Mast. Il senso dell’abito da lavoro ieri e oggi

Mast. Il senso dell’abito da lavoro ieri e oggi

BOLOGNA – L’importante mostra al Mast, intitolata “Uniform. Into the work/out of the work”, riaperta al pubblico all’inizio di Luglio dopo le fasi drammatiche della pandemia, oltre ad essere molto bella per la qualità delle immagini è un tema eccitante per chi ama frequentare una visione allargata della moda.


Cosa viene presentato al pubblico?

La mostra bolognese al Mast è divisa in due sezioni. Nella prima vengono esposti gli scatti di 44 fotografi che documentano con ritratti e messe in scena il tema della divisa da lavoro. Nella seconda sezione sono raccolte le immagini di un percorso di ricerca del fotografo Walead Beshty, centrato sui modi delle apparenze di alcuni protagonisti del mondo dell’arte (non solo artisti, ma anche direttori di gallerie, curator, clienti e addetti ai lavori).

Entrambe le sezioni, secondo gli organizzatori, evidenzierebbero gli sviluppi dell’abito da lavoro nel corso del novecento sino ad oggi.

Sostanzialmente pare di capire, seguendo il percorso della mostra, che i campi di significazione implicati dal viaggio tra le apparenze documentate dai fotografi coinvolti, possano dividersi in due gruppi: nel primo, l’abbigliamento da lavoro presenta una debole ma riconoscibile sintassi, articolata con una semantica fluttuante, tali da permettere l’emersione di caratteri o stili individuali; il secondo gruppo, per contro, presenta un abbigliamento che fa emergere l’effetto divisa e in certi casi “l’uniforme”. Quale la differenza tra le due? La “divisa” segnalerebbe l’appartenenza del soggetto a un determinato gruppo di persone in quanto distinte da altre, persone simili nelle apparenze per via di una logica funzionale che prende forma a partire da istanze codificate dal contesto lavorativo. La divisa diviene una “uniforme” quando emerge come dominante il senso di inclusione in un determinato gruppo (esempio classico: i militari e tutti i mestieri per i quali determinate funzionalità degli oggetti-per-il-corpo assorbono valori simbolici durevoli).

Si può notare come il primo gruppo di immagini sia caratterizzato da un tipo di relazione tra individui e i loro guardaroba da lavoro, che con Wittgenstein potremmo avvicinare con l’espressione “somiglianze di famiglia” ovvero da giochi d’abbigliamento dalla codifica soft che se pur consente il loro riconoscimento in quanto appartenenti a una determinata categoria di lavoratori non esclude affatto l’impronta individuale. In alcuni casi la libertà di interpretazione lasciata al soggetto è talmente marcata da trasformare le sue apparenze in una sorta di anti-uniforme. Il secondo gruppo presuppone invece una codifica forte, stabile e dalla semantica sostanzialmente rigida.

Walead Beshty, Vinales Graphics Istaller, 2017                                                   Walead Beshty, Collector, 2013

L’abito (non) fa il monaco

La mostra al Mast è ragguardevole dal momento che eventi di questo genere sono decisamente rari. A parte l’evento alla Triennale di Milano, Workwear, del 2014, decisamente centrata sulla trasfigurazione artistica del capo di lavoro (molti dei prototipi presentati in quell’occasione, pur con tutta l’ironia che volete, risultavano importabili e troppo artistici), per quanto riguarda il nostro Paese ho il solo ricordo della mostra alla Stazione Leopolda di Firenze nel 2009, intitolata “Workwear-Lavoromodaseduzione”. A tal riguardo, Oliviero Toscani, nel catalogo della mostra fiorentina sintetizzava con queste parole il senso olistico di quella ricerca centrata sul rapporto tra abbigliamento da lavoro e moda: “L’abito fa il monaco, il metalmeccanico, l’avvocato, il rapper, il banchiere, la signora alla moda, il fantino, il musicista, il cuoco, la prostituta, il poliziotto…I nostri abiti sono l’immagine è la sicurezza di ciò che siamo o facciamo”.

Ebbene, anche la mostra al Mast in apparenza sembrerebbe suggerire che, malgrado le evidenti libertà interpretative dell’abito da lavoro, ben visibili a partire dall’ultima parte del novecento, la nostra abilità percettiva nel riconoscere la trasfigurazione delle forme, mantenendo cognitivamente pregnante un cluster minimo di segni dalla significazione condivisa, anche le foto esposte al Mast dicevo, confermano il vecchio proverbio ricordato dalla citazione di Toscani. Se proprio vogliamo essere pignoli potremmo correggere il proverbio popolare che suona “l’abito fa il monaco” nell’enunciazione più sottile e arguta che, citando (a memoria) Umberto Eco, metterei giù così: “Sia che l’abito faccia o non faccia il monaco, è significativo che lo parli benissimo”.

 

Immaginiamo ora, dopo essere entrati insieme ad un piccolo gruppo (il Mast applica regole anti-Covid 19 molto rigorose), e di aver già visto una lunga smitragliata di opere esposte, immaginiamo che sentiate emergere in voi l’imbarazzante sentimento della noia assoluta tipica delle mostre fotografiche in qualche modo aggregabili all’idea della documentazione sociale. A un certo punto della vostra visita al Mast, vi suggerirei di interrompere o rallentare per un attimo la visione della carrellata di foto, sono infatti centinaia e malgrado molte di esse siano ragguardevoli, la loro coerenza tematica tende a narcotizzarne le specificità (alcune sono veri capolavori). Quindi, così tanto per dare fiato al vostro sguardo, potreste chiedervi come mai e quando, il vecchio proverbio che abbiamo utilizzato per circoscrivere l’ossatura del senso immediato della polifonia di immagini esposte, abbia invertito la sua significanza.

Infatti le sue origini risalgono al Medioevo e per secoli è circolato soprattutto nella forma “habitus non facit monachum”. Non fidatevi delle apparenze, l’esteriorità inganna, la pelle esterna del soggetto non riflette il suo interno o la sua anima, più o meno era questo il monito aggregato al proverbio. Da quei giorni, questa formula discorsiva ha attraversato i cambiamenti culturali, configurandosi in forma letterarie assai diverse. Per esempio, nei Colloquia di Erasmo, possiamo leggere:”Dio riconosce un mascalzone sotto l’abito francescano come sotto l’uniforme militare”. Ma allora il problema si complica: chi non è Dio cosa deve pensare dell’abito?

Quando la negazione del proverbio si è trovata in minoranza? Come mai e quali circostanze hanno cambiato la valenza del proverbio? La risposta più semplice chiama in causa la progressiva perdita di adesività del paradigma religioso dell’identità. Rispetto ad un’anima che non si vede, la gente, nelle faccende pratiche di tutti i giorni, si è diretta verso le apparenze visibili. Per esempio, farsi un’idea immediata di chi ci sta di fronte indubbiamente è una questione non priva di risvolti interessanti. Narcisisti di successo come Oscar Wilde hanno trasformato questo interesse pratico in idiozie letterarie, scrivendo: “Non c’è mai una seconda occasione per fare una buona impressione”…Una evidente cazzata che però ha il merito di anticipare l’attuale pletora di consulenti d’immagine e di pubblicazioni basate sulla prevalenza del lettore credulone. Se avete dei dubbi vi invito a leggere “You are What you Dress” (Sei quello che indossi), di Jennifer Baumgartner, “Mind What you Wear” (Stai attento a quello che indossi) di Karen Pine…Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo. Per farla breve, l’idea che l’influenza della prima impressione abbia un impatto quasi decisivo per classificare “l’altro“, è forse la conseguenza più devastante della perdita di profondità del soggetto, segnalata dalla scomparsa della negazione nel proverbio in oggetto. Non è vero che ciò che si indossa non è mai casuale; non è vero che quello che indossiamo rispecchia sempre come ci sente in un determinato momento; non è vero che ci vestiamo sempre come vorremmo essere visti dagli altri.

Tuttavia non possiamo nasconderci il fatto che l’abito trasformato in una rete di segni dal significato più o meno stabile, sia divenuto uno dei dispositivi dell’identità moderna, consentendo a chiunque di collocare il proprio simile in qualche casella semantica e al tempo stesso, con lo stesso movimento, rappresentare se stesso sulla scena sociale secondo un progetto (di stile).

