzare materiali sostenibili, adottare processi di produzione meno inquinanti e promuovere un’economia circolare che riduca gli sprechi; inoltre come già detto nell’articolo, per diffondere maggiormente questo messaggio diversi brand si affidano a celebrità e star promuovendo valori di sostenibilità.
Tuttavia, ad oggi, mi viene da dire che gran parte dei brand e star abbraccino queste iniziative non per un reale interesse ma per vendere più facilmente o per attirare più consensi da parte del pubblico.
Non si può non parlare di greenwashing, è semplice ingannare le persone con campagne pubblicitarie “sostenibili”, aggiungendo parole come: “cotone riciclato”, “naturale” e “sostenibile”, quando in realtà di sostenibile c’è ben poco perché utilizzano questi materiali riciclati in piccole quantità.
Diventa importante anche il saper leggere l’etichetta di un prodotto, infatti secondo un recente studio della Commissione Europea, il 39% delle etichette potrebbe essere falso o ingannevole.
È quindi essenziale, prima di acquistare un capo essere il più scrupolosi possibili, leggere attentamente l’etichetta, e cercare di non farsi ingannare da campagne pubblicitarie che non possiedono dei valori autentici.
Dato che è stato citato sopra in un altro commento, prendiamo come esempio H&M che ha lanciato una linea di nome “Conscious” con l’intenzione di promuovere la sostenibilità, (fatto già di per sé abbastanza ironico dato che usa una pratica di moda veloce e non sostenibile), che si rivelò poi non essere così tanto green, anzi non lo era affatto, dal momento che non era poi tanto diversa dagli altri prodotti H&M in commercio.
Ma questo avviene anche nei brand di lusso come Louis Vuitton, Prada, Gucci e tanti altri, che nonostante abbiano promosso progetti di sostenibilità, hanno ricevuto delle critiche riguardo la mancanza di trasparenza e dettagli concreti su come queste iniziative siano effettivamente implementate e monitorate.
Per quanto riguarda il mondo delle celebrità la prima persona che mi viene in mente per il suo impegno sincero come attivista ambientale è sicuramente Leonardo DiCaprio, che ha utilizzato la sua fama per sensibilizzare sull’argomento, dimostrando più e più volte tramite numerose iniziative il suo interesse verso queste problematiche.
Innumerevoli sono gli esempi: dalla Fondazione Leonardo DiCaprio, alla collaborazione con il marchio di calzature sostenibili Allbird, investitore di Rothy’s (un’azienda che produce calzature e accessori utilizzando plastica riciclata recuperata dagli oceani), e l’aver prodotto e partecipato a film che affrontano queste tematiche come “Before the Flood” e “The 11th Hour”. Questi film hanno contribuito a sensibilizzare il pubblico sulle problematiche ambientali e la necessità di adottare pratiche sostenibili in tutti i settori, inclusa la moda.
Per concludere, si può affermare che attualmente nel mondo fashion si siano fatti passi avanti rispetto al passato, ma che sicuramente si può fare di più.
I brand e le star hanno un ruolo significativo nell’influenzare le percezioni e le scelte dei consumatori, e questo potere dovrebbe essere utilizzato per promuovere un cambiamento reale e duraturo verso una moda più rispettosa dell’ambiente.
La moda sostenibile può continuare a sopravvivere e prosperare solo se si cambia il modo di concepire la produzione e il consumo, rendendo le persone più consapevoli e interessate sull’argomento, facendo delle scelte più responsabili su cosa comprare e indossare, e integrando sempre più pratiche sostenibili autentiche.
Apprezzo la lucida lettura di Anna che condivido al 100%.
Gli abiti sostenibili rappresentano un passo importante verso un futuro più ecologico e responsabile nell’industria della moda, in quanto essa è una delle più inquinanti al mondo. Gli abiti sostenibili, spesso realizzati con materiali organici o riciclati e processi produttivi meno inquinanti, riducono significativamente l’impatto ambientale; fibre naturali come il cotone biologico, il lino, e la canapa richiedono meno pesticidi e fertilizzanti. Materiali innovativi come il Tencel o il bambù offrono alternative sostenibili alle fibre sintetiche tradizionali; promuovere l’uso di abiti di seconda mano, il riciclo e l’upcycling aiuta a ridurre la quantità di rifiuti tessili che finiscono in discarica. Molte marche di moda sostenibile, infatti, si impegnano a garantire condizioni di lavoro eque per i lavoratori, contrastando lo sfruttamento e le pratiche non etiche comuni nell’industria della fast fashion. Gli abiti sostenibili sono spesso di qualità superiore e progettati per durare più a lungo, il che contrasta la cultura dell’usa e getta. Promuovere l’adozione di pratiche sostenibili nella moda è essenziale per ridurre l’impatto ambientale e migliorare le condizioni di lavoro nel settore. Di conseguenza, gli abiti sostenibili possono essere più costosi a causa dei materiali di alta qualità e delle pratiche di produzione etiche e questo può renderli meno accessibili a un ampio pubblico. Difatti, non tutte le persone hanno facile accesso a marchi di moda sostenibile, specialmente in aree meno urbanizzate. Inoltre, alcune aziende promuovono i loro prodotti come “sostenibili” senza realmente adottare pratiche ecologiche o etiche, ingannando i consumatori.Gli abiti sostenibili potrebbero effettivamente diventare predominanti nel mondo della moda, ma per raggiungere questo obiettivo è necessario un cambiamento coordinato tra consumatori, aziende e governi; la consapevolezza e l’educazione sono cruciali per promuovere l’adozione di abitudini di acquisto più sostenibili. Allo stesso tempo, le aziende devono continuare a innovare e migliorare la sostenibilità dei loro prodotti e processi.Per un vero cambiamento, è necessaria una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori, una migliore accessibilità e l’impegno delle aziende a evitare il greenwashing e a investire realmente in pratiche sostenibili.
L’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo, sia nella produzione che nello smaltimento. Il fast fashion, in particolare, è uno dei principali contributori a questo problema, in quanto alimentato da una mentalità consumista. Questa moda veloce produce (e di conseguenza getta) una quantità esponenziale di vestiti, grazie alla costante disponibilità di nuovi capi a prezzi bassi si tende ad acquistare più di quanto si abbia realmente bisogno. Poi, per non parlare della produzione tessile, che richiede molta acqua e terra, e di conseguenza anche i capi in fibre naturali hanno un impatto ambientale elevato. Nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e del suolo. Inoltre, è responsabile di più del 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile e del rilascio di microplastiche nei mari, soprattutto a causa dei lavaggi di indumenti sintetici.
A mio parere, la relazione tra sostenibilità e moda è simile a quella tra sostenibilità e autovetture: non siamo ancora pronti a sostenere un’economia del genere a livello globale. Non tutti ancora si possono permettere capi sostenibili (che avranno un prezzo maggiore), così come non tutti possono permettersi un’auto elettrica. È un paragone che fa sorridere, ma riflettendo, si capisce che è questo uno dei motivi che impedisce a certi settori di diventare completamente ecosostenibili. Infatti, ci sono brand che riescono ad esserlo e altri no, e questo dipende dal target di riferimento, dalle disponibilità economiche e dal periodo che stiamo vivendo. Pensiamo alla questione del buco nell’ozono: nei primi anni 2000 c’erano ancora in commercio prodotti contenenti sostanze che peggioravano questo problema. Non ricordo esattamente quali fossero tali sostanze, ma si riuscì a trovare alternative sostenibili ed economicamente accessibili, che permisero di sostituire quei prodotti senza alzarne il prezzo sul mercato, rallentando così l’ampliamento del fenomeno.
Cosa voglio dire con ciò? Credo pienamente nella moda sostenibile, ma non penso che tutti i brand siano pronti, stilisticamente ed economicamente parlando, a diventare 100% sostenibili.
Inoltre, non tutti i materiali sostenibili sono performanti come quelli sintetici. Ad esempio pensiamo ai tessuti termici: se sostituiamo una fibra in poliestere con una fibra naturale, il tessuto perderà in performatività. Nell’alta moda, intraprendere una scelta sostenibile, forse è più fattibile, ma nel ready-to-wear o nel prêt-à-porter, è ancora difficile diventare completamente ecosostenibili. Tuttavia, penso anche che l’ecosostenibilità risieda nelle piccole cose. Già il fatto di adottare uno stile di vita meno caratterizzato dall’acquisto impulsivo può incentivare la sostenibilità nella moda. Bisogna anche riconoscere che nel settore tessile sono stati fatti passi da gigante nella creazione di materiali alternativi più sostenibili. Quando dico questo, penso all’Orange Fiber, alla Muskin e alla lana di cane. Qualcosa che per alcuni può sembrare impensabile, ma che secondo me rappresenta i primi passi verso alternative plausibili, sia a livello economico che di sostenibilità.
Rendendosi conto della prossima ed attuale crisi climatica, molti settori, inclusa la moda, hanno preso atto a rivedere le proprie pratiche per adottare approcci più sostenibili, come l’uso di materiali ecologici, processi di produzione meno inquinanti e la promozione di un’economia circolare per ridurre gli sprechi. Inoltre, come menzionato nell’articolo, diversi brand si affidano a celebrità per promuovere valori di sostenibilità, anche se questa pratica è ricca di “nei”.
Infatti, al giorno d’oggi, molti brand e celebrità sembrano adottare queste iniziative più per incrementare le vendite o ottenere consenso dal pubblico che per un reale interesse per l’ambiente. Uno degli esempi più eclatanti è quello del fenomeno del greenwashing, infatti al giorno d’oggi è molto diffuso: è facile ingannare i consumatori con campagne pubblicitarie “sostenibili”, utilizzando termini come “cotone riciclato”, “naturale” e “sostenibile”, quando in realtà questi materiali sono utilizzati solo in piccole quantità rispetto a quello che è stato fatto credere in precedenza.
È fondamentale saper leggere l’etichetta dei prodotti per diventare dei consumatori e dei clienti consapevoli, riconoscendo un materiale sintetico da una fibra 100% naturale per esempio. Come dimostra uno studio in Europa, gran parte delle etichette potrebbero essere false o fuorvianti. Pertanto, è essenziale essere attenti prima di acquistare un capo, leggere accuratamente l’etichetta e non lasciarsi ingannare da campagne pubblicitarie che mancano di autenticità.
Mi viene in mente, un esempio lampante di greenwash, quello effettuato da uno dei tanti colossi del Fast Fashion, H&M, la quale ogni tanto lancia delle collezioni per promuovere la sostenibilità, promettendo di fornire ai clienti capi più sostenibili, quando di sostenibile hanno ben poco, infatti differiscono quasi di nulla dai capi ordinari venduti dal brand. Anche brand di lusso come Louis Vuitton e Prada nonostante promuovano progetti di sostenibilità, sono stati criticati per la mancanza di trasparenza e di dettagli concreti sull’implementazione e il monitoraggio di queste iniziative.
Per esempio una delle ultimissime novità è stata lanciata dal brand Guess, essa è l’AIRWASH per i capi in tessuto Denim, quindi i Jeans. Tutti noi sappiamo quanto la produzione di un solo capo di Jeans sia pesantemente inquinante, pertanto il brand ha inventato questa nuova tecnica dove l’acqua e la pietra pomice usata in enormi quantità, vada ad essere sostituita da aria e bolle al fine di ridurre lo spreco di acqua del tutto. Guess Airwash è il presente e il futuro del brand e del denim. I nuovi capi presentati a Pitti Immagine Uomo Firenze sono progettati con materiali organici e/o riciclati; viene quindi data nuova vita – e nuova immagine – a capi trasformati e rinnovati seguendo un’ottica contemporanea attenta a sostenibilità e autenticità.
Per finire, possiamo vedere che nel mondo della moda si sono fatti molti progressi rispetto al passato, ma c’è ancora molto lavoro duro da fare. Se le celebrità hanno cosi tanta influenza sulla moda, bisogna essere attenti doppiamente a ciò che loro ci propongono per i motivi spiegati in precedenza. Possiamo ancora parlare di moda sostenibile se si affronta il discorso di produzione e consumo, ma come questo deve accadere nella moda, deve accadere in qualsiasi altro settore che reca lesioni al nostro pianeta. Ciò deve essere autentico e non mimato. Scritto da Noemi Franchini LABA RIMINI Fashion design 3.
