MILANO – La Galleria Cardi di Milano, in collaborazione con The Irving Penn Foundation, dal 9 settembre al 22 dicembre presenterà al pubblico italiano una vasta rassegna di immagini del celebre fotografo, considerato dagli addetti ai lavori e dai critici uno dei creativi più influenti del novecento, capace di riconfigurare gli standard della foto di ricerca, e di moda del suo tempo, dando ad esse uno stile che oggi percepiamo come opere provviste di una forte impronta artistica.
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Finalmente una mostra di Penn in Italia!
Non so dirvelo con esattezza, ma sono quasi sicuro che nel nostro Paese le opere di Penn raccolte seguendo un criterio storico/tematico esaustivo (cioè che copre tutte le fasi di una lunga carriera), non le vedevamo da decenni.
Da un certo punto di vista questa latenza è curiosa. Infatti se consideriamo il fatto che Irving Penn può tranquillamente essere considerato non solo uno dei fotografi più famosi e stimati del novecento, ma anche e aggiungerei, soprattutto un innovatore del linguaggio fotografico, citato, imitato, emulato da tantissimi colleghi, ebbene è divertente cercare di capire il perché in Italia, Paese tra l’altro che si considera leader nella moda, le rassegne presentate nel suo nome siano state una rarità.
Probabilmente, negli anni decisivi della sua carriera, l’essere divenuto famoso grazie a Vogue e alla moda non lo ha certo favorito tra i fondamentalisti dell’immagine socialmente responsabile che per decenni si sono arrogati il diritto di decidere cosa era giusto vedere e ammirare. Ovviamente sappiamo tutti che questi personaggi hanno potuto fare ben poco per arginare la deriva commerciale della industria delle immagini. Ma con più il loro Vangelo fotografico si discostava dalle trame delle narrazioni per immagini preferite dalla gente, e più aumentava la loro ansia di controllo, culminata nell’occupazioni di ruoli chiave nelle istituzioni che avevano il compito di culturalizzare gli effetti dell’effervescenza visuale della post-modernità (culturalizzare per quanto mi riguarda dovrebbe significare innanzitutto uno sforzo intellettuale orientato a distillare criteri critici per dare una metrica qualitativa ad ogni genere di immagini dalle quali nascono degli immaginari che mobilitano le emozioni di vasti raggruppamenti umani, e non la presunzione di stabilire gerarchie sulla base del politicamente corretto o qualcosa del genere).
Comunque c’è da dire che i pregiudizi intellettuali verso le immagini in qualche modo correlate a istanze commerciali, da qualche decennio sono in gran parte evaporati e non c’è museo al mondo che non ambisca a presentare rassegne dedicate alla foto di moda, di design o ai ritratti dello star-system realizzati da grandi fotografi. Il problema tutto italiano è la mancanza di Musei della moda e della fotografia, di valenza internazionale, ovviamente diretti da persone lontane dalla mentalità del “visivamente responsabile” evocata sopra.
Ovvero di istituzioni in grado di dare continuità a collezioni ed eventi di alto profilo grazie ai quali è più facile divulgare al pubblico la complessità del lavoro dei grandi fotografi che di solito scombina la retorica dei generi: per esempio, Irving Penn non è stato solo un geniale fotografo di moda e quando si smarcava dalle committente commerciali, le sue foto artistiche non erano una critica al genere fotografico che lo aveva reso celebre…tra queste due dimensioni (foto commerciale V/S foto artistica) non ci sono solo attriti ma anche connessioni e forse per l’estetica contemporanea le seconde sono più decisive delle prime. Qual’è la struttura che connette un po’ tutto il lavoro e le ricerche estetiche di Penn? Io la immagino come un insopprimibile desiderio di ordine o di controllo della messa in scena che rende cognitivamente pregnante una doppia percezione: io vedo nelle sue foto una enigmatica impronta di classicità ravvivata da un robusto sentimento di modernità, nel senso che la parola “moderno” aveva per gli artisti/fotografi americani della sua generazione. Modernità per essi significava mettere in discussione i canoni estetici europei e farla finita con sterili idealismi e ideologismi che isolavano le pratiche estetiche dai processi innovativi che stavano mutando la forma di vita americana.
Se osservo il lavoro di Penn superando i confini dei generi mi viene da pensare che ciò che lo interessava non era l’arte come potrebbero intenderla accademici, storici, critici, bensì nel senso di una sperimentazione pratica dei determinanti del processo creativo. Mi piace ricordare al lettore che l’uso di quest’ultimo concetto, creatività, diviene centrale nella nostra società proprio a partire dagli anni cinquanta del novecento, ovvero nella decade nella quale Irving Penn fu a tal riguardo un innegabile protagonista.