L’emersione della disposizione interiore che frettolosamente chiamiamo moda ma che in questo contesto dovremmo discorsivizzare nei termini di “accettabilità” delle “novità”, ha reso la funzione dell’abito da lavoro via via sempre più plastica e flessibile.

Pescivendoli (1950) di Irving Penn                            Macellaio (1950) di Irving Penn

Di alcune immagini esemplari

Se guardate le meravigliose immagini scattate da Irving Penn nel 1950, il ritratto di due giovani macellai, la prima, e un pescivendolo, l’altra, non dovreste avere problemi nel riconoscere l’intenzione del fotografo nel configurare per entrambi, aldilà della pur evidente divisa da lavoro, una sorta di stilizzazione che personalmente vedo nel dettaglio della cravatta e del foulard indossati dai soggetti,

piuttosto che nello sfondo cartaceo, tipico della messa in scena, in quel periodo, dei ritratti di moda in studio sia di Penn che del collega/rivale Richard Avedon.

Anche Ritts con la foto di Fred (1984), allude alla significanza modaiola facendo interagire la parte superiore del corpo denudato e in tensione, in modo tale da porre in rilievo muscoli palestrati, con la tuta da lavoro che ricopre, disordinata, gli arti inferiori. La simmetria semantica tra le due enormi ruote che permettono al modello di creare la tensione muscolare e gli sbragati calzoni bilanciano il pattern estetico del portamento da eroe, molto frequentato dai fotografi di moda negli anni ottanta del novecento.

H. Ritts, Fred con i pneumatici, 1984
H. Ritts, Fred con i pneumatici, 1984

Per contro, la mancanza di ogni riferimento allo stile della foto di Sung Chao sembra farci percepire ciò che potremmo avvicinare con l’espressione “il grado zero dell’abito da lavoro”: nel campo della visione, per quanto riguarda la divisa da lavoro, tutto è utile e intuitivamente funzionale alle azioni che immaginiamo certificare la professione del soggetto. È doveroso aggiungere che il fotografo con la scelta dello sfondo completamente bianco focalizza lo sguardo sul personaggio, enfatizzandone il sereno orgoglio professionale, senza fare sconti sulla durezza del rischioso lavoro del minatore. Siamo di fronte al tentativo di andare oltre alla foto situazionale o documentativa, in direzione di contenuti più complessi. Mi viene spontanea la parola “integrità” ma se volete usare “autenticità” va bene lo stesso, ovvero l’esterno, la divisa da lavoro si compenetra con la presupposizione di qualità interne al soggetto, tale per cui ci illudiamo possano essere una cosa sola. La derivata dell’illusione è la credenza di stare guardando un membro di una classe particolare, in questo caso “i minatori”.

mast Sang Chao, serie minatori, 2000/2002
Sang Chao, serie minatori, 2000/2002

August Sander, giustamente rappresentato nella mostra bolognese, è stato il poeta e teorico di questa propensione che abbiamo nel percepire primariamente stereotipi o prototipi di una classe. Le sue foto dei mestieri ancora oggi ci incantano per l’eccezionale corrispondenza tra l’esterno e ciò che supponiamo debba esserci dentro il soggetto. Tuttavia, nel caso di Sander ma anche di Sang Chao, è sufficiente concentrarsi sullo sguardo per uscire dalla trappola dello stereotipo e incontrare l’affascinante mistero dell’individuo.

Se dovessi esprimervi una mia preferenza, segnalerei la foto di Sebastiao Salgado, quella dell’operaio della Safety Bass Company, ripreso durante una pausa (1991). È una immagine che commuove per l’umanità della posa e l’espressione del soggetto, ma nello stesso tempo ci immerge negli oscuri colori del drammatico rapporto uomo-ambiente. Lo scatto venne effettuato dal celebre fotografo in Kuwait, subito dopo la fine della Guerra del Golfo. Saddam Hussein accecato dalla rabbia e dall’impotenza, bombardato oltre misura senza praticamente alcuna possibilità di reazione, fece incendiare decine di pozzi di petrolio che continuarono a bruciare per mesi. Il disastro ecologico fu in parte evitato da pompieri specializzati provenienti da tutto il mondo, che si prodigarono per estinguere il fuoco. Il personaggio della foto è uno di essi. Il fascino oscuro dell’immagine, nel mio caso, nasce dall’empatia che provo per l’operaio. È come se mi trovassi al suo posto e stessi meditando, esausto, sui disastri di ogni guerra, giusta o ingiusta non importa. Ovviamente è solo una mia personale reazione emotiva, approdata al nucleo di pensieri che, alla fine, danno un senso a ciò che all’inizio appare shockante, insensato.

Ancora, mi piace vedere nella foto di Salgado una sorta di paradosso: l’abito da lavoro diviene una appiccicosa seconda pelle che prende il posto di quella vera lasciandomi il dubbio di quali delle due sopravviverà a quell’esperienza.

Sebastiao Salgado, Operaio della Safety Bass Company durante una pausa, 1991

La mostra al Mast rimarrà aperta al pubblico fino a settembre. Per visitarla occorre prenotarsi. Agli interessati consiglio di visitare  il sito del museo Mast per tutte le informazioni utili.

 

Lamberto Cantoni
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57 Responses to "Mast. Il senso dell’abito da lavoro ieri e oggi"

  1. Mary   25 Agosto 2020 at 09:12

    Lo sappiamo tutti che l’abito non fa il monaco. Ma perché ci comportiamo come se fosse vero il contrario? La mostra è stata concepita molto bene. La divisa di lavoro deve essere riconoscibile e quindi effettivamente deve fare il monaco. Ma poi cosa dice di lui? Non mi pare che dica molto di più di una appartenenza.

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    • Antonio Bramclet
      Antonio   25 Agosto 2020 at 13:05

      Sono d’accordo. A livello informativo l’abito da lavoro non dice granché. Ma forse non entra in gioco solo l’informazione.

      Rispondi
  2. Lamberto Cantoni
    Lamberto   26 Agosto 2020 at 11:58

    Quanto vediamo una persona di certo otteniamo informazioni dall’abito che Indossa. Sono d’accordo con chi sostiene che spesso sono informazioni tutto sommato banali. Ma il nostro occhio, l’attivita percettiva, ciò che intuiamo non sono riducibili alle parole/informazione con le quali linearizziamo il senso. Il nostro atteggiamento nei confronti della persona con la quale si crea un contatto, è fondamentalmente non-lineare, per esempio subisce l’interferenza del flusso emotivo. Non-lineare significa che non abbiamo le parole/informazioni per classificarlo in modo totalmente intellettuale. Tuttavia qualcosa in noi ci porta a prendere decisioni in termini di comportamento.

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  3. Anna   27 Agosto 2020 at 12:04

    L’abito fa il monaco è una verità sacrosanta. Soprattutto sul lavoro. Il Dress Code è quasi un obbligo. Chi non lo rispetta può andare incontro a conseguenze spiacevoli.

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    • enzo   31 Agosto 2020 at 09:36

      Sono d’accordo con Anna. L’abito dice chi siamo. L’idea della mostra al Mast è importante perché si parla troppo poco dell’abito da lavoro. Spero di riuscire a vederla.

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  4. Giorgia Caroni   4 Novembre 2020 at 19:16

    Appurato che, la divisa identifica una persona mettendola in un contesto lavorativo o sportivo che sia, ponendola anche allo stesso livello delle persone facenti parte dello stesso, mentre l’uniforme, oltre ad identificare in un contesto lavorativo un soggetto, lo identifica anche in un ruolo ottenuto, mi ricollego alla frase scritta da Lamberto Cantoni: “Non fidatevi delle apparenze, l’esteriorità inganna, la pelle esterna del soggetto non riflette il suo interno o la sua anima” condividendo questo punto di vista che “l’apparenza inganna”. Se ci troviamo davanti una persona con determinate vesti, bisogna sempre aver presente chi le indossa perché un’uniforme da lavoro può esprimerci sicurezza su l’impiego che svolge il determinato soggetto, ma non sulla persona che potrebbe essere, quindi possiamo giudicarlo solo con la nostra prima impressione che potrebbe, però, risultare sbagliata.
    In ogni caso, secondo me, non bisogna confondere la divisa/uniforme con il detto “l’abito non fa il monaco” perché non sempre siamo ciò che indossiamo. Se vediamo una persona vestita in un determinato modo, che va ad identificarsi in un determinato stile, non per forza l’anima di quella persona fa parte di quello stile. Mentre, se durante le ore di non lavoro, quindi liberi di essere sé stessi, dovessimo incontrare un nostro ipotetico cliente, il nostro abito non farebbe il monaco perché, lui conoscendoci, saprebbe che siamo noi stessi in qualsiasi abito. Come disse Umberto Eco:” L’abito non serve soltanto a proteggere dal freddo o dal caldo, ma distingue il militare dal civile, il prete, il poliziotto, la hostess, il giocatore di una squadra di calcio da quella di un’altra. L’abbigliamento insomma è un linguaggio”.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   5 Novembre 2020 at 09:58

      Condivido quello che hai scritto. Mi permetto un paio di ulteriori considerazioni. Non c’è nulla di sbagliato nel considerare l’abbigliamento una forma di linguaggio, a patto però di farsi carico dei limiti di questa metafora. Se è un linguaggio direi che si presenta in modo decisamente ambiguo. Non è ben chiaro cosa vogliamo dire o cosa ci dicono i nostri simili, attraverso l’uso del guardaroba.
      Io la metterei giù così: l’abito è percettivamente pregnante ovvero ci impone un senso immediato che quasi mai corrisponde alla semantica di un soggetto in divenire (cioè ai comportamenti dai quali congetturiamo caratteri, emozioni,passioni che lo animano).