Riconoscendo la crisi climatica attuale e imminente, molti settori, tra cui la moda, hanno iniziato a rivedere le proprie pratiche per adottare metodi più sostenibili. Questi includono l’uso di materiali ecologici, processi produttivi meno inquinanti e la promozione di un’economia circolare per ridurre gli sprechi. Come menzionato nell’articolo, numerosi brand si avvalgono di celebrità per promuovere i valori di sostenibilità, nonostante questa pratica presenti diverse criticità.
Oggi, molti marchi e celebrità sembrano adottare queste iniziative più per aumentare le vendite o ottenere consenso dal pubblico che per un autentico interesse per l’ambiente. Un esempio evidente è il fenomeno del greenwashing, ormai molto diffuso: è facile ingannare i consumatori con campagne pubblicitarie “sostenibili”, usando termini come “cotone riciclato”, “naturale” e “sostenibile”, quando in realtà questi materiali sono utilizzati solo in piccole quantità rispetto a quanto dichiarato.
Diventa quindi fondamentale saper leggere le etichette dei prodotti per diventare consumatori consapevoli, capaci di distinguere un materiale sintetico da una fibra 100% naturale. Come dimostra uno studio europeo, molte etichette possono essere false o fuorvianti. È quindi essenziale fare attenzione prima di acquistare un capo, leggere accuratamente l’etichetta e non lasciarsi ingannare da campagne pubblicitarie prive di autenticità.
Un esempio lampante di greenwashing è quello praticato da H&M, un colosso del fast fashion, che periodicamente lancia collezioni dichiarate sostenibili, promettendo capi più ecologici che in realtà differiscono ben poco dai loro prodotti standard. Anche marchi di lusso come Louis Vuitton e Prada, nonostante promuovano progetti di sostenibilità, sono stati criticati per la mancanza di trasparenza e di dettagli concreti sull’implementazione e il monitoraggio di queste iniziative.
Recentemente, il brand Guess ha introdotto una nuova tecnica chiamata AIRWASH per i capi in denim, riducendo l’uso di acqua e pietra pomice mediante l’impiego di aria e bolle. Questo metodo innovativo mira a ridurre significativamente lo spreco d’acqua. I nuovi capi presentati a Pitti Immagine Uomo Firenze sono realizzati con materiali organici e/o riciclati, dando nuova vita a capi rinnovati con un approccio contemporaneo attento alla sostenibilità e autenticità.
In conclusione, nel mondo della moda sono stati fatti molti progressi rispetto al passato, ma resta ancora molto lavoro da fare. Considerata l’influenza delle celebrità sulla moda, è necessario essere doppiamente attenti a ciò che propongono, per i motivi già spiegati. Possiamo ancora parlare di moda sostenibile affrontando il tema della produzione e del consumo, ma questo cambiamento deve avvenire anche in tutti gli altri settori che danneggiano il nostro pianeta. Deve essere un cambiamento autentico e non solo di facciata.
Scritto da Noemi Franchini LABA RIMINI Fashion design 3.
Questo scritto offre un’analisi approfondita e articolata sul ruolo della moda nell’ambito della sostenibilità, esaminando sia le sfide che le opportunità legate all’integrazione di pratiche eco-friendly nel settore. L’autore evidenzia con chiarezza il cambiamento di prospettiva avvenuto nel tempo, passando da un’ideologia eco-friendly per pochi a una crescente consapevolezza e adozione di comportamenti sostenibili anche da parte del grande pubblico. Una delle questioni più interessanti sollevate riguarda il ruolo degli influencer e delle celebrità nella promozione della moda sostenibile. Attraverso esempi concreti di star che indossano abiti eco-friendly in eventi mediatici, viene evidenziato come il potere dell’immagine possa essere utilizzato per diffondere messaggi etici e sostenibili su larga scala. Tuttavia, sottolinea anche il rischio che tale approccio possa creare un’illusione di sostenibilità senza affrontare veramente la questione. Inoltre, il testo discute le iniziative intraprese da marchi e imprenditori nel settore della moda per adottare pratiche più sostenibili, citando esempi di aziende che riducono le emissioni e utilizzano materiali riciclati. Si sottolinea l’importanza della trasparenza e della tracciabilità nella filiera di produzione, evidenziando come strumenti come il “passaporto digitale” possano contribuire a sensibilizzare i consumatori sulle implicazioni ambientali dei loro acquisti. Personalmente, trovo che l’articolo fornisca una visione approfondita e articolata della complessa intersezione tra moda e sostenibilità. Apprezzo la varietà di prospettive presentate, dalla partecipazione delle celebrità all’impatto delle iniziative aziendali, che offrono una panoramica completa delle sfide e delle opportunità nel settore della moda sostenibile.
Tuttavia, sarebbe interessante esplorare ulteriormente come coinvolgere e educare i consumatori sulla sostenibilità in modo più efficace, andando oltre l’attrazione per le celebrità e puntando su una vera comprensione delle questioni ambientali e sociali legate alla produzione di abbigliamento. Inoltre, sarebbe importante esaminare come garantire che le pratiche sostenibili siano effettivamente adottate e non solo utilizzate per creare un’immagine di marca positiva. In definitiva, l’articolo offre un solido punto di partenza per riflettere sul futuro della moda sostenibile e sulle strategie necessarie per promuoverla in modo autentico e significativo.
L’industria dell’abbigliamento è notoriamente una delle più inquinanti al mondo, responsabile di enormi quantità di rifiuti, emissioni di CO2 e uso intensivo di risorse idriche. La produzione di abbigliamento coinvolge spesso processi chimici dannosi e una logistica complessa che contribuisce all’inquinamento globale. Tuttavia, negli ultimi anni, si è assistito a un’evoluzione significativa verso la sostenibilità, grazie all’adozione di pratiche più eco-friendly da parte di diversi brand, sia di lusso che mainstream. Prendiamo ad esempio Golden Goose, noto per le sue sneakers di lusso. Questo brand ha iniziato a introdurre pratiche più sostenibili nella sua produzione, come l’uso di materiali riciclati e la promozione della durabilità dei suoi prodotti; proprio quest’anno ha lanciato la sua prima sneakers totalmente green, anche per quanto riguarda l’origine del pellame. Nonostante ciò, rimane la critica che l’accessibilità di tali prodotti è limitata a una fascia di consumatori con un alto potere d’acquisto, il che solleva la questione se il lusso sostenibile possa davvero avere un impatto significativo a livello globale. Dall’altra parte dello spettro, H&M rappresenta un caso interessante di un grande marchio fast fashion che cerca di integrarsi nel movimento della sostenibilità. H&M ha lanciato diverse iniziative, come la collezione “Conscious” che utilizza materiali riciclati e biologici, e programmi di riciclo dei vestiti usati. Tuttavia, nonostante questi sforzi, il modello di business stesso del fast fashion, basato su produzioni di massa e cicli di moda rapidissimi, rimane intrinsecamente insostenibile. La velocità con cui vengono prodotte e scartate le collezioni contribuisce in modo significativo all’inquinamento e al problema dei rifiuti tessili. La vera sfida per l’industria dell’abbigliamento sarà dunque trovare un equilibrio tra sostenibilità e accessibilità. Mentre i brand di lusso possono permettersi di innovare e sperimentare con materiali eco-friendly e tecniche di produzione, i grandi marchi di fast fashion devono affrontare la necessità di cambiare radicalmente il loro modello di business per ridurre l’impatto ambientale. Questo potrebbe significare produrre meno capi di alta qualità, incoraggiare il riuso e il riciclo, e educare i consumatori sui benefici di una moda più sostenibile. La domanda se gli abiti sostenibili vestiranno il mondo porta a riflettere su un futuro possibile ma ancora da costruire. Perché gli abiti sostenibili possano davvero vestire il mondo, è necessario un impegno concertato da parte di tutti gli attori coinvolti, dai designer ai produttori, dai governi ai consumatori. Le politiche governative possono incentivare pratiche più responsabili, mentre le campagne di sensibilizzazione possono educare i consumatori sui benefici della moda sostenibile. Le collaborazioni tra aziende, ONG e istituzioni possono accelerare il cambiamento, rendendo la sostenibilità non solo un’opzione ma una norma. Per concludere, mentre la strada è ancora lunga e complessa, il potenziale per un futuro in cui gli abiti sostenibili vestono il mondo è reale e raggiungibile. È una sfida ambiziosa che richiede innovazione, determinazione e una trasformazione del nostro modo di pensare e consumare la moda. Solo attraverso un impegno collettivo possiamo sperare di vedere un mondo in cui la moda non solo risponde ai desideri estetici, ma anche alle esigenze del pianeta e delle future generazioni.
Se studiamo la parola in sé “sostenibilità, penseremmo a creare un mondo più green, con un impatto ambientale bassissimo, promuovendo condizioni di lavoro dignitose e sostenendo marchi che si impegnano a fare la differenza, sinonimi di alta qualità e durata. Ciò significherebbe che gli abiti dureranno più a lungo, riducendo la necessità di fare acquisti più frequenti e contribuendo a una riduzione dei rifiuti. Ma tutto ciò accade veramente? O è solo una facciata dei grandi marchi, stilisti e green carpet?
Io non sono un gran fanatico di mode, anzi non mi è mai interessato niente, perché ho sempre visto la moda solo come un “far vedere”, un mostrare la superiorità. E anche in questo caso, possiamo vedere la mia teoria. La faccenda green è solo una strategia di marketing, di vendite, di attirare la clientela. Ma crediamo veramente, che le grandi firme, pensino alla sostenibilità? Chi ci crede è solo un illuso. Ma la realtà è tutt’altra. Forse si, potrà essere una strategia che i grandi marchi possono attuare per un limitato periodo, ma poi pian piano svanisce. La sostenibilità non risiede solo nei materiali, o nella loro produzione, lavorazione, manodopera. Se si reputa davvero qualcosa green, deve essere in tutto il suo complesso.
Ho trovato conforto nel leggere gli interventi di Anna, Laura, Chiara, Noemi, Bianca e Elisa. Sono studentesse, giovani, sensibili all’etica della sostenibilità. Confermano le statistiche che indicano nelle nuove generazioni i soggetti più aperti e presenti di fronte ai problemi del mutamento climatico, in buona parte causato dall’uomo. Per contro, non mi aspettavo un intervento critico come quello proposto da Giacomo. I suoi argomenti ricalcano con ammirevole chiarezza il pensiero di una minoranza molto rumorosa e reattiva che nega le ragioni della crisi ecologica. Le statistiche a mia disposizione dicono che oltre il 90% delle persone che vivono nell’Occidente ricco e inquinante, riconosce come reale e serio l’attuale modificazione del clima causato dall’effetto serra. Chi si oppone a questo scenario sembrerebbe confinato in un 5/7%. Perché non si sono ancora estinti? Perché sembrano contare molto di più dell’insignificante soglia registrata dai sondaggi? Quali sono le argomentazioni dei negazioniti? L’approccio storico alla questione seguiva questo canovaccio: a, ci sono molti scienziati convinti che il cambiamento climatico non sia colpa dall’uomo; b. Ce ne sono altri che, bontà loro, all’inizio si dicono dubbiosi, dicono che forse sì abbiamo immerdato il pianeta, per poi terminare planando su un grottesco “tutto sommato, non è così pericoloso, anzi fa bene alla Natura”; c. Dulcis in fundo, per far incazzare definitivamente l’animo Green, arrivava il tocco fatalista ovvero “il clima è sempre stato così, capriccioso, instabile, imprevedibile”. Con la diffusione delle tematiche ecologiche tra l’opinione pubblica è poi intervenuta la polarizzazione ideologica; e allora il Green è diventato uno dei tratti dell’essere di sinistra, chi dubita o rimaneva incerto sul da farsi sic et simpliciter si è ritrovato ad essere di destra. Grande cazzata gestita ad arte da politici orfani del comunismo da un lato e da altri di segno opposto alla disperata ricerca di tematiche grazie alle quali dissimulare la loro volontà di potere strutturalmente anti-democratica. L’ecologia non è né di destra né di sinistra. È qualcosa che ci mette a confronto con i limiti delle condizioni di vita. La posta in gioco dovrebbe convincere tutti a mettere in primo piano scienza e verità. Ma l’attuale condizione umana non lo permette. La politica nasce e prospera in una zona grigia dove scienza e verità si perdono nelle nebbie di interessi divergenti. Nel nostro Paese la sostenibilità si è diffusa soprattutto tra i progressisti; la negazione delle emergenze ambientali è divenuto fin da subito un tema di destra. Ecco dunque intervenire nella ruvida retorica negazionista la figura del complottismo: il riscaldamento climatico sarebbe una congiura ordita dai Soros, Bill Gates etc, etc, per propinarci nuove regole, nuove tasse che favoriscono gli affari del capitalismo che ha bisogno di estendere il suo dominio ovunque sbarazzandosi delle tradizioni, dello spirito comunitario.…Alimentato dalle fake news nel web questa forma di negazionismo, ha trasformato le chiacchiere di pochi cinici imbecilli in ondeggianti bordate di dissenso contro le élite culturali, compresi gli scienziati del clima e dell’ecologia.