Probabilmente la sua giovanile vocazione artistica orientata verso la pittura e risoltasi con la distruzione quasi tutte sue opere dopo aver maturato l’idea di non poter ambire ad essere uno dei grandi, non cancellò affatto dalla sua mente ciò che potremmo avvicinare con le parole talento e sensibilità per l’assetto formale del materiale estetico. Queste caratteristiche interiori, corroborate dagli studi effettuati sotto la direzione di quel grande maestro che fu A. Brodovich mi permettono di capire l’immediata efficacia di Penn quando cominciò a collaborare con Vogue. Le cose per Penn andarono. grosso modo così: dopo aver studiato grafica e arte con colui che dalle pagine di Harper’s Bazaar stava rivoluzionando l’impaginazione di una rivista senz’altro decisiva per la maturazione del pubblico femminile, stimolato dal maestro fece il grafico per un paio d’anni..
Poi volle giocare tutte le sue carte per diventare un grande artista. Andò a risiedere in Messico e si calò nella più individuale e tragica esperienza estetica: essere artista d’avanguardia negli Stati Uniti degli anni cinquanta del novecento. Penn era un perfezionista e non accettava compromessi se si parlava di Arte. Non riuscendo a produrre nulla all’altezza delle sue ambizioni, cominciò a viaggiare per tutto il Messico facendo fotografie che ebbero la loro parte nel proseguo della carriera di Penn. Dopo due anni evidentemente ritenuti inconcludenti dall’artista, distrusse tutte le opere fatte con tanta fatica e rientrò a New York. Cosa era successo? Penn, anche quando divenne famoso come Avedon, non era molto generoso di notizie con giornalisti o scrittori da riviste. Per questo motivo è difficile rispondere alla domanda. Ma poi in quei giorni dopo il ritorno dal Messico chi era interessato al suo lavoro? È certamente vero, tuttavia, che quando si diventa molto famosi anche gli insuccessi possono trasformarsi nel contrario. Basta presentarli con le “narrazioni” giuste. Questi ragionamenti da star non sono mai stati di casa nella famiglia Penn\Fossangrive e quindi circolano poche informazioni su questa fase della vita del fotografo. Avanzo dunque la congettura che dopo le avanguardie storiche, dopo Man Ray, dopo Duchamps, e surrealisti, fosse realmente difficile per un giovane artista trovare il proprio stile, in un momento caratterizzato da una profonda sfiducia nel mondo delle cose e che darà vita all’Informale. Penn amava gli “oggetti” al punto da non riuscire a deformarli se non col tocco delicato della sua luce, il gesto espressionista come facevano i giovani artisti della sua generazione lo lasciava indifferente e tantomeno lo interessava l’estetica del puro “caso” nei dripping di Pollock.
Giunto a New York tentò di rientrare come art Director’s in qualche rivista importante. E certamente fu fortunato: Brodovich lo presentò a Lieberman arrivato negli Stati Uniti per rinnovare tutte le edizioni di Vogue in secca perdita contro un agguerritissimo Harper’s Bazaar, guidato da Irma Chase e come art director per l’appunto Brodovich. La guerra tra le due testate più importanti al mondo era senza esclusione di colpi. Come mai allora Brodovich favorì l’arrivo di Penn alla corte del quotatissimo Lieberman? Penso che il fatto di essere tutti e tre ebrei russo polacchi, abbia avuto la sua importanza. Forse Brodovich sottovalutò il talento di Penn: non poteva immaginare che in pochi anni sarebbe divenuto uno dei fotografi più importanti del pianeta.
Comunque approdato alla corte di Lieberman la velocità della carriera di Penn fu strabiliante. Ma se pensaste che in quei primi incarichi Penn facesse il fotografo sbagliereste della grossa. Il suo specifico lavoro era presentare le copertine così come le avrebbe volute il nuovo direttore creativo (e naturalmente aiutarlo a concepirle). L’ambiziosa squadra di viziatissimi e pagatissimi fotografi di Vogue (Beaton, Horst, Blumenfeld…) tergiversò un po’ troppo e così Alexander propose a Penn di realizzarla lui stesso.
Se osservate la foto 1 con lo sguardo intriso di scoppiettanti fotoni, certamente restereste delusi da una copertina poco emozionale. forse anche un po’ noiosa. Tuttavia nel 1943 quando fu pubblicata era una cover molto ambiziosa e intelligente. Per capirlo provate a ragionare sul quel particolare periodo: gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro tedeschi e giapponesi; non era in realtà “patriottico” far vedere modelle bellissime nella cover. Penn risolse il problema configurando uno spazio nel quale presenta il lusso etico ed efficiente, talmente pratico da starsene in mezzo ad altri oggetti che fanno pensare a una elegante dispensa.