      Rispondi
  5. Giorgia Baldassari   4 Novembre 2020 at 19:16

    In base alla lettura appena svolta sulla mostra al Mast, intitolata “Uniform”, sono arrivata ad una mia conclusione; penso che l’abito non faccia il monaco, in quanto, non sempre gli indumenti indossati rispecchiano l’identità di una persona perché si può indossare solo vestiti neri ed essere la persona più allegra di questo mondo, o viceversa. Quello su cui, subito, ci basiamo è un primo pensiero personale, dato dal primo impatto visivo, che abbiamo sulla persona che ci si pone di fronte.
    Quello che ci differenzia, dunque, è il contesto e il momento, nel quale andiamo ad indossare tale divisa, o uniforme, perché magari una persona sentendosi male ed essendo soccorsa da un’uomo X vestito in felpa e jeans, che cerca di aiutarla, di primo acchito, tende ad allontanarlo in quanto non lo identifica nel ruolo di medico, mentre, se in quel momento, lo stesso uomo, gli si presenta in uniforme, non si farà problemi e si lascerà aiutare.
    Quindi come disse Agatha Christie: “Mai giudicare un libro dalla copertina” poiché l’abito, semplicemente, ci fa capire in quale contesto lavorativo rientra e non aggiunge altre informazioni a livello personale.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   5 Novembre 2020 at 10:13

      Il contesto dunque valorizza la formula “l’abito fa il monaco”. Direi che per l’abito da lavoro può funzionare. Ma a quali condizioni? Forse in ambienti lavorativi fortemente strutturati.
      La citazione di Agatha Christie è piena di buon senso. Ma allora come mai gli esperti del marketing sostengono che il modo in cui si presenta un prodotto è in grado di aumentare le vendite? Come mai gli editori pagano profumatamente chi ha talento nel configurare il design di una copertina?

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  6. sebastiano baratta   5 Novembre 2020 at 15:20

    L’abito a seconda del periodo storico ha sempre cambiato la sua funzionalità, in base alle esigenze dell’uomo in quel determinato periodo storico.
    La celebre frase “l’abito non fa il monaco”, dal mio punto di vista non è giusta ma neanche sbagliata, l’abito può essere considerato come un “linguaggio”, un linguaggio che prende come punto di riferimento le convenzioni della società.

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  7. Silvia Pedrelli   5 Novembre 2020 at 19:00

    Nel business l’abito fa il monaco, come la copertina fa il libro.
    Personalmente, se mi trovo in una libreria, evito indistintamente di soffermarmi su copertine anni ’90, copertine con caratteri cubitali o quelle di Harry Potter, ma capisco immediatamente dove vale la pena fare una sosta.
    La prima impressione infatti, si crea prima del ragionamento. Al giorno d’oggi, ancor più che in passato, l’apparenza conta.
    Lo stesso concetto possiamo applicarlo al vestiario, che è apparentemente ciò che si trasmette immediatamente a una persona che non si conosce. Ciò che si indossa fa parte della propria immagine e del messaggio che si vuole trasmettere.
    Significa lasciar trasparire la propria identità e personalità. Significa comunicare.
    Allo stesso modo, un logo o un prodotto possono comunicare molto sulla nostra attività. Certo, da soli non bastano, come assieme all’abito è di grande valore il nostro sguardo, la nostra espressione o il nostro modo di porci, per essi è invece necessario un buon contenuto. A questo punto potrei rivedere il detto “l’abito non fa il monaco”, ma come ribadisco, la prima impressione viene prima del ragionamento.
    Confermo quindi il mio pensiero, secondo il quale l’abito fa il monaco, come la copertina fa il libro e il logo fa l’azienda.

    Rispondi
  8. Siria Vaselli   6 Novembre 2020 at 11:52

    Dopo aver letto l’articolo vorrei esporre il mio pensiero. L’ espressione”l’abito non fa il monaco” spesso viene riferita a quella che è la quotidianità. Per quanto riguarda l’ambito lavorativo penso che l’abito serva all’individuo a livello percettivo. Mi spiego: all’interno degli ospedali per esempio, ci sono tantissimi lavoratori; dai medici alle infermiere differenziate per reparto, alle segretarie ecc. L’abito individua una cerchia, una professione: sappiamo che chi veste di bianco spesso è un dottore mentre chi veste di rosa solitamente è un ostetrica. Ciò ci permette a prima vista di riconoscere quale sia la sua funzione e indirettamente se può esserci utile oppure no.
    L’abito nel contesto lavorativo riveste anche una funzione sociale di sicurezza se vogliamo. Porto ad es in considerazione le vesti degli operatori elettrici che spesso hanno il compito di controllare i nostri contatori elettrici. Il loro determinato e preciso abbigliamento serve per distinguerli e di conseguenza a capire che è effettivamente responsabile di quel lavoro. Quante storie abbiamo sentito di povere vecchiette che hanno aperto la loro casa a truffatori che utilizzavano questo impiego come scusa per fare refurtive?. In questo caso l’abito, se riconosciuto come falso avrebbe evitato lo scippo alla povera vecchietta.
    Poi rimane ovvio il fatto che l’abito non dia garanzia di affidabilità a livello umano, personale e qualitativamente parlando, professionale.

    In altri contesti quali la quotidianità l’abito non è così indispensabile, credo che l’importanza attribuitagli si debba alla coscienza del singolo.
    Chiunque sa che può essere un eccellente persona e un bravissimo lavoratore, ma si sa anche che se quest’ultimo si presenta ad un colloquio di lavoro in tuta sciatta e ciabatte non sarà sicuramente ricontattato.
    Questo accade perché in questo decennio grazie anche ai social come per es Instagram, l’apparire ha aumentato e influenzato vuoi o non vuoi il pensiero comune e si è arricchito il significato di “apparenza”. Apparire oggi è comunicare. I colori, gli abbinamenti, gli stili identificano in modo intrinseco un concetto o un idea che parte in modo automatico da chi ci guarda. Fondamentalmente la pubblicità fa lo stesso ma anziché utilizzare abiti utilizza grafiche; questo ci assicura che una bella pubblicità venda di conseguenza un buon prodotto? Non ci scommetterei.

    Rispondi
  9. Alice Colombari   6 Novembre 2020 at 14:22

    Leggendo questo articolo dedicato alla mostra creata al Mast, intitolata “Uniform”, penso che l’abito non faccia il monaco, ma che sia fondamentale per poterlo riconoscere.
    Per potersi differenziare in un contesto ampio l’abito in un certo senso diventa parte fondamentale per poter riconoscere un determinato ruolo nella società.
    La prima impressione si crea sempre senza avere il tempo di creare delle supposizioni riguardanti un ipotetico soggetto, in base al suo vestiario: la nostra mente crea associazioni velocemente e in questo caso viene messa in gioco una sorta di percezione riguardante il ‘vestiario’ di un ipotetico soggetto, inquadrandolo con un determinato ruolo nella società.
    Questo succede anche nel nostro campo, quello della grafica pubblicitaria; quando ci imbattiamo per la prima volta in un logo senza conoscerne l’attribuzione, noi associamo esso a determinati campi attraverso la forma, i colori, il nome. Attraverso la prima impressione creiamo un ipotetico ruolo a quel logo. Per questo ribadisco il concetto del detto ‘l’abito (non) fa il monaco’ ma che sia fondamentale per poterlo riconoscere e per poterlo inserire all’interno della società.
    Ad esempio, se viene creato un logo ‘errato’ tutto il resto del progetto non funziona, così vale lo stesso per l’abito.