Ora, e a questo punto torno ai nostri commenti, non ho alcun dubbio sul fatto che l’intervento di Giacomo presenti tutte le argomentazioni retoriche negazioniste che vi ho presentato. È lecito chiedersi se Giacomo sia una persona deplorevolmente disinformata o molto furba, la furbizia degli stupidi voglio dire, la furbizia stupendamente contornate dalla “Terza Legge Fondamentale della stupidità” teorizzata dal prof. Cipolla che suona così: “Una persona stupida è una persona he causa dei danni a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita”. Mi spiego meglio. Immagino che Giacomo sia come tutti noi un essere umano (e non un avatar creato da algoritmi utilizzati da hacker russi per destabilizzare l’Occidente) e quindi cosciente dei limiti fisici della vita. La posta in gioco molto alta, dovrebbe convincerlo a tenere il massima considerazione ogni informazione che la riguardano, comprese quelle che provengono dalle persone che la studiano con rigore (li chiamiamo scienziati). Ebbene mi chiedo, come fanno i Giacomo a non sapere che, dopo brevi fasi di incertezza, oggi, la quasi totalità dei sapientoni specializzati nello studio dei parametri vitali delle nicchie ecologiche nelle quali possiamo vivere, concordano nel ritenerla seriamente compromessa dal modo di produrre e dallo stile di vita dell’uomo? Come fanno i Giacomo a non sapere che i pochi scienziati che si ostinano a negare le nostre responsabilità, non sono degli specialisti del clima e dei parametri vitali del pianeta e che quindi la loro opinione vale quanto quella del cameriere che mi prepara il caffè? Se osservo la questione da un’altro punto di vista, più che disinformati e stupidi i Giacomo sembrano subire la morsa di un comune destino psicologico: accarezzo dunque l’ipotesi che moltissimi negazionisti subiscano il dissonante trauma interiore che chiamiamo per l’appunto ‘dissonanza cognitiva”. Intorno alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, Leon Festinger ipotizzò che il conflitto di informazioni, dati, argomenti, convinzioni, valori può in molti casi generare nel soggetto un profondo disagio dal quale può uscire arroccandosi dietro a ciò che conferma le sue idee più profonde, le sua assunzioni. A questo punto l’idea è che in una situazione psicologica dissonante, il soggetto si orienti quasi esclusivamente sulle informazioni che confermano le sue abitudini, il suo stile di vita. E ovviamente detesti tutto quelle che lo fanno vacillare. Queste considerazioni ci aiutano a comprendere perché fake news astutamente fatte circolare nel web, possono il tempi brevi trasformare una minoranza, in un gruppo di persone capaci di destabilizzare vasti pubblici rendendoli aggressivi, rabbiosi, immuni a qualsiasi critica.
Voglio dire ancora una cosa a Giacomo: dovresti aggiornare la tua retorica…Oramai sono rimasti in pochi a credere alle stronzate del negazionismo storico. I maestri pifferai del post-negazionismo hanno capito che non funziona più attaccare scienziati e/o ignorare i loro dati, indignarsi per l’esito delle innumerevoli ricerche che confermano la progressiva perdita dell’omeostasi delle variabili del pianeta compatibili con la vita. Con una piroetta degna di un ballerino impegnato in un valzer macabro, oggi si dichiarano sensibili all’ecologia e quindi se la prendono con gli immigrati, colpevoli di snaturare l’ambiente; con i progressisti colpevoli di parlare della sostenibilità con un linguaggio lontano dai problemi della gente. Un giorno qualcuno mi spiegherà come sia possibile credere che il mutamento climatico possa essere affrontato, attenuato, disinnescato, difendendo i confini nazionali dalla minaccia di poveri cristi in fuga dalla povertà, dalle guerre. Sino ad allora mi sento autorizzato a pensare che il post-negazionismo rappresenti il trionfo del coglione, intossicato da pseudo certezze inerenti una ecologia fasulla, sfruttata con cinismo da personaggi che odiano la scienza, detestano i saperi utili alle verità che da sempre ci hanno fatto prosperare.
Sono sbalordito. Credevo che avesse scritto di non ingiuriare chi non la pensa come lei. Terza legge della stupidità di un tale che si chiama Cipolla, più ecologico di così! trionfo del coglione, piroette da ballerino macabro, certo che ne ha di cazzate, però come le dice bene! Vorrei aggiungere una cosa. Che gli immigrati siano praticamente una invasione non l’ho detto detto nel mio commento perché è una cosa che sanno tutti. Come diceva Nietzsche la pressione demografica di gente che non c’entra niente con la nostra tradizione porta degrado. Cosa c’è di sbagliato se si dice che il degrado portato da questi emigranti che nessuno vuole colpisce anche l’ambiente?
Il prof fa della letteratura. altro che ingiurie. Se posto quello che penso io, vedrai la differenza. Sul tema dell’immigrazione non hai tutti i torti, però li dobbiamo gestire e non demonizzare. Concludo dicendo che Nietzsche non ha mia parlato di immigrati, Citazione sbagliata.
Vorrei dire che non mi sorprende quello che sostiene Giacomo. Già i nazisti si appropriarono di Nietzsche. Oggi lo fanno certi negazionisti di destra per trovare giustificazioni al loro razzismo. Sono d’accordo con Vincenzo cioè che Nietzsche non hai mai parlato di immigrati, è solo una delle solite fake.
Credo che la pressione demografica, in contesto ottocentesco. sia un tema malthusiano e solo indirettamente riferibile a Nietzsche. Thomas Robert Malthus (1776-1834) era più che altro un economista. Il suo libro dedicato allo studio degli effetti demografici (Principle of population, 1798), fu un vero e proprio best seller. Malthus credeva di aver dimostrato che mentre il cibo a disposizione della gente cresce aritmeticamente, la popolazione aumenta con una progressione al quadrato. Quindi senza una opportuna politica demografica (controllo delle nascite), un dato contesto di vita sarebbe andato incontro a carestie e conflitti. Come ho già detto, le sue ricerche furono prese in seria considerazione dalle menti più brillanti. Ad esempio, non ci sono dubbi che il concetto di “lotta per la sopravvivenza” di C.Darwin fu ispirato anche dalla lettura di Malthus.
Per quanto riguarda Nietzsche, probabilmente durante la fase in cui il filosofo apprezzava Wagner (in seguito lo criticò duramente) ovvero si interessava del rapporto tra spirito tedesco e la terra dalla quale era emerso, probabilmente sono riscontrabili tracce malthusiane. Ogni comunitarismo vive con apprensione gli estranei, chiamiamoli pure immigrati. L’apprensione può trasformarsi facilmente in paura di perdere la propria purezza e in odio per chi mette in tensione tradizioni e modi di vita. È chiaro che queste idee possono facilmente essere usate oggi da imbecilli che decontestualizzandole ne fanno strumenti per perseguire i propri fini politici e culturali, ottusamente legati all’idea di una società chiusa da rigidi confini e sostanzialmente anti democratica. Non è inutile a questo punto sottolineare che una parte del pianeta vive e prospera in una società aperta, ovvero un modo di vivere che trova il suo equilibrio attraverso continui scambi con il mondo. Si scambiano merci e in linea di massima le persone sono libere di muoversi tra un paese l’altro. Incontriamo certamente congiunture che possono causare problemi. Le libertà si difendono con regole e regolazioni. L’immigrazione al di fuori delle regole può essere un problema, Dobbiamo senza dubbio imparare a regolare meglio i flussi in entrata e in uscita. Ma non si dovrebbe mai dimenticare che una società aperta è il migliore dei mondi possibili sin qui creati dagli esseri umani.
mi spiegate per favore cosa c’entra la pressione demografica, Nietsche, Maltus con la sostenibilità?
Sì non è chiara la faccenda dell’immigrazione che c’entra poco con la sostenibilità
E’ colpa di Giacomo il negazionista che ha fatto saltare il neurone al prof
Nessun neurone scoppiato. Leggetevi la parte finale del commento di Matteo Gobbi e provate a far funzionare i vostri di neuroni. Aggiungo che le deviazioni dal tema sono un correlato al problema di ciò che ho definito post-negazionismo.
La sostenibilità nella moda è un tema sempre più centrale e rilevante, riflettendo una crescente consapevolezza riguardo agli impatti ambientali e sociali dell’industria tessile. Questo settore, noto per il suo dinamismo e creatività, è anche uno dei maggiori che contribuisce all’inquinamento globale. L’adozione di pratiche sostenibili è diventata una necessità. Uno degli aspetti chiave della sostenibilità nella moda riguarda le materie prime, infatti fibre naturali, come il cotone, se non coltivate in modo sostenibile, richiedono enormi quantità di acqua e pesticidi. Le scelte più ecologiche possiamo ritrovarle nel cotone biologico, la canapa e il lino che hanno bisogno di meno risorse idriche e chimiche. Inoltre, l’innovazione tecnologica sta portando alla creazione di tessuti eco-friendly come il Tencel, ottenuto da cellulosa di legno, e le fibre riciclate. Un altro punto importante è la vita dei prodotti di moda infatti il fast fashion con il suo modello di produzione e consumo rapido genera una quantità immensa di rifiuti tessili. Per contrastare questo fenomeno, molte aziende stanno adottando modelli di economia circolare, che prevedono il riciclo e il riuso dei materiali. Marchi come Patagonia e Stella McCartney sono precursori in questo campo, promuovendo la longevità dei capi e la riduzione degli sprechi.
La trasparenza e la tracciabilità nella filiera produttiva sono altre componenti essenziali perché i consumatori e le aziende stanno diventando sempre più attenti alle condizioni di lavoro nelle fabbriche e all’origine dei materiali utilizzati, esistono per questo Iniziative come il Global Organic Textile Standard (GOTS)che aiutano a garantire che i prodotti siano realizzati rispettando criteri ambientali e sociali rigorosi.
Infine sensibilizzare i consumatori sui vantaggi della moda sostenibile può incoraggiare scelte di acquisto più responsabili come fa il movimento “slow fashion”, che promuove la qualità e la durabilità dei capi rispetto alla quantità, sfidando la cultura del consumo usa e getta.
L’articolo si concentra su un tema di grande rilevanza e attualità: l’evoluzione della moda sostenibile e il suo impatto sul consumo globale. Esplora la transizione dall’abbigliamento ecologico, inizialmente con design semplice e costi elevati, verso linee di prodotti più attraenti e accessibili grazie al coinvolgimento di grandi marchi e celebrità.
Una delle osservazioni principali è che, sebbene la sostenibilità nella moda non abbia ancora determinato una rivoluzione dei consumi su vasta scala, ha iniziato a cambiare le percezioni e le preferenze dei consumatori.
Sin dagli inizi del terzo millennio, l’abbigliamento eco-friendly era visto più come una nicchia di mercato per ambientalisti accaniti, spesso penalizzato da un’estetica naif e costi proibitivi. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, il settore della moda ha visto un cambiamento significativo. L’impegno di stilisti di fama mondiale come Stella McCartney e Giorgio Armani ha dato una nuova immagine alla moda sostenibile, trasformandola da semplice riciclaggio di materiali in prodotti di alta qualità e desiderabili.
Celebrità di primo piano e influencer hanno giocato un ruolo cruciale. Eventi come il Green Carpet Challenge, ideato da Livia Giuggioli-Firth, hanno utilizzato il potere dello star system per diffondere potenti messaggi etici. Queste iniziative hanno permesso alla sostenibilità di essere associati non solo alla responsabilità ambientale, ma anche alla bellezza e al prestigio.