Secondo A. Lieberman in Vogue servivano fotografi sensibili agli oggetti, perché solo così si sarebbe creato un punto di vista totalmente americano. Il budget messo a disposizione dall’editore all’art director era un forte aumento. Gli accessori del lusso implicavano molta più ricerca rispetto alla presentazione degli abiti. Andavano promossi perché lì si nascondeva il vero motore della moda. A tal riguardo l’intelligenza visiva di Penn era un dono prezioso. Quando scattava sapeva già il tipo di taglio ne avrebbe valorizzato la doppia pagina. Gli anni passati a studiare con Brodovich erano stati spesi bene. Non sapremo mai come erano le opere che distrusse quando pensava di aver messo fine alla sua carriera d’artista, ma conosciamo benissimo la sua produzione per la moda e per l’industria della bellezza. Sono convinto che non si debbano confondere queste due dimensioni dell’agire estetico. Le foto di moda devono avere contenuti percettivi di solito ancorati ad emozioni positive. L’artista può sbattersene di ogni contenuto positivo e oltraggiare ciò che la gente pensa sia bello, giusto, nobile.
Comunque la strada per divenire uno dei fotografi di moda più importanti del novecento era per Penn oramai in discesa.Vogue gli mise a disposizione lo Studio, le modelle più belle, i committenti più prestigiosi, i reportage più interessanti…Per cinquant’anni collaborò con la rivista impostandone almeno 150 cover.
Difficile trovare nel mondo adrenalitico della moda una simile coerenza. Probabilmente ci fu un momento di rilassatezza nei rapporti che Penn colmava con le sue ricerche e/o libri subito trasformati in mostre. Ma se ci fu qualche attrito con direttori e manager, tutto fu gestito con estremo tatto e senso del decoro.
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L’invenzione della modella intelligente
Lo so che è sempre complicato lanciarsi in avventure interpretative sullo stile di un fotografo della moda. Quasi tutti i più bravi imparano in fretta ad imitare gli stili preferiti dagli editors delle riviste importanti. Comunque se non ci provassi con Penn non avrebbe più senso dedicare anni di studi per catturare il senso delle forme dell’immaginario della moda.
Se qualcuno mi chiedesse quale è la specificità di Penn negli anni nei quali stava rapidamente divenendo bravissimo a fotografare in Studio, risponderei con queste parole:
(A) La luce di Penn è molto particolare; da quello che mi pare di capire dalle foto anni 50/60, amava utilizzare lampade al tungsteno con le quali smorzava i contrasti tanto amati dai fotografi della generazione precedente.. Penn amava lo strutturarsi di una luce ambiente (James J. Gibson) a bassa specificazione, con la regolazione dei grigi molto raffinata. B. Questa luce aveva anche un effetto particolare nei reportage di moda. Se guardate la (foto 2) non vi sfuggirà spero l’effetto di intelligenza che illumina la modella. Osservatene la disinvoltura, la controllata noncuranza nei confronti dell’uomo. È arrabbiata o è semplicemente stanca dopo aver ballato tutta la notte? Entrambe le ipotesi sono plausibili ovviamente, ma io ci trovo qualcosa di più ovvero l’intelligenza che ti rende libera. Sono parole forti che possono indurre a pensare che l’emancipazione femminile dipenda molto di più dalle riviste di moda e dai suoi fotografi migliori. Non arrivo a tanto. Ma se guardo le foto di Richard Avedon dello stesso periodo, le foto di Parkinson…Il sospetto diventa una quasi piccola verità.
Nella mostra milanese ovviamente troviamo molto di più delle foto o ritratti della moda.
Per esempi, guardate cosa faceva Penn con i mozziconi di sigaretta gettati per strada (foto copertina). Vogliamo chiamarla Arte Povera? Naturalmente nel senso dell’oggetto umile, elevato negli spazi mentali dei quali gli artisti sono maestri. Personalmente trovo le foto delle cicche straordinariamente potenti, con contenuti niente affatto banali. Vi troviamo infatti la relazione tra il soggetto implicito nello sguardo cioè il soggetto dell’inconscio e gli scarti, ovvero i residui che fanno da tappabuchi ponendosi apparentemente ai bordi della nostra vita cosciente, in realtà bucata nel suo centro dal desiderio.
Forse a vent’anni Penn non era ancora un artista. Ma poi certamente lo è diventato.
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io tutta questa intelligenza nelle modelle anni sessanta non la vedo
Io non confonderei le modelle anni ‘50, come Stella, Lisa, Doroty Parker…Non le confonderei con Twiggy, Veruska, Shrimpton. Con le prime potrei anche azzardare una cena; con le seconde boh! Non mi ricordo più cosa fare
A parte il fatto che la modella mito anni sessanta si scrive Veruschka, non vedo cosa abbiano di meno rispetto alla generazione dei ’50.
Hai ragione il nome della modella si scrive come hai suggerito.
C’è una parola che può aiutarci a comprendere la distanza tra le due generazioni: “classe” e aggiungerei anche “grazia”.
Nei sessanta si impongono invece modelle “camaleonte” in grado di recitare più ruoli. Nei cinquanta i gesti erano sotto controllo, nei sessanta cercano l’energia del sexy
Ma era più bravo Avedon o Penn? Io avrei detto Avedon, ma poi dopo aver letto l’art ho sfpgliato un libro di Penn e non sono più così sicuro.