    Rispondi
  10. Fedor Beserra   6 Novembre 2020 at 14:24

    Prendendo in analisi la recensione appena letta sulla mostra dell’abito, giungo ad una mia conclusione; ho analizzato tutto dal punto di vista di un pubblicitario, ovvero, uno che per mestiere deve vendere e rendere appetibile un prodotto.
    Fatta questa premessa, dico che a mio avviso l’abito fa il monaco, visto che la persona, nella maggior parte dei casi, si cerca di vendere nel miglior dei modi alla società che la circonda e che la giudica. A parer mio la prima impressione è importantissima e non va trascurata.
    Ed è proprio su questi stereotipi dell’apparenza che, dal mio punto di vista, si regge tutta l’industria della moda.
    Perché Gucci funziona? Perché Luis Vuitton, Balenciaga, Louboutin, e altri brand di questo genere sono desiderabili nonostante il loro prezzo elevato?
    Perché scegliamo Nike rispetto ad Adidas?
    Perché nella società consumistica di oggi, inevitabilmente, queste etichette, fanno emergere rendendo il “monaco” molto più attraente agli occhi degli altri.

    Rispondi
  11. Francesco Bertozzini   6 Novembre 2020 at 15:59

    “L’abito non fa il monaco” o “l’abito fa i monaco”?
    Penso che ci sia una base di verità in tutti e due i casi.
    Il primo detto è sicuramente veritiero ma, credo che sarebbe ipocrita pensare che l’apparenza non influenzi il nostro giudizio.
    Nel secondo caso invece si incorre in vera e propria superficialità generica.

    Resta il fatto che, l’abbigliamento, è fondamentale per comunicare chi siamo.
    Io lo considero come una forma di linguaggio o, una chiave di lettura…
    Quando ci si incontra per la prima volta, l’istinto irrazionale umano tende a giudicare l’interlocutore in base all’aspetto esteriore.
    L’associazione nella nostra testa avviene molto prima che il cervello riesca a formulare una valutazione razionale, questo perché: non è la realtà comandare, ma la percezione.

    In ambito lavorativo è palese che l’uniforme o la divisa servano ad identificare il gruppo di appartenenza, tuttavia non dice nulla della personalità di chi la indossa.

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  12. Elisa Tito   6 Novembre 2020 at 18:59

    Secondo un mio punto di vista nel contesto divisa/uniforme l’abito fa il monaco, deve fare il monaco; la divisa/uniforme serve a farsi riconoscere, riconoscere un determinato tipo di mestiere, un determinato tipo di ruolo all’interno di un lavoro e serve a distinguersi, ad esempio per quanto riguarda lo sport con la distinzione delle squadre o gli operatori all’interno di un ospedale; però fondamentalmente non dice nulla a riguardo della persona che la indossa ma la classifica solamente in un contesto lavorativo.
    Mentre la frase “l’abito non fa il monaco” analizzata in un contesto sociale, di quotidianità è diverso, si fonda sull’idea dell’apparenza.
    Sono fortemente d’accordo con questa espressione, ma purtroppo nella società odierna, specialmente, “l’abito fa il monaco” ci si ferma ad una futile apparenza e si classifica chi ti è di fronte solo con una primissima impressione senza andare a fondo, sapere chi è l’altro, la sua interiorità. Si è in un certo senso superficiali.
    Concludo citando questa frase: “ la raffinatezza è interiore e rende superfluo ogni abito”.

    Rispondi
  13. Silvia Savioli   7 Novembre 2020 at 11:47

    In effetti anche se il proverbio recita “l’abito non fa il monaco” dobbiamo fare sempre i conti con le apparenze. Questo succedeva sia nell’antichità ma anche al
    giorno d’oggi, infatti da sempre l’abbigliamento e gli accessori danno informazioni sul nostro status. L’abito ricopre da sempre un ruolo essenziale nelle relazioni umane perchè rappresenta il modo in cui le persone si identificano e si riconoscono. L’abito da lavoro
    è uno degli elementi più riconoscibili e definisce la percezione che hanno le persone nei nostri confronti, soprattutto se si tratta di un primo incontro, il giudizio che diamo di una persona è automatico. Quando conosciamo per la prima vola una persona, ci facciamo subito
    un’idea su che tipo sia, e questa prima impressione si mostra molto tenace alle disconferme.
    Quindi il modo di presentarsi e l’abbigliamento ci aiutano a
    rendere più chiaro il nostro giudizio. La divisa da lavoro ha la funzione di determinare la professionalità di tale persona, indossare il vestito giusto rappresenta come un biglietto da visita e condiziona la fiducia che trasmettiamo nell’altro. L’abito non fa il monaco, però influenza la prima impressione, non è un caso che un importante frase nella comunicazione dice:
    “Non hai mai una seconda occasione, per dare una buona prima impressione”.

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  14. Beatrice Ricci   7 Novembre 2020 at 15:57

    Oggigiorno, nonostante vi sia una libertà espressiva maggiore nel modo di vestirsi ed esprimere il proprio io, l’apparenza ha un ruolo molto importante in vari ambiti lavorativi dove l’abbigliamento e la prima impressione rappresentano una sorta di “biglietto da visita” che contribuisce a conferire maggiore credibilità e professionalità all’individuo che svolge una determinata mansione.
    Come afferma Oliviero Toscani “L’abito fa il monaco, il metalmeccanico, l’avvocato, il rapper, il banchiere, la signora alla moda, il fantino, il musicista, il cuoco, la prostituta, il poliziotto …
    I nostri abiti sono l’immagine di ciò che siamo e ciò che facciamo” ed infatti si può dire che l’abito può essere paragonato ad una sorta di “costume” che attribuisce a chi lo indossa un ruolo ben definito, classificabile e riconoscibile dalla società; ciononostante è importante tenere conto del fatto che i vari individui non sono il lavoro che svolgono e che al di fuori di un contesto lavorativo possono anche manifestare una personalità, stile, attitudine molto distante dalla loro occupazione professionale.

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  15. Claudia Varano   7 Novembre 2020 at 18:45

    La prima impressione si crea senza aver avuto il tempo di fare qualsiasi ragionamento o supposizione, non è la realtà a comandare, ma la percezione. Indipendentemente dalla nostra volontà nella nostra testa avvengono delle associazioni molto prima di riuscire a formulare una valutazione razionale, poi però bisognerebbe riuscire ad andare oltre. L’apparenza è innegabilmente importante ormai in ogni contesto, ma ha i suoi limiti.