Nonostante i progressi, tuttavia, l’articolo evidenzia anche le sfide rimanenti. Pensiamo ad esempio al problema del greenwashing, termine che è diventato sempre più rilevante negli ultimi anni, si riferisce alle pratiche di marketing ingannevoli che alcune aziende utilizzano per presentarsi come più ecologiche di quanto non siano realmente. Questo è solo uno dei problemi con i quali la moda sostenibile deve fare i conti quindi, sebbene ci sia una crescente consapevolezza e un aumento di iniziative sostenibili da parte di marchi di lusso come Gucci, Ferragamo e Vivienne Westwood, il cambiamento dei comportamenti di consumo su vasta scala è ancora lontano. Progetti ambiziosi come il passaporto digitale, promosso da innovatori come Federico Marchetti, fondatore di Yoox (e uno dei pionieri nel campo dell’e-commerce ecologico con Yooxygen) potrebbero migliorare la trasparenza nella filiera produttiva, rendendo più chiara e accessibile l’informazione sulla sostenibilità dei prodotti. Ciò che emerge dall’articolo è la necessità di un maggiore impegno da parte dell’industria della moda per rendere la sostenibilità una pratica standard piuttosto che un’eccezione. Marchi leader come Brunello Cuccinelli dimostrano che è possibile coniugare un business di successo con pratiche etiche e sostenibili. Inoltre l’attenzione dei Millennials e della Generazione Z alla sostenibilità è un segno incoraggiante per il futuro. Questi gruppi demografici sono sempre più attenti alle pratiche etiche e sostenibili, come evidenziato da numerosi studi. Tuttavia come più volte ripetuto, un vero e proprio cambiamento richiederà tempo, innovazione continua e la collaborazione attiva di tutti, dai designer ai consumatori. Solo attraverso uno sforzo collettivo la moda potrà guidare una rivoluzione verde che risponde concretamente alle esigenze del nostro pianeta.
L’analisi di Teresa è molto convincente, scritta benissimo. Sono d’accordo con le sue riflessioni. Ma io non sarei così sicura che i quarantenni o anche i più vecchi siano disinteressati all’ecologia. Tanto per cominciare consumano di meno cioè seguono meno le mode, e quindi inquinano di meno. Hanno anche più risorse e quindi possono permettersi di essere green e non fast fashion.
L’evoluzione della moda sostenibile è una tendenza in crescita che sta facendo passi significativi nel settore dell’alta moda. Questo è evidente nel crescente ricorso a fibre riciclate, negli investimenti nel settore second-hand e nell’abbandono progressivo delle pellicce. Questi sono segnali positivi di un cambiamento in atto, ma è importante ricordare che siamo ancora all’inizio di questo percorso.
Uno dei principali ostacoli che la moda sostenibile deve affrontare è la sovrapproduzione. La produzione di tessuti a livello globale è enorme, con 17 milioni di tonnellate prodotte ogni anno. Questo volume di produzione porta a un consumo eccessivo di risorse e ha un impatto ambientale significativo. Inoltre, la tendenza del mercato del lusso a evolversi verso la “fast fashion” aumenta la pressione sulla catena di fornitura, compromettendo la qualità dei capi e la sostenibilità dell’industria.
Per rendere la sostenibilità una realtà tangibile, è necessario ripensare l’attuale modello industriale della moda. È fondamentale fermare la sovrapproduzione e concentrarsi su metodi di produzione e consumo più responsabili. Solo così la moda sostenibile può diventare la norma, piuttosto che un’idea astratta utilizzata per massimizzare i profitti a spese del pianeta e delle tasche dei consumatori.
Un altro problema significativo è il ruolo dei media, che nel corso degli anni sono diventati complici della moda “usa e getta”. Diffondono innumerevoli e rapidi trend che si esauriscono altrettanto velocemente e, grazie alla loro natura, diffondono i trend lanciati dagli influencer anziché veicolare le proposte stagionali degli stilisti.
Arrivati a questo punto, l’embrione di un’economia circolare è l’unica vera soluzione per contrastare il cambiamento climatico. Tuttavia, sostenere un tale modello significa stravolgere radicalmente l’intero sistema produttivo. Non tutte le fibre e i tessuti possono essere riciclati, quindi pensare seriamente al ciclo di vita del proprio prodotto, dall’eco-design all’incremento delle percentuali di materiale derivato dal riuso e dalla rigenerazione, significa scegliere fin dall’inizio le materie prime giuste. Questo richiede un dialogo e una cooperazione con strutture di ricerca e università.
In conclusione, la strada verso una moda veramente sostenibile è ancora lunga e piena di sfide. Vorrei poter dire che con un impegno costante, una riflessione critica e un’azione collettiva, possiamo trasformare l’industria della moda in uno strumento di cambiamento positivo per il nostro pianeta, ma sinceramente realisticamente parlando non penso riusciremo a fare dei passi da gigante in questo poco tempo che il nostro pianeta ci sta concedendo.
Davanti ad una situazione ambientale come quella di oggi mi sento che dire che la moda o in generale il settore dell’abbigliamento sta solo cercando tramite queste Greenwashing o campagne pubblicitarie legate alla sostenibilità o tutti i discorsi legati alla salvaguardia del pianeta lo facciano unicamente a scopo di lucro.
Sono tante le persone che dicono di essere sostenibili comprando un vestito al posto di un altro oppure di non comprare dai fast fashion, ma allo stesso tempo sono le persone che lanciano i mozziconi delle sigarette dal finestrino, le gommone masticate per la strada ecc. Sicuramente comprare un vestito dove dall’etichetta riesci ad assicurarti un prodotto eco e sostenibile è un passo avanti ma stiamo creando generazioni dove l’estetica è tutto, il modo in cui ti vesti, che prodotti usi ecc sono piu importanti della persona in se.
Questo fa aumentare la moda del Fast Fashion, dei mega scatoloni di shein che girano per il mondo provenienti da paesi sfruttati ecc.
A mio modesto parere al giorno d’oggi non dovremmo guardare all’ecologico o non ecologico, ma allo sfruttamento delle persone che gira attorno a questa moda di shein e simili. Noi siamo stati molto fortunati a nascere in una parte del mondo dove non siamo obbligati a lavorare 20 ore all’eta di 5/6 anni., Detto questo sono convinta che, per quanto sembri campato in aria, i vestiti sostenibile possono funzionare. Sono un progetto, a mio parere, ottimo e funzionale, ma non siamo ancora pronti per accettarli e inserirli nel nostro quotidiano.
Trovo l’intervento di Giada troppo pessimista. Dire che tutto il settore dell’abbigliamento sfrutta la sostenibilità unicamente a scopo di lucro non è vero e nemmeno utile. Come l’autore ha scritto citando Armani è difficile far quadrare sostenibilità e business. Ma ci si può provare. E molti lo stanno facendo. Io credo anche che le esagerazioni non servano a nulla. Per esempio mi piacerebbe sapere dove Giada ha letto che certe aziende fanno lavorare 20 ore al giorno bambini di 5/6 anni. Proprio perché molte delocalizzazioni avvengono in Paesi dove la moralità d’impresa é una chimera, bisognerebbe denunciare la verità e non le esagerazioni. Quando tempo fa Benetton fu accusato di sfruttare il lavoro minorile e delle donne, fu subito messo alla gogna e sappiamo tutti che fine ha fatto quel brand. Non dico che la moda sia sempre perfetta, ma non ha interesse nel prendere sottogamba la sostenibilità.
La nostra ormai è diventata una cultura di ecologia e ecosostenibilità, purtroppo molto spesso viene confusa dagli acquirenti con moda perché come dice l’articolo non combaciano le loro scelte di vestiti ecosostenibili con il comportamento che hanno all’esterno nell’ambiente vero. La definizione di sviluppo sostenibile non mi convince perché è come se dovesse solo convincere il pubblico a mirare con il loro portafoglio solo le aziende ecosostenibili, mi trovo infatti in accordo con il fatto che tutto ciò sia solo una strategia per poter sviare quelli più ingannabili.
In ogni caso trovo comunque positivo l’uso di materiali più ecosostenibili con la moda, come fatto da Giorgio Armani nel riciclaggio di bottiglie. Sono convinta anche io che un primo passo di successo possa influenzare tanti altri ed è proprio questo che è successo con il Green Carpet Challenge, che sostengo possa essere positiva ma anche negativa perché può smuovere il pubblico verso l’ecosostenibilità ma anche soltanto presentarla come una moda.
Quello che viene rappresentato come vero interesse nella ecosostenibilità è il lavoro di Westwood o McCartney e grazie a queste forse c’è speranza che da questa moda della ecologia possa uscire fuori qualcosa di positivo e dai dati numerici proposti sembra proprio di sì.
Sembra che la iniziativa di marchetti possa avere tanto successo perché ormai potrebbe diventare quasi una sfida per trovare sempre più vestiti ecosostenibili.
Mi trovo completamente in accordo su come tutto debba veramente essere preso con maggiore consapevolezza proprio per poter affidare lo stesso atteggiamento ad altri aspetti della propria vita.
Concludo sostenendo che la moda green è pur sempre una moda che va e viene, ma se dobbiamo vedere il lato positivo, quello che maggiormente caratterizza una moda è proprio il fatto che torna.
L’articolo tratta un tema molto importante e attuale, l’evoluzione della moda sostenibile e il suo impatto sul consumo globale, poiché è anche uno dei maggiori che contribuisce all’inquinamento. Vediamo che il testo si concentra su questo fenomeno e sulla transizione di esso, inizialmente con design semplici e costi elevati, poi vediamo linee di prodotti più accessibili e anche decisamente più attraenti, grazie al coinvolgimento di grandi marchi e celebrità. Ormai attribuire delle pratiche sostenibili è diventata una necessità e uno degli aspetti chiave della sostenibilità nella moda riguarda le materie prime, fibre naturali, come il cotone organico, canapa, lino… e inoltre, l’innovazione tecnologica sta portando alla creazione di tessuti eco-friendly come il Tencel, ottenuto dalla cellulosa di legno e fibre riciclate. Purtroppo però il fast fashion sta generando rifiuti a causa dei prodotti che hanno vita breve e del loro modello di produzione. Vediamo anche brand come Stella Mccartney con il riciclaggio dei tessuti. Ci sono sempre stati due schieramenti, chi con prodotti sostenibili e chi con prodotti di fast- fashion, credo principalmente sia per una questione soprattutto economica, in quanto come abbiamo detto il fast-fashion ha dei costi più accessibili e nuove uscite dei capi tutte le settimane e bisognerebbe sensibilizzare i consumatori sullo “slow fashion”, che promuove la durabilità e qualità dei capi, invece le aziende dovrebbero tutte essere più sensibilizzate verso il riciclaggio, poiché oramai è diventato indispensabile per il nostro pianeta.
Camilla scrive che bisognerebbe sensibilizzare i consumatori sullo slow fashion. Potrei essere d’accordo, ma come si fa a metterlo in pratica con internet che ha dato velocità a tutto?
La sostenibilità è diventata una questione centrale in molteplici ambiti della nostra società, dal design alla moda, dall’architettura all’alimentazione. Con l’aumento della consapevolezza riguardo ai cambiamenti climatici, all’esaurimento delle risorse naturali e all’inquinamento, l’adozione di pratiche sostenibili non è più solo una scelta etica, ma una necessità impellente.
Uno degli aspetti fondamentali della sostenibilità è la capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. Questo concetto, noto come sviluppo sostenibile, è stato ben espresso da Gro Harlem Brundtland nel Rapporto Brundtland del 1987: “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni.” Questa definizione sottolinea l’importanza di considerare l’impatto a lungo termine delle nostre azioni.
Nel campo del design e dell’architettura, la sostenibilità implica l’uso di materiali ecologici, il risparmio energetico e la riduzione dei rifiuti. I designer e gli architetti sono chiamati a creare prodotti e edifici che minimizzino l’impatto ambientale durante tutto il loro ciclo di vita, dalla produzione allo smaltimento. Il celebre architetto William McDonough, coautore di “Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things,” ha affermato: “Il design è l’intenzione umana che si manifesta nella vita materiale. Possiamo progettarla in modo da essere un vantaggio piuttosto che un peso per il pianeta.”
Nella moda, la sostenibilità ha portato all’adozione di pratiche come l’uso di tessuti riciclati, la promozione del commercio equo e solidale e l’attenzione alla riduzione degli sprechi. La stilista Stella McCartney, nota per il suo impegno per la moda sostenibile, ha dichiarato: “Credo fermamente che la moda debba essere onesta e trasparente. Dobbiamo essere responsabili nel modo in cui creiamo e consumiamo la moda.”
Anche nel settore alimentare, la sostenibilità gioca un ruolo cruciale. La produzione di cibo ha un impatto significativo sull’ambiente, dalla deforestazione all’emissione di gas serra. Promuovere pratiche agricole sostenibili, ridurre lo spreco alimentare e scegliere diete più ecologiche sono passi importanti verso un sistema alimentare più sostenibile. L’attivista e chef Alice Waters ha detto: “Il cibo sostenibile è l’unico cibo che possiamo permetterci di mangiare se ci preoccupiamo dei nostri figli e del loro futuro.”
Infine, la sostenibilità non è solo una questione ambientale, ma anche sociale ed economica. Promuovere l’equità, migliorare la qualità della vita e garantire l’accesso alle risorse per tutti sono componenti essenziali di un approccio sostenibile. Come ha affermato l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, “La sostenibilità inizia dalla comprensione che non possiamo mantenere un comportamento che distrugge il pianeta e sperare di avere un futuro prospero.”
La sostenibilità rappresenta un impegno globale per preservare il nostro pianeta e garantire un futuro migliore per le generazioni a venire. È un viaggio che richiede la collaborazione di individui, comunità e industrie per adottare pratiche più responsabili e consapevoli.
Fino alla prima decade del terzo millennio, l’abbigliamento eco-friendly era limitato da un design molto semplice e materiali un po’ rozzi. In altre parole, per molti anni, i capi che oggi chiamiamo “sostenibili” erano poco attraenti, realizzati con tessuti naturali ma poco raffinati e anche più costosi rispetto a prodotti simili. Da tempo, la moda sostenibile sta conoscendo una continua evoluzione, con il lancio annuale di collezioni speciali, nuovi materiali e iniziative concrete da parte degli stilisti. Il settore tessile, secondo solo all’industria petrolchimica per impatto ambientale, sta ora cambiando direzione. La sostenibilità è diventata una componente essenziale delle strategie aziendali, coinvolgendo sia marchi di lusso che catene di fast fashion. Negli ultimi anni, l’industria ha cercato di introdurre politiche ecologiche e filiere controllate per ridurre l’impatto ambientale, investendo in ricerca su materiali, lavorazioni, finissaggi, impianti, gestione dei rifiuti, riciclo e riuso. La moda sostenibile ha spinto la ricerca verso nuovi materiali derivati da scarti vegetali come ananas e arance, e sono nate collezioni realizzate con tessuti ecologici, spesso ispirati alla tradizione, come fibre di ortica, ginestra, canapa, bamboo e molte altre. Inoltre, si sta diffondendo l’uso di tessuti ricavati dal riciclo di materiali inquinanti come la plastica. Si sta riducendo anche l’uso di sostanze chimiche, e molte aziende hanno diminuito le emissioni e il consumo d’acqua, particolarmente elevati in questo settore. Le principali manifestazioni del tessile e della moda (fiere, dibattiti e fashion week) hanno dedicato sempre più spazio a questo tema negli ultimi anni. L’ultima edizione della Milano Fashion Week, tenutasi lo scorso settembre, si è conclusa con i Green Carpet Fashion Awards, un evento sfarzoso in Piazza della Scala con la presenza di celebri testimonial internazionali del mondo dello spettacolo e della moda. L’edizione 2019 del Milano Fashion Global Summit, organizzata da Class Editori dal 2002, ha focalizzato l’attenzione sulla sostenibilità, sempre più vista come un elemento di business e competitività. Da un lato, marchi storici, stilisti, grandi catene e produttori di tessuti e filati stanno integrando la sostenibilità nelle loro strategie aziendali rinnovate. Dall’altro, emergono nuovi brand di moda, spesso ad alto contenuto creativo e qualitativo, con piccole collezioni ecologiche, sostenibili e spesso cruelty-free, che però incontrano difficoltà nell’investire in comunicazione e nel crearsi un mercato. Il sistema distributivo, spesso costoso, ostacola i piccoli marchi, i cui canali di distribuzione preferiti sono il web, temporary shop, piccoli showroom o eventi locali di vendita diretta al pubblico. Negli ultimi anni, sono emersi numerosi siti online che promuovono la sostenibilità e offrono soluzioni innovative per ridare vita a capi più vecchi. Queste piattaforme si pongono l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale della moda, incoraggiando il riutilizzo, il riciclo e la valorizzazione dei vestiti usati. Uno dei trend più popolari è il concetto di upcycling, che consiste nel trasformare abiti vecchi o non più utilizzati in nuovi capi alla moda. Siti come Depop e Vinted permettono agli utenti di vendere e scambiare abiti usati, dando loro una seconda vita. Queste piattaforme non solo riducono gli sprechi, ma offrono anche un’opportunità economica per chi desidera liberarsi di vestiti che non usa più. Altri siti, come ThredUp e Poshmark, si concentrano sulla rivendita di abbigliamento di seconda mano, offrendo una vasta gamma di opzioni a prezzi accessibili. Questi portali rendono più facile per i consumatori trovare capi di qualità senza contribuire alla produzione di nuovi rifiuti tessili. La rivendita di vestiti usati è diventata una tendenza crescente, con sempre più persone che scelgono di acquistare capi pre-loved anziché nuovi. Altri siti che si possono trovare si occupano, ad esempio, di riparazione e personalizzazione. Questi siti collaborano con artigiani e designer per trasformare vestiti danneggiati o fuori moda in pezzi unici e contemporanei. Questi nuovi siti online stanno rivoluzionando il modo in cui pensiamo alla moda, offrendo alternative sostenibili che valorizzano il riutilizzo e la creatività. Grazie a queste piattaforme, è possibile contribuire alla riduzione dei rifiuti tessili e promuovere un approccio più responsabile e consapevole alla moda. L’idea diffusa che possiamo produrre in modo migliore, risparmiando energia e riducendo l’inquinamento, è diventata un principio valido per molti, un modo per vivere in equilibrio tra desideri personali e rispetto per l’ambiente. Spesso, non abbiamo le idee chiare su cosa significhi realmente produrre in modo migliore o come essere più responsabili o etici nei nostri acquisti. Tuttavia, nonostante questi dubbi, l’idea generale di sostenibilità ha cominciato a diventare il nuovo riferimento per le preferenze di consumo.
La sostenibilità nel mondo della moda è diventata una questione di primaria importanza negli ultimi anni, poiché l’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo. La produzione di abbigliamento richiede enormi quantità di risorse naturali, come acqua ed energia, e spesso comporta l’uso di sostanze chimiche nocive che possono contaminare l’ambiente. Inoltre, il fenomeno del “fast fashion”, che promuove il consumo rapido e lo smaltimento frequente degli abiti, contribuisce all’aumento dei rifiuti tessili.
Un esempio significativo di impegno per la sostenibilità è rappresentato dal marchio Patagonia. Questa azienda non solo utilizza materiali riciclati e organici nei suoi prodotti, ma promuove anche la riparazione degli abiti attraverso il programma “Worn Wear”. Patagonia incoraggia quindi i consumatori a riparare, riciclare o donare i loro vestiti, riducendo così l’impatto ambientale.
Anche Stella McCartney, come citato nel testo, è un esempio di moda sostenibile. La stilista utilizza materiali ecologici come cotone biologico, seta vegetale e pelle sintetica, evitando l’uso di pelle animale e pelliccia. Inoltre, McCartney si impegna a ridurre l’impronta di carbonio della sua produzione e a promuovere pratiche di lavoro etiche.
Un ulteriore cambiamento e che numerosi marchi di fast fashion stanno iniziando a prendere provvedimenti. H&M, ad esempio, ha introdotto una linea di abbigliamento sostenibile chiamata “Conscious Collection”, realizzata con materiali riciclati e biologici.
Promuovere la sostenibilità nella moda non solo aiuta a preservare l’ambiente, ma può anche migliorare le condizioni di lavoro nelle catene di produzione e favorire un consumo più consapevole tra i consumatori.
Nonostante questi cambiamenti mi facciano stare un po più tranquilla sul futuro del mondo, non penso si arriverà mai ad un totale uso di prodotti sostenibili, perché ci saranno sempre persone o marchi che non sosterranno l’uso di materiali riciclabili o biologici.
“Possiamo vestire il mondo (9 miliardi di persone) con l’attuale modo di concepire il biologico e la natura?” Se ci fosse una reale ed autentica volontà da parte di tutti, sicuramente si. Credo che il settore moda abbia giustamente orchestrato i bisogni e i desideri degli individui verso scenari più sostenibili, ma che non debba fare tutto da solo. Sicuramente per aver aver acceso questo interesse su scala globale, il fashion/star-system ha i suoi meriti, però bisognerebbe avere governi e nazioni che seguano meglio questa raise of consciousness, a partire dalle fonti di energia che utilizziamo. Precisato questo aspetto, secondo me fondamentale, bisogna anche diversificare le aziende di moda. Se si parla di brand di lusso, parlare di sostenibilità è un conto, mentre se si parla di brand fast fashion (penso a brand come Shein) allora il discorso è tutto un’altro.
Io penso che una grande fetta di consumatori abbiano veramente a cuore il tema della sostenibilità e del rispetto per l’ambiente, nonostante magari comprino da brand come il già citato Shein. Tutto sta nella capacità di spesa. E’ ovvio che con l’aumento spropositato del costo della vita attuale una famiglia che deve vestire i propri figli, non investa soldi in capi sostenibili, tracciabili e con il passaporto digitale. Optano invece per il capo più in sconto che ci sia, dal negozio meno caro possibile. E’ ovvio così e non penso proprio che la colpa sia di questi consumatori. Nonostante ciò, ho sentito svariate volte slogan o consigli del tipo “Risparmia un po’ di soldi e comprati prodotti di qualità”, la stessa Westwood diceva “Buy Less, choose well, make it last”. Io sono completamente d’accordo con queste affermazioni, però bisogna anche capire che non tutti possono permetterselo.
Come risolvere allora? Sicuramente finché esisteranno brand che sfruttano a morte i lavoratori ed inquinano l’ambiente, i prezzi dei loro prodotti (non solo fashion) saranno imbattibili e tante persone per motivi economici compreranno da loro.
Bisognerebbe attuare leggi universali in favore della tutela dei lavoratori e dell’ambiente, abolendo certe pratiche fin dal principio. Penso che queste ideologie non debbano essere proposte da un partito e dell’altro no, da una nazione si e da un’altra no, penso invece che debbano essere ideologie comuni a tutti, dato che abitiamo tutti sullo stesso pianeta.
Consiglio caldamente la visione del documentario ‘The True Cost’ (https://www.youtube.com/watch?v=rwp0Bx0awoE&ab_channel=LifeIsMyMovieEntertainment) con Stella McCartney e Orsola De Castro (scrittrice di “I vestiti che ami durano a lungo”, libro del quale consiglio la lettura), un documentario che si concentra sul fast fashion, discute diversi aspetti dell’industria dell’abbigliamento, dalla produzione – principalmente sfruttando la vita dei lavoratori a basso salario nei Paesi in via di sviluppo – ai suoi effetti collaterali come l’inquinamento delle acque e del suolo, la contaminazione da pesticidi e le malattie, fino alla morte. Consiglio la visione di questo documentario soprattutto ai negazionisti (visti anche i commenti sopra) e alle persone che appena scoprono un trend o un nuovo capo di moda vogliono subito averlo, al più presto, non pensando minimamente alle conseguenze, riempiendo in questo caso gli armadi per poi buttare tutto e ricomprare nuovamente.
Chiara Pulzetti LABA.
Intervento molto interessante. Grazie per la dritta sul documentario.
“è innegabile che senza l’intervento di personaggi famosi, difficilmente il paradigma della sostenibilità avrebbe raggiunto il vasto pubblico così velocemente”, tutto questo è banalmente vero ma come lo è sempre stato. Le aziende di moda si servono di icone, idoli per poter arrivare alla gente comune, e in questo non ci vedo assolutamente nulla di strano; il problema dietro a questo mercato è capire se effettivamente i brand siano sostenibili oppure no. Conosciamo tutti oggigiorno la tragedia di Rana Plaza, l’edificio commerciale crollato a Dacca all’interno del quale venivano prodotti in massa numerosi capi dei più amati brand di moda a basso costo. Questo per dire che molti dei brand che sostengono di essere sostenibili, in buona parte dei casi non lo sono realmente, andando incontro a sfruttamento minorile e mancato rispetto dei diritti dell’uomo; che a mio avviso non dovrebbero essere alla base di un brand che si reputa sostenibile.