    Rispondi
  16. Daniela Panuta   8 Novembre 2020 at 13:06

    l proverbio recita: l’abito non fa il monaco! Implicitamente invita a diffidare delle apparenze (non è tutto oro ciò che luccica), perché spesso sono ingannevoli e perché com’è giusto che sia, le persone non sono come sembrano, almeno ad una prima occhiata.
    Per quanto vogliamo tentare di essere obiettivi, dobbiamo sempre ricordare il nostro cervello è composto da due emisferi, il destro e il sinistro.
    Il giudizio che diamo di una persona è automatico (quindi inconscio).
    Nel giro di 10 secondi decidiamo IN oppure OUT. In quella manciata di secondi valutiamo la persona. Ci guidano alcune cose tipo, il modo di presentarsi, l’abbigliamento, come si esprime, la sua mimica quindi, siamo influenzati molto dalla comunicazione non verbale.
    Facendo un salto indietro, proviamo a pensare alla preistoria, quanto a quell’epoca l’abito non era importante poiché l’uomo era focalizzato su altre questioni quali quelle della sopravvivenza, quindi l’abito era visto come un oggetto dedito alla sopravvivenza , privo di identificazione personale o di gusto estetico.
    Oggi invece viviamo in una società in cui l’abito ci identifica al 100%, che fa di noi un’oggetto di analisi per gli altri, anche se ciò non vuol dire che quello che indossiamo esprima la nostra personalità, poiché quello che abbiamo attorno ci condiziona; essere sé stessi al 100% non é mai facile diretto e soprattutto vero. In molti casi vogliamo apparire ciò che non siamo solo per essere accettati da ciò che ci circonda.
    Abbiamo mai provato ‘a pelle’ di giudicare una persona? Quante volte hai o ti sei detto: ‘quella persona non mi piace’? Il tutto, quanto tempo ti ci è voluto? Qualcuno dice massimo 10 secondi.
    Questo vale anche per noi: in pochi secondi anche tu, a pelle, hai dato la tua impressione.
    Con il tempo può cambiare, naturalmente, ma se devi ‘vendere’ qualcosa a qualcuno, non hai chance future, ti giochi tutto subito.
    I ricercatori hanno dimostrato che i primi minuti, condizionano le emozioni, i giudizi e i pensieri,  in merito a ciò che siamo.
    Ecco perché, anche se l’abito non fa il monaco, influenza pesantemente la prima impressione.
    Viviamo in una società chiusa, che ci porta a dare un giudizio il più delle volte affrettato e privo di fondamenti se non quelli di gusto estetico, penso che siamo ciò che indossiamo, ma che la società odierna ci chiuda in degli schemi comportamentali che ci portano ad essere in un certo senso tutti uguali, che ci toglie l’identità poiché per esprimerti devi fare uso degli strumenti che ti vengono offerti dal mercato e che ti identificano al 50%.
    Esprimere sé stessi con gli abiti non é facile, ma la cosa più difficile é avere a che fare con coloro che in base a quello che indossi giudicano e identificano la tua persona. A tal proposito si “l’abito non fa il monaco” ma quello che indossi ti posiziona nel mondo e nella società, ti giudica, ti chiude mentalmente, TI LIMITA nelle scelte, ti costringe ad essere il più delle volte non chi VUOI ESSERE, ma chi DEVI ESSERE.

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  17. Giorgia Verdini   8 Novembre 2020 at 14:10

    Condivido a pieno la frase utilizzta nell’articolo “Non fidatevi delle apparenze, l’esteriorità inganna, la pelle esterna del soggetto non riflette il suo interno o la sua anima”, in quanto nella società, sopratutto odierna, finiamo per farci un’impressione della persona basata solo sull’esterno.
    La famosa frase “L’abito fa il monaco” secondo il mio pensiero potrebbe essere sia giusta che sbagliata, l’abito ci aiuta ad identificare il ruolo di una persona che ricopre nella società, ma nella stessa società al di fuori del mondo lavorativo, mi permetto di dire che “l’abito non fa il monaco” in quanto l’esterno non sempre coincide con l’interno.

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  18. Lucia Morigi   8 Novembre 2020 at 15:19

    “L’abito fa o non fa il monaco?”
    Una domanda che ci facciamo spesso, ma che di questi tempi, non sappiamo dare una risposta precisa.
    Viviamo in una società dove l’aspetto, volente o nolente conta molto, dato sia dalle aspettative sociali che dalla comparsa di social network come Instagram, che puntano tutto sulla impressione che gli altri si fanno di noi.
    A livello sociale ognuno di noi cresce in contesti di gruppo diversi fin dalla nascita: famiglia, scuola e gruppi amicali. Ognuno compie le proprie scelte elabora progetti, realizza i propri piani, spesso adottando una pluralità di comportamenti, per essere accettati dalla società stessa.
    Detto ciò, molto probabilmente, per la regola del status/ruolo, in base alla propria posizione sociale noi ci aspettiamo che un soggetto si comporti e si vesta in un certo determinato modo, senza considerare la storia personale e psicologica dell’individuo.
    I social, infatti, ci hanno portato ad una valutazione sempre meno approfondita di ciò che vediamo e analizziamo, ci soffermiamo poco, frazioni di secondo, su ciò che ci viene presentato.
    Per quanto riguarda il mondo del lavoro, diciamo che la regola è quasi la stessa, anche perché per la maggior parte dei lavori è richiesto un’abbigliamento particolare, che sia utile/pratico e allo stesso rappresentativo della posizione a cui si è assegnati.
    Quindi, “l’abito fa il monaco “, proprio perché la nostra prima impressione è quella che conta, se l’individuo con cui parliamo non colpisce subito la nostra attenzione, non saremo motivati a decidere se fidarci e approfondire la conversazione o la conoscenza; infatti la prima impressione non è mai oggettiva, perché condizionata da schemi mentali, ricordi, aspettative e così via, e più siamo rapidi a dare giudizi più saremo lenti a modificarlo.
    Come ho detto in precedenza, è difficile dare una risposta precisa, proprio perché vi sono diversi aspetti che la condizionano.
    Interessante però, è l’affermazione di Umberto Eco, “Sia che l’abito faccia o non faccia il monaco, è significativo che lo parli benissimo”.
    Il problema di fondo, quindi, è la mancanza di spirito critico, che non significa criticare con finalità distruttive, ma proprio saper analizzare qualcosa valutando tutti gli aspetti che ipoteticamente ne stanno dietro; per riuscire ad avere un pensiero oggettivo, senza nessun tipo di influenza non soggettiva.

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  19. Rebecca Rizzo   8 Novembre 2020 at 21:06

    Tutti, almeno una volta nella vita, hanno sentito ripetersi il proverbio “l’abito non fa il monaco” che invita le persone a non basarsi solo ed unicamente su quello che vedono, bensì di andare oltre alla pura e mera apparenza. La nostra società odierna, per quanto la si possa considerare moderna ed avanzata, si trova ad essere travolta da una forte ondata di superficialità, stereotipi e disinformazione che, purtroppo, non lasciano che il tempo ad uno sguardo sterile e veloce a tutto quello che ci circonda. Viviamo nell’era dei social dove una efficace strategia di comunicazione è alla base del successo di qualsiasi operazione di marketing e branding, dove quello che ci viene mostrato è quello che dovremmo essere per soddisfare i canoni ed appartenere ad un determinato ceto. Viviamo nell’era degli influencers che rappresentano l’opposto di quella che dovrebbe essere la morale che accompagna con sé il proverbio precedentemente citato, insegnandoci ad essere come loro, ad amalgamarci per essere “qualcuno” in una massa priva di personalità dove la prima impressione è tutto per poter essere accettato. Il giudizio, purtroppo, si trova alle radici della nostra società ed è diventato intrinseco al nostro modo di essere, di pensare e di parlare, esattamente come il tentativo di raggiungere o rispettare sempre uno stereotipo. Ci nutriamo di tutto ciò e ne andiamo fieri, anche se, allo stesso tempo, ci piace invitare le persone ad essere sé stesse ed ad incoraggiare la loro individualità. Sono dell’idea quindi che “l’abito non fa il monaco” ai nostri giorni stia diventando sempre di più una frase di circostanza, quel qualcosa che viene detto ma senza davvero pensarlo o promuoverlo seriamente proprio perché ogni cosa è preceduta dalla sua apparenza, noi compresi. Scavare nel profondo sarebbe come andare a ricercare ogni volta quell’etichetta dimenticata dentro ai vestiti per guardarne la composizione e i materiali per poterne capire la qualità, ma invece ci fermiamo al prezzo perché è la prima cosa che vediamo e che ci alletta spingendoci all’acquisto, non importa se poi li dovrò buttare il giorno dopo. Concludo il mio discorso con una frase di Zygmunt Bauman, famoso sociologo e filosofo, che afferma “Facciamo esperienza degli estranei solo come apparenze, in modo che ciò che si vede esaurisce ciò che essi sono.”

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  20. Aurora Fabbri   8 Novembre 2020 at 21:26

    Dopo aver letto questo articolo riguardo alla mostra intitolata “Uniform” creata ed esposta al Mast di Bologna, posso dire di essere arrivata ad una mia conclusione: l’abito fa il monaco.
    In un mondo che si basa quasi esclusivamente sulle apparenze, possiamo dire che il vestiario di una persona ha un impatto molto incisivo sul pensiero.
    Non a caso, molti studi scientifici hanno provato che i primi due minuti di un incontro con una persona, condizionano i pensieri e il giudizio che ognuno di noi si fa sull’interlocutore. Inevitabilmente, quando ci presentiamo ad una persona notiamo il suo aspetto esteriore; questo non significa essere superficiali, ma significa seguire un istinto che è tipico dell’essere umano.
    Quindi, il modo di presentarsi e di conseguenza anche l’abbigliamento ci aiutano a rendere molto più chiaro il giudizio. Ciò che si indossa fa parte della propria immagine e di conseguenza anche di ciò che vogliamo trasmettere.