Prendiamo Burberry, che fa parte della Better Cotton Initiative, gruppo che promuove la produzione di cotone sostenibile, che durante una campagna in Cina afferma di non utilizzare cotone di Xinjiang per la propria collezione, riscontrando successivamente svariate problematiche con il mercato Cinese. Questo per dire che il cotone dello Xinjiang, cotone che è attualmente legato al mancato rispetto dei diritti dell’uomo, viene utilizzato da brand come Fila, che appartiene al colosso cinese Anta, ma anche Hugo Boss e Asics, essi infatti hanno affermato che utilizzano e continueranno ad utilizzare cotone prodotto nella regione dello Xinjiang. Uno studio dell’università britannica Sheffield Hallam ha evidenziato che alcune fabbriche in Vietnam e in altri Paesi del Sud globale utilizzavano il cotone cinese per realizzare i prodotti intermedi poi venduti a più di cento griffe internazionali. La storia del cotone dello Xinjiang è anche possibile leggerla nel rapporto delle Nazioni Unite “Assessment of human rights concerns in the Xinjiang Uyghur Autonomous Region, People’s Republic of China del 2022”.
Tuttavia la mancanza di trasparenza per queste filiere rappresenta un vantaggio per i produttori di fibra, come ha dimostrato la frode del cotone biologica indiano del 2020.
Quindi la tracciabilità del cotone non è finalizzata solo ad individuare la presenza o meno di fibra ottenuta dallo sfruttamento di lavoratori forzati, che ovviamente ha il suo indice di ascolti; tracciare vuol dire documentare caratteristiche e passaggi subiti dal materiale e che riguardano tanto l’impatto ambientale quanto quello sociale.
Ad esempio la svizzera Haelixa ha sviluppato un sistema di tracciamento delle fibre basato sull’analisi del Dna. Supina ha sviluppato con TextileGenesis una piattaforma blockchain per l’autenticazione del cotone americano Pima.
Per cui grazie alle odierne condizioni tecnologiche e alla digitalizzazione dei flussi, è più facile tracciare il cotone e altri materiali sostenibili che poi i diversi brand di moda inseriranno nei cartellini dei prodotti, con il nome di “passaporto digitale”, indirizzandola verso una direzione più ecologica ed etica, attraverso una più corretta e trasparente informazione per i consumatori.
Il percorso dell’abbigliamento eco-friendly è stato affascinante e pieno di trasformazioni. Nei primi anni 2000, la moda sostenibile era una nicchia riservata agli ambientalisti convinti, caratterizzata da design essenziali e materiali che spesso non risultavano esteticamente attraenti. Tuttavia, con il passare degli anni, la consapevolezza ambientale è cresciuta e ha spinto sia i consumatori che i produttori a riconsiderare le proprie scelte.
L’adozione della sostenibilità da parte delle celebrità ha avuto un impatto significativo, portando il messaggio ecologico a un pubblico più ampio. Personalità come Zendaya e Miley Cyrus che indossano abiti vintage o di seconda mano a eventi di alto profilo contribuiscono a normalizzare e valorizzare il riciclo nella moda. Questo fenomeno non solo promuove il riutilizzo dei capi, ma invia anche un forte messaggio etico, dimostrando che stile e sostenibilità possono coesistere.
Le iniziative di figure come Livia Giuggioli-Firth e il Green Carpet Challenge hanno evidenziato il potere della moda nel promuovere cambiamenti culturali e comportamentali. Anche se alcune campagne possono essere criticate come greenwashing, molte aziende e stilisti mostrano un vero impegno verso pratiche sostenibili, come evidenziato dagli sforzi di Giorgio Armani e Brunello Cucinelli.
È interessante notare come la moda second-hand, una pratica che una volta poteva essere vista come una necessità economica, si sia trasformata in una scelta consapevole e di tendenza. Il podcast “Pre-Loved” di Emily Stochl rappresenta una risorsa preziosa per chi vuole esplorare il mondo del vintage e del second-hand, offrendo approfondimenti e ispirazione.
Nonostante i progressi, c’è ancora molto da fare per integrare la sostenibilità nelle abitudini quotidiane dei consumatori. Le differenze tra i mercati anglosassoni ed europei in termini di sensibilità ambientale dimostrano che la strada è ancora lunga. La moda sostenibile potrà davvero fare la sua rivoluzione solo quando consapevolezza e pratiche ecologiche diventeranno parte integrante della vita quotidiana di tutti, andando oltre le campagne di marketing accattivanti.
In sintesi, la moda ha il potere di guidare il cambiamento verso un futuro più sostenibile, ma questo richiede un impegno continuo e genuino da parte di tutti gli attori coinvolti. La bellezza della sostenibilità risiede proprio nella sua capacità di coniugare estetica ed etica, trasformando il modo in cui percepiamo e consumiamo la moda.
Gli abiti sostenibili certamente stanno guadagnando sempre più popolarità e molte persone stanno optando per acquistare un abbigliamento realizzato con materiali ecologici e prodotti in modo etico. Tuttavia, per “vestire il mondo” con abiti sostenibili, è necessario un cambiamento sistematico non solo nell’industria della moda, per promuovere la produzione e il consumo responsabile, ma anche nelle altre industrie e ovviamente nella quotidianità. Ci vuole un impegno collettivo per ridurre l’impatto ambientale e sociale dell’industria della moda e fare in modo che i vestiti sostenibili diventino la norma. Quindi, sebbene ci siano presi propositivi in questa direzione, è ancora un lungo cammino da percorrere per raggiungere un settore della moda sostenibile su larga scala. Senza un aiuto notevole da parte delle persone ai vertici dello stato, oltre ad essere lungo il percorso sarà anche difficile portare risultati notevoli sia nel campo della moda sia in altri campi. Spero solo che con il passare del tempo e degli anni le persone si convinceranno che adottare questo stile di vita porta sia benefici personali che globali.
La domanda non è se gli abiti sostenibili vestiranno il mondo, ma il mondo, o meglio l’uomo in uno sguardo di sostenibilità globale green, di cosa ha davvero bisogno? Credo che il focus, oggi, dopo tantissimi anni in cui si è prodotto “il bello” a discapito dell’ambiente e non solo, sia quello di un’emergenza di coscienza su come rivestirsi e su come poter allineare green e sostenibilità con fare business. Bene il miglioramento della catena produttiva, coinvolgimento dei fornitori, scelta delle materie prime nel rispetto ambientale, riorganizzazione degli eventi con meno sprechi etc., ma oltre al rischio di questo sistema, improntato sulla comunicazione di massa che, attraverso i social, spinge verso una sostenibilità subdola, improntata sugli acquisti compulsivi green, occorre far emergere una filosofia dello stile e del buon vivere. C’è bisogno di un ordine interiore che ha come focus il reale bisogno di ogni individuo, una dimensione etica delle persone e dell’ambiente nel quale vivono, orientando il capitalismo verso un umanesimo sostenibile; quindi piena consapevolezza uguale ad un incremento di conoscenza per scelte più responsabili e un futuro migliore e uguale per tutti perché ogni individuo, in quanto tale, ha il diritto di potersi vestire con dignità.
Si parla sempre di più dell’importanza di acquisire uno stile di vita sostenibile per ridurre al minimo l’impatto ambientale e preservare la biodiversità, l’ONU ha insistito un programma d’azione chiamato “Agenda 2030” nel quale si presentano 17 obbiettivi da raggiungere entro il 2030 per salvaguardare la terra e gli abitanti.
Secondo le direttive dell’ONU anche l’industria della moda ha bisogno di un cambio radicale per adottare un approccio sostenibile. La moda, infatti, come tanti altri ha ignorato per molto la sostenibilità puntando tutto sul design, l’estetica e la bellezza del prodotto generando un forte impatto ambientale e sociale. Un fenomeno che purtroppo sta riscontrando un enorme successo è il fast-fashion il quale va contro i principi segnati nell’Agenda 2030. La produzione veloce di capi a prezzo stracciato sta generando un forte impatto sui lavoratori e sull’ambiente promuovendo inoltre un iper-consumismo in quanto si è insidiato nei comportamenti del consumatore che non riesce a farne a meno, per non parlare dell’enorme produzione di rifiuti. Infatti, abiti con un prezzo così basso hanno anche una qualità molto bassa e di conseguenza un ciclo di vita ridotto portando così il consumatore sempre a nuovi acquisti.
Tuttavia, molti stilisti e brand emergenti hanno abbracciato una campagna green per ridurre l’impatto ambientale dell’industria della moda grazie all’utilizzo di materiali parzialmente o interamente riciclati, all’uso dei comuni scarti di fabbrica oppure l’uso di nuovi materiali biodegradabili e vegani per la salvaguardia degli animali. Ad esempio, Themoirè, un brand italiano nato qualche anno fa, che per la collezione Mimesi lancia dei materiali derivati dal torsolo di mela e dai fondi del caffè, che si impegna non solo ad utilizzare questo tipo di materiali e politica nei prodotti ma anche nel packaging e nel trasporto delle merci limitando ulteriormente gli impatti.
Non so se arriveremo mai a una produzione del tutto green, però credo sia importante anche invogliare ad un nuovo approccio il consumatore ovvero a quello del second-hand fashion, come ad esempio fa la piattaforma Vestiaire Collective, con l’obbiettivo di promuovere una moda circolare come alternativa alla sovraproduzione e agli sprechi.
Molto bene l’aver ricordato l’intervento dell’ONU. Ma per noi europei è più vincolante il grande piano verso la sostenibilità dell’Europa chiamato Green Deal. Ha obiettivi ambiziosi ovvero ridurre del 40% le emissioni dell’effetto serra entro il 2030. Ma l’impegno politico di devolvere almeno il 20% del bilancio UE per lo sviluppo sostenibile e per il clima, promette efficacia.
A mio parere soltanto i piccoli brand possono essere realmente sostenibili. I grandi marchi di lusso per quanto ci possano provare non riescono a monitorare completamente le loro filiali di produzione, causa le loro estese catene di fornitura spesso globali e frammentate che rendono estremamente complesso garantire la sostenibilità del prodotto ed il rispetto delle condizioni lavorative degli operai al loro interno. La pratica del subappalto è comune, il che significa che i grandi brand non hanno sempre diretto accesso alla produzione. Produrre in paesi stranieri come sappiamo abbassa notevolmente i costi di manodopera e produzione, nonostante questi capi vengano successivamente venduti a prezzi esorbitanti. é certamente positivo che questi brand stiano tentando di essere più sostenibili, ma tentare non è abbastanza e questi cambiamenti andavano adottati molto tempo prima. Per questo a parer mio si tratta solo di greenwashing di facciata che non porta a seri cambiamenti, ma illude soltanto il consumatore di star facendo una scelta più consapevole. Hanno le risorse per investire in campagne di marketing sofisticate, che enfatizzano piccoli aspetti sostenibili delle loro operazioni, senza apportare cambiamenti significativi e sistematici, questo distoglie l’attenzione dalle aree in cui la sostenibilità non viene realmente applicata. Essere percepiti come ecologicamente responsabili può migliorare notevolmente l’immagine aziendale. Le aziende di moda utilizzano il greenwashing per costruire una narrazione positiva intorno al loro brand. All’interno di un industria così competitiva l’etichetta “sostenibile” è sempre più richiesta. Le aziende possono fare affermazioni ambientali vaghe o non verificabili senza temere serie conseguenze legali o reputazionali. Questo vuoto normativo permette alle imprese di sfruttare termini come “ecologico”, “verde” o “sostenibile” senza dover dimostrare concretamente l’impatto delle loro pratiche. Forse l’implementazione del passaporto digitale dei capi potrà migliorare questa situazione, ma ho i miei dubbi. Soltanto ad aprile di quest’anno sono stati scoperti opifici abusivi nel quale venivano creati cinture e borse marchiate Giorgio Armani. All’interno di questi luoghi viveva e lavorava manodopera cinese pagata 2 euro all’ora, per oltre 14 ore al giorno in situazioni di degrado e senza sicurezza.
Sono sicura che può avvenire una concreta svolta verso la sostenibilità, ma semplicemente non dai grandi marchi moda. I consumatori dovrebbero iniziare ad acquistare di più da marchi più piccoli. I piccoli brand possono adattarsi rapidamente alle nuove tecnologie e metodi di produzione sostenibili. La loro struttura meno rigida permette cambiamenti rapidi rispetto ai colossi del settore. Spesso lavorano a stretto contatto con i loro produttori e fornitori, permettendo una maggiore trasparenza e controllo sulle pratiche utilizzate. L’impegno verso i valori sostenibili è spesso più genuino, poiché i fondatori e i dirigenti sono direttamente coinvolti nelle operazioni quotidiane e nella definizione della cultura aziendale.
Apprezzo molto la lucida e razionale riflessione di Giorgia sulle ragioni delle difficoltà dei grandi marchi del lusso, sul fronte della sostenibilità. Difficile darle torto. Ma senza la loro leale e corretta partecipazione la rivoluzione Green impiegherà decenni ad avverarsi. Non abbiamo più molto tempo.
Ho trovato intelligenti le parole sulle piccole produzioni e brand, ai quali aggiungerei l’importanza dei negozi alternativi alle grandi catene monomarca. Sono piccole imprese radicate nel territorio e hanno rapporti con la clientela più interattivi.
La moda sostenibile è diventata da ormai qualche anno un argomento di crescente rilevanza, riflettendo una consapevolezza sempre maggiore riguardo agli impatti ambientali e sociali dell’ industria della moda.
La moda sostenibile non è solo una tendenza, ma una necessità urgente per ridurre i rischi ambientali. Uno degli aspetti fondamentali della moda sostenibile è la scelta dei materiali, come l’ utilizzo di tessuti ecologici, di materiali riciclati o di materiali innovativi, promuovendo la conservazione delle risorse naturali. Un altro pilastro della moda sostenibile è la produzione etica, questo implica condizioni di lavoro dignitose.
Da un punto di vista personale la moda sostenibile rappresenta un’ opportunità per fare scelte consapevoli e responsabili. Negli ultimi anni ho cercato, nel mio piccolo, di modificare le mie abitudini di consumo, optando per capi d’ abbigliamento realizzati con materiali sostenibili, cercando di evitare l’ acquisto di indumenti realizzati con tessuti artificiali, e oltre che a contribuire a un impatto positivo sull’ ambiente, questi capi spesso durano più a lungo e offrono un comfort superiore. Inoltre è innegabile che l’ acquisto presso negozi di fast fashion rappresenti una sfida significativa per molti consumatori però la convenienza economica e l’ accessibilità di questi marchi sono fattori determinanti che rendono difficile competere per boutique o brand di lusso. Uno dei principali ostacoli è appunto il prezzo, i marchi che appartengono al fast fashion riescono a mantenere prezzi bassi, sarebbe importante promuovere alternative sostenibili che siano accessibili anche dal punto di vista economico, come brand emergenti che offrono capi di alta qualità a prezzi ragionevoli. In conclusione, sebbene sia difficile limitare gli acquisti nei negozi di fast fashion a causa dei loro prezzi competitivi, è possibile comunque adottare un consumo più consapevole e sostenibile, prolungando la vita dei nostri vestiti e riducendo la necessità di acquisti frequenti.
Sono convinta che essere protagonisti di una sfilata di moda abbia un impatto significativo sul mondo della moda e sull’industria in generale.
Le sfilate di moda sono un’importante piattaforma per presentare le ultime collezioni dei designer e per influenzare le tendenze future. Partecipare a una sfilata può portare visibilità e riconoscimento a designer emergenti, modelli e marchi di moda.
Mi piace come molte sfilate di moda abbiano voluto dare un messaggio attraverso le loro collezioni, spesso riguardanti temi sociali, politici o ambientali, come l’uguaglianza di genere, la diversità, i diritti umani, la sostenibilità ambientale, il cambiamento climatico, la salute mentale e molti altri. Sotto questo punto di vista la moda, quindi “sfilare”, risulta essere molto intelligente, perché diventa un mezzo per sensibilizzare il pubblico su diverse questioni e ispirare a cambiamenti positivi nella società. Una delle sfilate più significative di Dior è stata la collezione autunno-inverno del 2019, presentata durante la Paris Fashion Week. La sfilata ha visto le modelle camminare lungo una passerella illuminata da migliaia di candele, creando un’atmosfera magica e suggestiva. Il direttore creativo della maison, Maria Grazia Chiuri, ha voluto trasmettere un messaggio di femminismo attraverso la collezione, che includeva abiti ispirati al movimento delle Suffragette e slogan come “Sisterhood is Global” e “We Should All Be Feminists”. Questa sfilata è stata un potente richiamo alla solidarietà tra le donne e alla lotta per l’uguaglianza di genere.
Sfilare però presenta anche dei contro, come lo stress e la pressione fisica e emotiva, la possibilità di giudizi negativi e il forte impatto che può dare all’ambiente, come l’eccesso di rifiuti o inquinamento per i vari spostamenti.
Per errore ho inviato il commento “sfilare o non sfilare” nella pagina sbagliata. Questo è quello corretto:
La parola “sostenibilità” deriva dal latino sustinere che significava sostenere, difendere, favorire, prendersi cura di qualcuno o di qualcosa. Diviene un concetto di tendenza verso la metà degli anno ’80 del novecento, quando fu ufficialmente adottato dalla Commissione Mondiale del’ONU per l’ambiente e lo sviluppo, durante un convegno a Stoccolma nel 1987.
Gli abiti sostenibili sono una parte importante della moda etica e dell’industria tessile sostenibile. Se sempre più persone sceglieranno di acquistare abiti prodotti in modo sostenibile, utilizzando materiali biologici, riciclati o eco-friendly e producendo in modo etico, potrebbe avere un impatto positivo sull’ambiente e sull’industria della moda nel suo complesso.Tuttavia, è importante che i consumatori siano consapevoli delle loro scelte di acquisto e che le aziende continuino a migliorare le loro pratiche per ridurre l’impatto ambientale e sociale della produzione di abbigliamento. Quindi, anche se gli abiti sostenibili potrebbero non vestire completamente il mondo, sicuramente possono contribuire a un cambiamento positivo nell’industria della moda.
Uno dei protagonisti della moda sostenibile fu l’abito di Giorgio Armani che disegnò per Livia Giuggioli, grazie alla quale si diffuse il messaggio che la moda sostenibile è bella sia per stile, sia per i suoi contenuti “etici” dal momento che il tessuto in questione è nato dal riciclo di bottiglie di plastica. Un altro esempio rilevante è l’abito di Stella McCartney in viscosa sostenibile indossato da Gisela Bündchen.
Detto questo sembrerebbe quindi che la moda stia facendo una “bio rivoluzione”, ma dobbiamo fare delle distinzioni.
Secondo una ricerca condotta qualche anno fa sembrerebbe esistere una profonda differenza tra il contesto anglosassone e il resto dell’Europa. Grazie ad un questionario centrato sulle motivazioni d’acquisto, le ricercatrici hanno misurato l’interesse dei consumatori per l’eco-moda, stabilendo che il pubblico anglo-americano in media è maggiormente predisposto alla sostenibilità.
Tuttavia, per far sì che gli abiti sostenibili vestano il mondo, è necessario un cambio di mentalità da parte dei consumatori e delle aziende. I consumatori devono essere disposti a investire di più per capi di qualità realizzati in modo sostenibile, mentre le aziende devono adottare pratiche più responsabili e trasparenti. Solo con uno sforzo collettivo sarà possibile trasformare l’industria della moda e renderla più sostenibile per le generazioni future.
L’articolo offre una riflessione sullo sviluppo della moda sostenibile, sottolineando l’importanza di figure influenti e tecnologie innovative nella trasformazione dell’industria tessile. La narrazione evidenzia come la sostenibilità non sia più una nicchia trascurata, ma un elemento centrale del mainstream della moda, grazie alla partecipazione di designer di fama mondiale e alle innovazioni tecnologiche che rendono il processo produttivo più ecologico.
Uno degli esempi più emblematici presentati è l’abito disegnato da Giorgio Armani per Livia Giuggioli, realizzato con Newlife di Filature Miroglio, un tessuto derivato dal riciclo di bottiglie di plastica. Questo tipo di iniziativa non solo ha dimostrato che la moda sostenibile può essere elegante e di alta qualità, ma ha anche promosso un messaggio etico potente, associando la bellezza alla responsabilità ambientale.
Un altro esempio notevole è rappresentato da Coperni, brand che ha sperimentato con tecnologie innovative come la creazione di borse realizzate da materiali riciclati e processi di produzione a basso impatto ambientale. Questi prodotti non solo rispondono a esigenze estetiche ma integrano pratiche sostenibili nella loro produzione, evidenziando come l’industria della moda possa evolvere per abbracciare la sostenibilità senza compromettere lo stile. Anche Stella McCartney si distingue per il suo impegno nella moda sostenibile. La designer britannica è rinomata per l’utilizzo di materiali ecologici, come il cotone biologico e le fibre riciclate, e per l’adozione di pratiche di produzione etiche e cruelty-free. Il suo approccio pionieristico ha ispirato molti altri nel settore, mostrando che la sostenibilità può essere integrata con successo in una casa di moda di alto livello. Allo stesso modo, Patagonia è un marchio che ha fatto della sostenibilità la sua missione centrale. L’azienda utilizza materiali riciclati e processi di produzione responsabili, e ha anche introdotto iniziative per riparare e riciclare vecchi capi, riducendo così l’impatto ambientale della moda. Questa filosofia non solo ha attirato un seguito leale tra i consumatori attenti all’ambiente, ma ha anche spinto altri brand a seguire l’esempio.
Dal punto di vista delle tecnologie rinnovabili applicate alla produzione tessile, sono numerosi i progressi che meritano attenzione. Le fibre riciclate, come il già menzionato Newlife, rappresentano solo una delle tante innovazioni. Altre includono l’uso di fibre organiche e biologiche, la riduzione dell’uso di acqua e di sostanze chimiche nei processi di tintura e finissaggio, e l’implementazione di sistemi di produzione a ciclo chiuso che minimizzano gli sprechi e promuovono il riutilizzo dei materiali. Questi sviluppi sono cruciali per mitigare l’impatto ambientale dell’industria della moda, una delle più inquinanti al mondo.È importante notare che la trasformazione verso una moda sostenibile non è solo un trend temporaneo, ma una necessità urgente per il futuro del pianeta. Le aziende che abbracciano questa transizione non solo migliorano la loro reputazione e soddisfano una crescente domanda dei consumatori, ma contribuiscono attivamente alla lotta contro il cambiamento climatico e la degradazione ambientale, in quanto la moda è una delle industrie più inquinanti.
In conclusione l’articolo invita a una riflessione più profonda sul ruolo che ognuno di noi può giocare in questa rivoluzione verde. Che si tratti di scegliere capi prodotti in modo etico o di supportare marchi che investono in tecnologie sostenibili, ogni gesto conta. Per non parlare del trend attuale caratterizzato da abiti second hand, non solo nella vita quotidiana, ma anche dalle star in grandi occasioni come Red Carpet, che spesso indossano capi di archivio piuttosto che abiti custom realizzati per l’occasione. La moda, dunque, diventa non solo un’espressione di stile, ma anche un potente strumento di cambiamento positivo.
Leggendo l’articolo sulle abiti sostenibili, non posso fare a meno di pensare che sia arrivato il momento di cambiare atteggiamento nei confronti del modo in cui vestiamo. È vero che gli abiti sono una parte integrante della nostra identità e del nostro stile, ma non è altrettanto vero che possiamo continuare a consumare risorse naturali in modo sfrenato e danneggiare l’ambiente.
I dati citati nell’articolo sono preoccupanti: il 12% delle emissioni di carbonio nel mondo è dovuto alla produzione di abiti e tessuti. Eppure, sembra che non ci sia sufficiente consapevolezza tra i consumatori sulla questione. La maggior parte delle persone pensa che gli abiti sostenibili siano troppo costosi o troppo poco fashion, ma questo è solo un pregiudizio.
In realtà, gli abiti sostenibili non sono solo una moda, ma un investimento nel futuro. Pensiamo alle conseguenze devastanti della produzione di abiti che non si possono più indossare una volta finite le stagioni, o alle taniche di acqua e energia consumate durante la loro produzione. Non è solo un problema ambientale, ma anche economico e sociale.
La soluzione è trovare modi innovativi di produrre abiti che siano sia sostenibili che fashion. Gli stili minimalistici, per esempio, stanno guadagnando popolarità proprio per la loro capacità di ridurre la quantità di tessuti consumati. E ci sono anche materiali innovativi come i microplastic-free o i tessuti biodegradabili che stanno cambiando il gioco.
Inoltre, è importante valorizzare il riciclo e il riuso dei tessuti. Un buon accessorio può essere fatto da vecchi vestiti strappati o smaltiti, riducendo così il consumo di nuove materie prime.