    Possiamo dire, quindi, che l’abito fa il monaco? A mio avviso, si.
    Sia che venga apportato al concetto del vestiario, sia che che venga apportato al concetto di brand.

    Per quanto riguarda l’ambito della comunicazione e del graphic design, questo sta a dimostrare che una brand identity piuttosto che un’altra possa evocare sensazioni o impressioni discordanti tanto che al pari del prodotto la reazione cambia.
    Sono rimasta molto colpita da questo esempio concreto, legato al prodotto “Coca-Cola”. Vendendo la bibita nella versione light vedeva la maggior parte degli acquisti incentrata sul pubblico femminile e si è trovata a dover “inventare” la Zero per andare incontro ad un pubblico maschile che trovava la prima Cola poco “virile”.
    Qualcuno potrebbe dire che si tratta solo di una semplice bibita, che non deve essere considerato l’aspetto esteriore della bottiglia, il colore o la forma del packaging.
    In realtà il fatturato dell’azienda dice tutt’altro.

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  21. Federico Battistoni   8 Novembre 2020 at 21:44

    L’espressione “l’abito non fa il monaco”, invita a diffidare delle apparenze, nel giudicare una persona, evitando di esprimere giudizi affrettati e superficiali su qualcuno. Le persone avvolte non sono come appaiono ai nostri occhi.
    I gusti stilistici sono sempre più influenzati da mode e idee altrui.
    “l”abito fa il monaco”, direi che possa funzionare solo in ambito lavorativo, anzi è essenziale, deve subito darci un idea, sintetizzarci e trasmetterci qualcosa ma non puó assulutamente essere utilizzato in qualsiasi contesto. Io penso che l’abito rispecchi molto la propria personalità, i propri gusti e addirittura possiamo studiare la fisicità di un ente dall’abito indossato.
    La moda nel XXI secolo ha influenzato molte menti seprattutto i giovani ma non per questo l’aspetto esteriore debba per forza combaciare con l’aspetto interiore.

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  22. Anzhelika Komarova   8 Novembre 2020 at 22:02

    Presuppongo che tutti concordiamo con l’importanza del ‘abito’ nei nostri giorni, è la prima cosa che guardiamo quando conosciamo una persona nuova, è anche l’unica cosa che valutiamo in uno sconosciuto. Ed è anche vero che dal nostro modo di vestirsi deriva il primo impatto che noi facciamo sulle persone e viceversa, ma lo è solo in parte.
    La nostra società ci porta purtroppo di guardare solo ‘l’abito’ e di fermarsi allora all’apparenza e non spingerci oltre. Noi non abbiamo più il desiderio di conoscere le persone per quello che sono, ma abbiamo iniziato a mettere delle etichette addosso con le scritte ‘questo fa per me e quell’altro no’ e collocarli nelle varie categorie e classi.
    “I nostri abiti devono essere l’immagine e la sicurezza di ciò che siamo o facciamo”: dovremmo smettere di pensare cosi, in questo modo siamo portati a mettere sempre più etichette e creare più classi sociali, invece che conoscere l’interiorita di una persona, che a mio viso è molto più interessante rispetto al abito.
    Per quanto riguarda le fotografie ritengo che Sebastiao Salgado riesce a trasmettere la difficolta stessa di alcuni lavori. Rispetto a tutti gli altri lui non ricrea i momenti da fotografare, ma è presente in quel luogo di lavoro con quelle persone; mentre gli altri fotografi, secondo mio punto di vista, ricreando i momenti o solamente facendo dei ritratti trasmettono il concetto dell’abito da lavoro, ma non della difficolta, dei pensieri e sentimenti del lavoratore.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   9 Novembre 2020 at 10:48

      Però devi riconoscere che è molto difficile fotografare pensieri. Possiamo raffigurare emozioni, per esempio se il soggetto sorride per empatia siamo portati a congetturare uno stato interno “sereno”, forse piacevole.
      La percezione di un sorriso, che immaginiamo sia immediata, attiva reazioni qualitative che arrivano fino a categorizzazioni semantiche che polarizzano il senso di uno stato della relazione con il mio simile: se l’altro mi sorride “non sono in pericolo” (segnale molto importante dal punto di vista evolutivo); il sorriso crea un ambiente percettivo con meno tensione o attriti… Ma il sorriso si può simulare. A questo punto la percezione mi invita all’empatia, nascondendomi la reale situazione che conduce una relazione. Insomma la percezione comporta dei rischi.
      La tua affermazione sul fatto che la prima cosa che guardiamo quando incontriamo l’altro siano i vestiti è una credenza consolidata tra il senso comune.
      Io credo invece che il nostro sistema percettivo sia attivato più dal come di muove che dal come si presenta.
      Tutto ciò che si muove può divenire un pericolo. Ciò che sta fermo direi di no. Secondo la tua opinione il nostro sistema occhio=cervello-mente come si è evoluto?

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  23. Sofia Toccaceli   9 Novembre 2020 at 11:33

    Dal mio punto di vista, credo sia opportuno dover separare il concetto dell’abito da lavoro con l’abito interno caratteriale ed attitudinale in ciascuno di noi, specificando che dipende dalla persona stessa decidere quando e quanto voler rivelare del secondo, attraverso il primo. E la cosa interessante per me è che talun individuo può identificare “l’abito del monaco”, con soli gli elementi a sua stessa disposizione in quello specifico frammento temporale, di conseguenza è per questo che in ogni momento, per ogni persona diversa, la prospettiva dell’abito costruita può modificarsi o ricostruirsi, se nonché annullarsi.
    Più brevemente: l’uomo costruisce l’abito del monaco esattamente con quanti sono gli elementi a sua disposizione in tale momento specifico.
    In questo modo proprio così nelle fotografie presentate alla mostra si possono vedere diversi aspetti contrastanti del mondo dell’abito da lavoro: infatti in questo caso nella fotografia dell’operaio della Safety Bass Company di Salgado emerge il lato struggente ed umanitario dell’uomo, perché in quel determinato momento spaziotemporale la situazione ha fatto emergere a noi quel lato, di quell’uomo.
    C’è chi porta diversi abiti, magari uno da lavoro e mille altri sono totalmente oscuri all’apparenza nostra in quel determinato tempo a noi fornito.
    Per questo, il processo di riconoscimento totale di un soggetto non può avvenire nell’ambito lavorativo come in qualsiasi altro ambito, anzi appunto sta nel soggetto stesso a decidere cosa fare emergere di sè.
    Questo avviene appunto in maniera diversificata per ognuno di noi in base alla nostra predisposizione a farlo emergere. Io sono convinta che ciascuno di noi abbia molteplici lati della propria personalità e del proprio temperamento: alcuni individui magari decidono quale lato di loro esporre giorno per giorno, come tanti altri cercheranno di inquadrare ed identificare quelli degli altri. E penso sia anche questo il fascino di ogni persona qua in terra.
    Tutto ciò deriva anche dal fatto che per certe persone è immediato il processo inconscio di sentire il bisogno di doversi identificare in specifici ambiti socioculturali differenti per farsi a loro volta identificare dalle altre persone attorno a loro. Questo è il sistema istintivo di doversi sentire parte di un gruppo, parte di una specifica categoria concettuale, per poter essere riconosciuti… dal tonde è prassi che deriva dal nostro istinto naturale preistorico dovere identificare individui e nominare le cose, ed oggi è proprio del nostro io potersi affermare in carriera e realizzarsi.
    Nel caso della divisa e dell’abito da lavoro già prestabilito ed universale, esso può comunque essere arricchito da un individuo di più particolari fisici o accessori diversi i quali ci rivelano qualcosa in più di esso e quindi di conseguenza possono cambiarne la nostra visione. Altre volte possono completarlo, non a caso si presume che molteplici persone facciano un lavoro a loro affine.
    Un esempio lampante ed attuale possono essere le mascherine in questa che è l’era corrente del COVID, nel quale essendo stati tutti omologati e travestiti di quella che può essere riconosciuta come una divisa univoca della vita di tutti i giorni (la mascherina appunto), possiamo notare tranquillamente che in tanti si dilettano a sceglierla colorata, leopardata, c’è chi le abbina a ciò che veste, chi le personalizza individualmente o chi opta per indossarne una semplicissima nera. Dunque questo particolare non potrebbe rivelare un piccolo frammento di noi stessi?
    Mentre in passato si tendeva a vivere con tempi più dilazionati, ad oggi questo meccanismo di riconoscimento ha esigenza di diventare sempre più immediato ed intuitivo: e tutto ciò deriva dal molteplice traffico di impulsi visivi caratteristici del linguaggio e della comunicazione mediatica attuale, che avviene in tempi sempre più ristretti: esempio è la storia di instagram, o il video di tiktok, nel quale le aziende tentano sempre più di identificare ed indirizzare la propria campagna pubblicitaria attraverso l’immagine comunicante un messaggio identificativo al soggetto a cui è indirizzato.

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  24. Camilla Zanotti   9 Novembre 2020 at 11:36

    L’abito fa il monaco! Non è una novità.
    Da sempre l’apparenza è importante, da sempre un certo abbigliamento ci permette di raccogliere informazioni (più o meno veritiere).
    L’abito è importante, ha un ruolo essenziale, specialmente in questa società basata sulle apparenze.
    L’abito fa il monaco, è vero, ma io non riesco a considerare tale proverbio un qualcosa di negativo.
    Il dress code è fondamentale, una vera e propria forma di linguaggio.
    Tutti lo usiamo e tutti ne prendiamo considerazione.
    Giudicare è facile, certi pensieri sono automatici, a volte inconsci, ma è normale. Siamo persone pensanti, vediamo qualcosa di nuovo e subito ci facciamo domande e troviamo risposte!
    È come una sintesi veloce di un argomento che non conosciamo, sta a noi avere l’interesse e la maturità di andare oltre queste apparenze.
    Se l’abito non facesse il monaco, ora non saremmo davanti a milioni di brand d’abbigliamento.
    L’apparenza è fondamentale ed, a volte, pure funzionale.
    Qualsiasi prodotto in vendita oggi funziona perché ha saputo prendere il cliente, perché ha saputo fare un’ottima impressione sul cliente, perché all’apparenza sembra il prodotto che nessuno può perdersi.
    È così e lo è sempre stato, semplicemente oggi ha assunto un maggiore peso, un maggiore valore.
    Quindi si, le apparenze sono necessarie!
    È giusto? Finché si parla di farsi un’idea iniziale, assolutamente si e dire il contrario fa solo parte di un buon senso ormai fondato sul nulla.

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  25. Marco Caporrino   9 Novembre 2020 at 13:52

    Dopo aver analizzato l’articolo sono arrivato a una conclusione personale in cui penso che il detto “l’abito non fa il monaco” è da un lato giusto e da un lato sbagliato, dipende dal contesto che ci circonda. Nel mondo del lavoro, per determinati lavori, è giusto che ci sia una certa riconoscibilità (per esempio, se mi trovo in un supermercato e ho bisogno di un informazione riesco ad individuare subito un operatore, appunto perchè indossa un uniforme). Fuori dal mondo del lavoro invece è giusto dire che l’abito non fa il monaco, anche se nella società di oggi purtroppo siamo abituati a giudicare una persona da come è vestita e ci facciamo influenzare pesantemente da questo fattore. Sono stati svolti molti esperimenti sociali per dimostrare questa cosa, un esempio che mi viene in mente è un video in cui una persona, un attore in questo caso, chiede a dei passanti il telefono per fare una chiamata. La prima volta lo fa vestito da “barbone” e ovviamente nessuno lo considera, mentre la seconda volta lo fa vestito con giacca e cravatta ed ecco che nessuno si fa problemi a prestargli il cellulare. Quindi che ci piaccia o no, che sia giusto o sbagliato (personalmente penso sia sbagliato) nella nostra società l’abito fa il monaco.

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  26. sara mascherucci   9 Novembre 2020 at 14:08

    ‘L’abito non fa il monaco ma aiuta a riconoscerlo’.
    Al giorno d’oggi in molti lavori l’abito è quasi d’obbligo in certi campi, come per esempio un avvocato per compiere il suo mestiere deve indossare per forza giacca e cravatta, e non può indossare una semplice tuta da ginnastica, quindi anche la società ci impone senza il nostro volere un abbigliamento per esercitare. Ma questo non significa che chi indossa determinati vestiti sia realmente ciò che veste.
    Personalmente ho l’impressione che il proverbio ‘l’abito non fa il monaco’ non corrisponda alla realtà.
    Riguardo le foto volevo soffermarmi su quella di Sebastiao Salgado, dell’operaio della Safety Bass Company, solo guardandole si capisce subito che il soggetto raffigurato esprime diversi sensazioni della realtà. Il fotografo ritrae i personaggi nei suoi ambiti senza estrapolarli dal contesto. Sebastiao Salgado riesce a raffigurare i sentimenti in una foto, trasmette tutto ciò che è interiore, lascia fuori l’esterno e l’apparenza, e passa in secondo piano l’abito.

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  27. Federica Forte   9 Novembre 2020 at 15:22

    Temi di questa natura oggi, trovano riscontri piuttosto particolari a partire da un’età adolescenziale in cui le proprie menti sono principianti e quindi iniziano a formulare ed elaborare un pensiero; per poi evolversi, mutarsi e definire negli anni a seguire una vera e propria filosofia di vita, in cui a volte piccole esperienze negative interrompono il “viaggio” e precipitano davanti a se quelli che vengono chiamati pregiudizi.
    L’abito fa esattamente il monaco, nella società odierna in cui tutto é apparente, esposto, mostrato attraverso una sorta di “vetrina”, in cui é visibile solo apparentemente, solo la parte esteriore, solo ciò che ci permettono di vedere. L’esperienza in sè delinea quella serie di sensazioni che la mente ha registrato e porterà con se come ricordi inconsci in cui niente svanisce o potrà essere modificato; sono le sensazioni più autentiche che ci porteremo dietro.
    Emerge però un’altra descrittiva della persona, l’anima, l’essenza, quell’interiorità più o meno fragile, che porta quel “primo embrione” ossia il primo pensiero ad infondere le sue radici in un concetto più elaborato, e con la quale si é in grado di valutare ed approfondire ciò che ci presenta dinnanzi.

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  28. Sara Bocchini   9 Novembre 2020 at 19:14

    In base alla lettura appena svolta sulla mostra al Mast, intitolata “Uniform”, ritengo che il detto “l’abito (non) fa il monaco” sia in parte vero e in parte no: in quanto spesso mostriamo noi stessi dallo “stile” che adottiamo ogni giorno, ma che nel corso del tempo è molto transitorio, che quindi non definisce il nostro essere di quel tal tempo il come siamo e potremmo essere poi un giorno. Al contempo spesso accade che siamo costretti a indossare un abito che in realtà non ci rispecchia del tutto per vie delle norme etiche della società, pertanto al giorno d’oggi ritengo che spesso siamo costretti a indossare una personalità non del tutto in auge al nostro essere. Tutto ciò mi porta a dire che nel ventunesimo secolo l’apparenza conta, ma spesso inganna. Per me questo detto è vero nella funzionalità “l’abito fa il monaco” per via dell’influenza sull’apparenza che viviamo al giorno d’oggi, in quanto siamo trasportati dal pensiero comune. Ma è anche vero nella modalità “l’abito non fa il monaco” in quanto spesso siamo costretti a rinchiuderci in una corazza non in linea alla nostra essenza, ma lo facciamo proprio per spirito di sopravvivenza alla realtà.

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  29. Jessica Mazzola   9 Novembre 2020 at 19:59

    “L’abito fa il monaco, il metalmeccanico, l’avvocato, il rapper, il banchiere, la signora alla moda, il fantino, il musicista, il cuoco, la prostituta, il poliziotto…I nostri abiti sono l’immagine è la sicurezza di ciò che siamo o facciamo”

    Collegandomi a questa citazione di Oliviero Toscani, che lei stesso ha citato, credo possa raffigurare al meglio il pensiero complessivo della nostra società. Il modo in cui ci vestiamo nella vita di tutti i giorni e ancor di più nell’ambito lavorativo non passa inosservato. Indossando un preciso vestiario ognuno adotta le caratteristiche ad esso collegato, viene considerato una propria sorta di riflesso che raffigura l’interiorità della persona, sicuramente chi più in modo pronunciato e chi meno. Che lo si voglia o no, il nostro abbigliamento ha un ruolo determinante in una prima impressione, più saremo vestiti in modo adeguato al momento e più a primo impatto risulteremo competenti.
    La nostra attuale società è contraddistinta da una maniacale attenzione verso tutto ciò che è considerato estetica, tale attenzione che negli ultimi anni si è sviluppata in maniera smisurata. Crescendo ci si rende conto che sempre più spesso vengono imposte delle regole in ambito di vestiario. Molte aziende impongono un preciso dress code ai propri dipendenti e a volte adeguarsi a tali regole può risultare veramente difficile e non conforme alla nostra personalità.