In sintesi, credo che gli abiti sostenibili siano il futuro del mondo della moda. Spero che questa consapevolezza aumenti tra i consumatori e che gli stilisti e i produttori inizino a prendere misure concrete per ridurre l’impatto ambientale delle loro produzioni. Solo insieme possiamo creare un mondo più sostenibile e più bello.
Gli abiti sostenibili rappresentano un passo importante verso un futuro più ecologico e responsabile nell’industria della moda, in quanto essa è una delle più impattanti al mondo. Gli abiti sostenibili, spesso realizzati con materiali organici o riciclati e processi produttivi meno inquinanti, riducono significativamente l’impatto ambientale; fibre naturali come il cotone, il lino, il bambù, e la canapa richiedono meno pesticidi e fertilizzanti.
Gli abiti sostenibili sono spesso di qualità superiore e progettati per durare più a lungo, contrastando così la cultura dell’usa e getta. Promuovere l’adozione di pratiche sostenibili nella moda è essenziale per ridurre l’impatto ambientale e migliorare le condizioni di lavoro nel settore. Tuttavia, gli abiti sostenibili possono essere più costosi a causa dei materiali di alta qualità e delle pratiche di produzione etiche, il che può renderli meno accessibili a un vasto pubblico. Non tutte le persone hanno facile accesso a marchi di moda sostenibile, specialmente in aree meno urbanizzate.
Penso però che il vero cambiamento, dovrà venire principalmente dalla consapevolezza del consumatore.
Quello della sostenibilità è un argomento molto sentito negli ultimi tempi che ha interessato quindi diversi settori di produzione, i quali si sono sempre più interessati al cambiamento climatico che colpisce il nostro pianeta. Rispondendo alla domanda non credo che il settore della moda sia in grado di produrre abiti interamente sostenibili, o perlomeno non in questo momento. In questi anni si è creata un ciclo di produzione che sarà difficile interrompere: un ciclo alimentato dal continuo consumo di indumenti. Si parla tanto della pericolosità del fast fashion, ma sembra che nessuno riesca a farne a meno. Apprezzo molto i diversi brand che cercano di indirizzarsi verso una via più sostenibile, ma il mercato che prevale oggi è quello del consumismo. Inoltre l’impiego di materiali completamente naturali o riciclati non lo credo possibile nell’immediato: tessuti sintetici che hanno particolari proprietà, spesso non possono essere sostituiti con materiali più sostenibili. La moda sostenibile nel corso degli anni sta facendo grandi passi avanti, ma prima della completa sostenibilità in questo campo deve cambiare la mentalità delle persone che ormai sono abituate ad acquistare un capo d’abbigliamento che getteranno nella spazzatura il giorno successivo.
La moda sostenibile sta finalmente guadagnando l’attenzione che merita, diventando un tema centrale non solo tra gli addetti ai lavori ma anche tra i consumatori. È innegabile che l’industria della moda abbia avuto un impatto devastante sull’ambiente per decenni, con pratiche che hanno portato a inquinamento, sfruttamento delle risorse e condizioni di lavoro spesso inaccettabili. Tuttavia, è altrettanto evidente che siamo ora in una fase di transizione verso un approccio più responsabile e consapevole. In questo contesto, la moda sostenibile emerge come un faro di speranza e innovazione.
La crescente consapevolezza ambientale ha spinto molti marchi a rivedere le loro pratiche produttive, adottando materiali ecologici, processi di riciclo avanzati e tecnologie a basso impatto ambientale. Questa tendenza non è solo una risposta alle pressioni dei consumatori, ma anche un riconoscimento dell’urgenza di affrontare le sfide climatiche e sociali globali. La sostenibilità sta diventando non solo una scelta etica, ma una necessità per garantire un futuro all’industria della moda stessa.
Un esempio interessante di questa trasformazione è la crescente popolarità del vintage e dell’abbigliamento di seconda mano. Il vintage, un tempo considerato un’opzione di nicchia per pochi appassionati, è ora una scelta mainstream per chi cerca qualità, unicità e sostenibilità. Gli abiti vintage non solo offrono una seconda vita ai capi, riducendo così l’impatto ambientale, ma raccontano anche una storia, aggiungendo valore e autenticità al guardaroba di chi li indossa. Questa tendenza verso il recupero e il riutilizzo riflette una crescente consapevolezza e responsabilità ambientale tra i consumatori.
Tuttavia, mentre la moda sostenibile guadagna terreno, non possiamo ignorare l’impatto del fast fashion, rappresentato da giganti come Shein. Shein, noto per le sue collezioni a basso costo e in continua evoluzione, è diventato un simbolo di spreco e sovrapproduzione nel settore della moda. La rapidità con cui vengono creati e lanciati nuovi capi, spesso a discapito della qualità e delle condizioni di lavoro, evidenzia le gravi problematiche ambientali e sociali legate a questo modello di business. Shein, in particolare, è stato criticato per la scarsa trasparenza nelle sue pratiche produttive e per il suo contributo significativo al problema dei rifiuti tessili. La loro strategia di vendita, basata sulla continua offerta di nuovi prodotti a prezzi estremamente bassi, incoraggia il consumo sfrenato e l’acquisto impulsivo, alimentando un ciclo insostenibile di produzione e smaltimento. Questo modello non solo contribuisce a un enorme spreco di risorse, ma perpetua anche una cultura dell’usa e getta che contrasta fortemente con i principi della sostenibilità.
È fondamentale che i consumatori comprendano le conseguenze delle loro scelte d’acquisto e siano consapevoli del ruolo che il fast fashion gioca nel contribuire a un sistema insostenibile.
La spinta verso il basso costo non solo danneggia l’ambiente, ma spesso implica condizioni di lavoro inaccettabili e una qualità dei prodotti che non giustifica il prezzo pagato, sia in termini economici che ambientali. Parallelamente, il mercato sta vedendo un aumento delle iniziative innovative per promuovere la sostenibilità.
Dalla stampa 3D ai tessuti biodegradabili, le tecnologie avanzate stanno rivoluzionando la produzione di abbigliamento, riducendo gli sprechi e migliorando l’efficienza energetica. La moda circolare, che promuove il riuso e il riciclo degli abiti, sta guadagnando terreno, con numerose aziende che adottano modelli di business che favoriscono la longevità dei prodotti. Questo approccio non solo riduce l’impatto ambientale, ma crea anche un’economia più resiliente e sostenibile. Nonostante questi progressi, la strada verso una moda completamente sostenibile è ancora lunga e piena di sfide.
È necessario un impegno continuo da parte di tutti i protagonisti del settore, dai grandi marchi ai piccoli produttori, passando per i consumatori, che devono essere disposti a cambiare le loro abitudini di acquisto e a sostenere le aziende che si impegnano per un futuro più verde. La chiave per il successo sarà l’educazione e la sensibilizzazione del pubblico, affinché capisca l’importanza di sostenere pratiche di produzione responsabili e di ridurre il proprio impatto ambientale attraverso scelte più consapevoli.
Da un punto di vista personale, trovo che la transizione verso una moda più sostenibile sia non solo una responsabilità, ma anche un’opportunità entusiasmante per innovare e creare un settore più equo e rispettoso dell’ambiente. La moda ha sempre avuto il potere di influenzare la cultura e i comportamenti sociali, e ora ha l’opportunità di guidare il cambiamento verso un futuro più sostenibile. Mi auguro che questa tendenza continui a crescere e che sempre più persone si uniscano a questo movimento per fare la differenza. La moda sostenibile non è solo una moda passeggera, ma una necessità imperativa per il nostro pianeta e per le generazioni future.
Oggigiorno, riconosciamo quanto sia fondamentale affrontare le problematiche ambientali anche in questo settore il quale, tradizionalmente, é noto per il suo impatto negativo sul pianeta. Non possiamo più permetterci di pensare che la moda sostenibile sia un concetto marginale, perché è una necessità urgente e una scelta etica che può influenzare positivamente il nostro futuro.
Pionieri come Livia Giuggioli e Giorgio Armani, grazie al loro impegno, non solo hanno dato un volto e una voce alla moda sostenibile, ma ha anche dimostrato che sostenibilità e stile possono convivere armoniosamente, questo significa che l’alta moda é in grado di abbracciare principi ecologici senza sacrificare la propria estetica.
Questa trasformazione mi ispira e mi fa riflettere su quanto sia importante il ruolo dei grandi nomi della moda nel promuovere un cambiamento culturale. La moda ha il potere di influenzare comportamenti e valori, e quando i designer di fama mondiale adottano pratiche sostenibili, mandano un messaggio potente ai consumatori e all’industria nel suo complesso.
Tuttavia, la moda sostenibile non riguarda solo l’utilizzo di materiali ecologici. Implica anche una produzione etica, che rispetti i diritti dei lavoratori e riduca al minimo gli sprechi. Significa promuovere la durabilità degli abiti, incoraggiando i consumatori a fare scelte più consapevoli e a ridurre il consumo eccessivo.
Riflettendo su questi aspetti, mi rendo conto che la moda sostenibile rappresenta un’opportunità unica per ridefinire il nostro rapporto con l’abbigliamento. Non si tratta solo di seguire una tendenza, ma di adottare uno stile di vita più responsabile e consapevole. Come consumatori, abbiamo il potere di sostenere marchi che rispettano l’ambiente e le persone, contribuendo così a un futuro più sostenibile per tutti.
L’articolo presenta un’analisi approfondita della moda sostenibile, evidenziando il suo evolversi nel tempo e le dinamiche che la caratterizzano. Ecco un riepilogo dei punti chiave:
1. Evoluzione della moda sostenibile: In passato, l’abbigliamento eco-friendly era considerato poco attraente, ma oggi la crescente consapevolezza ambientale sta trasformando il settore, rendendo la sostenibilità un principio centrale.
2. Rinascita di narrativas e protagonisti: Sebbene la sostenibilità sia emersa negli anni ’80, i risultati concreti spesso hanno deluso. Figure di spicco come Giorgio Armani e Stella McCartney hanno contribuito a promuovere l’ethos sostenibile nelle loro collezioni.
3. Green Carpet Challenge e celebrity culture: Il Green Carpet Challenge, lanciato da Livia Giuggioli-Firth, ha utilizzato l’influenza delle celebrità per rendere la moda sostenibile una questione di interesse pubblico, nonostante il rischio di greenwashing.
4. Ostacoli e critiche: Nonostante i progressi, esistono preoccupazioni sul greenwashing e sull’etica dei processi produttivi. La vera sostenibilità richiede il rispetto della dignità dei lavoratori, non solo affermazioni superficiali.
5. Passaporto digitale: L’idea di un passaporto digitale per i prodotti della moda, proposta da Federico Marchetti, potrebbe aumentare la trasparenza e aiutare i consumatori a fare scelte più consapevoli.
6. Persone e cultura: È fondamentale sviluppare una maggiore consapevolezza critica tra i consumatori sulle loro scelte d’acquisto e sulla vera sostenibilità, spostando l’attenzione delle pratiche di moda verso responsabilità sociali ed etiche.
7. Conclusione: Affinché la moda sostenibile abbia un vero impatto, è necessario integrare pratiche sostenibili in tutte le fasi del ciclo produttivo. La sfida consiste nel trasformare le dichiarazioni sulla sostenibilità in azioni reali e misurabili che diventino parte dell’identità operativa del settore.
In sintesi, l’articolo delinea un contesto complesso in cui, mentre ci sono progressi significativi nella moda sostenibile, persistono notevoli sfide e la necessità di un impegno più profondo da parte di tutte le parti coinvolte.
Gli abiti sostenibili stanno indubbiamente guadagnando sempre più consensi, con un numero crescente di persone che sceglie capi realizzati con materiali ecologici e prodotti secondo criteri etici. Tuttavia, per “vestire il mondo” in modo sostenibile, è necessario un cambiamento profondo che coinvolga non solo l’industria della moda, incentivando una produzione e un consumo più responsabili, ma anche altri settori e la vita quotidiana. È fondamentale un impegno collettivo per ridurre l’impatto ambientale e sociale di questa industria, affinché l’abbigliamento sostenibile diventi lo standard.
Nonostante si stiano facendo passi in avanti in questa direzione, il cammino verso una moda sostenibile su larga scala è ancora lungo. Senza un sostegno significativo da parte delle autorità e delle istituzioni, il percorso non solo sarà lungo, ma sarà anche difficile ottenere risultati concreti e significativi, sia nel settore della moda che in altri ambiti. Mi auguro che, con il tempo, sempre più persone comprendano che adottare uno stile di vita sostenibile porta benefici sia a livello personale che globale.