    Si dice tanto che “l’abito non fa il monaco” ma quando si tratta di affrontare un colloquio, come una riunione, come un esame ma anche come una serata, l’abbigliamento appropriato può fare la differenza.
    Perciò “l’abito fa il monaco” o “l’abito non fa il monaco”?
    Ad oggi direi decisamente che l’abito fa il monaco e che la prima impressione è ciò che rimane nella mente delle persone circostanti. Giusto o sbagliato questa è la nostra società, dove l’immagine è considerata qualcosa di realmente importante.

    Sarebbe cosa buona e giusta rallentare questo culto immoderato per l’apparenza, non dimenticandoci che l’aspetto, per quanto possa essere importante, conta fino ad un certo punto!

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  30. Antonio Fagnocchi   9 Novembre 2020 at 20:04

    Dal mio punto di vista credo che l’abito faccia il monaco, soprattutto in questa società dove l’apparenza ha un peso davvero importante e ormai viviamo in un mondo dove l’immagine è alla base della comunicazione anche grazie alla struttura dei vari social network. Se ci troviamo davanti una persona è inevitabile un primo giudizio basato sul suo aspetto e sul suo abbigliamento, sia nel mondo del lavoro dove una divisa può essere identificativa e aiutarci ad identificare il lavoratore, che fuori dal mondo del lavoro dove a mio avviso l’abbigliamento è fondamentale per esprimere se stessi e dobbiamo sentirci a proprio agio in ciò che si indossa. L’abbigliamento è quindi un manifesto molto importante per comunicare chi siamo, come lo è il logo per un’azienda. Una sorta di presentazione personale che deve saltarci all’occhio, certo non è solo l’apparenza che deve farci giudicare una persona, ma è innegabile che i primi secondi di contatto siano cruciali e il nostro cervello si crea automaticamente un’immagine di chi abbiamo davanti, magari troppo legata a stereotipi che dovremmo valutare e approfondire con il tempo.

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  31. Enya   9 Novembre 2020 at 21:11

    “L’abito non fa il monaco” rappresenta una frase colma di speranza per la società che viviamo che forse troverebbe più coerenza in “l’abito non dovrebbe fare il monaco”.
    La celebre frase infatti per me rappresenta un grido di speranza che tenta di far riemergere l’individualità che ci contraddistingue, caratteristica che nel tempo vira ad estinguersi.
    Sicuramente non è un impresa possibile dalla società moderna che viviamo quotidianamente, ma confido positivamente nelle società del futuro.
    L’uomo ha per sua tendenza l’abitudine di scostarsi da comportamenti etici che vengono catalogati come scorretti anche se consapevole che siano inevitabili, proprio come avere un primo ed immediato giudizio su qualcuno che ci ritroviamo davanti usando proprio come mezzo il vestiario. Ma perché negare questa nostra attitudine? La negazione è forse un tentativo di discostarsi da un ipotetico senso di colpa?
    Sarebbe più produttivo invece il prendere coscienza che non c’è nulla di sbagliato nel compiere questo gesto, diventando consapevoli che l’errore nasce nel momento in cui si considera il primo giudizio che ci si è fatti di qualcuno come immodificabile e indiscutibile, quello sarebbe il vero errore, ma fino a quel momento il tentativo di interpretare la personalità del prossimo attraverso il linguaggio della moda non vedo come possa essere un azione dalla quale sentire di giustificarsi.
    Prendiamo quindi solo consapevolezza del fatto che l’abito può fare il monaco, ma non tutti i monaci hanno lo stesso abito.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   9 Novembre 2020 at 22:34

      Non sarei così pessimista. Forse ci sono delle ragioni sul perché il nostro sistema percettivo valorizza l’abito efficace. Ma solo i cretini agiscono solo basandosi sulle proprie percezioni. Facciamo l’esempio di un incontro significativo: è vero che la prima impressione può generare un sentimento di accettazione dell’altro (immagina sia vestito come piace a te)…Ma poi subito intervengono altre percezioni. Suppongo che ci sarà una conversazione. Le parole retroagiscono sulla prima percezione, a volte la classificano diversamente da come ci aspettavamo. E poi entrano i gioco altre dimensioni…la disinvoltura per esempio. Lo stile, per farne un’altro. Diciamo che piu il Tempo coincide con l’immediatezza e più probabilità ha la percezione visiva dell’abito di generare un senso immediato che per un attimo cattura la nostra attenzione. Quando andrai a un colloquio di lavoro sono pronto a scommettere che non ti vestirai “per essere te stessa” o in modo casuale, ma in qualche modo calcolerai ciò che gli altri potranno percepire dalle tue apparenze. Non si tratta di mentire a stessi bensì di calcolare gli effetti che, per quanto ne sappiamo, fanno parte del nostro corredo biologico.
      Quindi hai ragione, non c’è nulla di eticamente scorretto nel farsi un’idea dell’altro a partire dall’impatto delle prime percezioni. Il sistema mente-cervello si può dire che ce lo impone. Ma non dobbiamo dimenticare che la nostra mente si è evoluta e ci permette di capire quando ci sbagliamo ovvero seguiamo percezioni poco attendibili.

      Rispondi
  32. Eudochìa P. Baho   9 Novembre 2020 at 22:33

    “L’Abito non fa il monaco”.
    Credo sia un argomento vasto di cui parlare; al giorno d’oggi l’abito viene considerato molto importante in un determinato ambiente. Un determinato personaggio vestito in un certo modo ti fa subito arrivare al lavoro che svolge, o l’ambiente che frequenta e ci porta al giudizio, spesso questi giudizi, queste idee non sono il vero. A parer mio bisognerebbe abbattere questo muro, quest’idea che magari abbiamo o ci facciamo osservando una persona qualunque anche se spesso può risultare difficile grazie al nostro cervello. Prendiamo come esempio lo stesso uomo ma vestito in maniera differente, nella prima parte vestito magari con una divisa e nella seconda con magari una tuta sportiva oppure un jeans strappato con una semplice t-shirt e con magari tutti i tatuaggi in bella mostra, per la nostra mente la risposta risulta immediatamente chiara, quindi associa subito quale dei due fa come mestiere il vigile, non andrà ad associare in quel momento la stessa figura a quel lavoro e vestita in quella maniera. L’associazione è immediata perché la prima impressione si crea senza che tu abbia il tempo di fare qualsiasi ragionamento.
    Bisognerebbe cercare di andare oltre la copertina del libro per poter esprimere un vero e proprio giudizio.

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  33. Martina Pasini   9 Novembre 2020 at 22:55

    L’abito fa il monaco, eccome.
    In una società dove l’apparenza è importante, le prime impressioni contano, è inevitabile, e queste sono dettate da ciò che per primo salta all’occhio, e nella maggior parte dei casi è proprio l’abbigliamento. All’interno di un conteso lavorativo, la codificazione del modo di vestire svolge un ruolo fondamentale, non solo per quanto riguarda il riconoscimento della persona (a seconda dell’occupazione) ma, a volte, anche da un punto di vista pratico e funzionale. Inutile dire che un’abbigliamento più ricercato possa suscitare un giudizio positivo, da parte ad esempio di un datore di lavoro, in quanto rispecchia un’idea di professionalità.
    Da questo deriva però una differenziazione sociale, che dal momento in cui si esce dall’ambito del lavoro, trovo fortemente sbagliata, in quanto la singola persona è libera di decidere come vestirsi. Secondo il mio parere l’abito ha un forte potere comunicativo, ma spesso viene interpretato nella maniera sbagliata proprio perchè se ognuno è libero di decidere cosa indossare, si parla allora di gusto personale, ma ciò non rappresenta automaticamente il carattere o la personalità della persona.

    Detto questo, credo che la frase “L’abito non fa il monaco” voglia semplicemente ricordarci che dietro ad un abito o ad un certo tipo di vestiario, c’è un individuo concreto che non si può riassumere in due parole come uno stile, e che quindi soprattutto nella società odierna dove le persone tendono a costruirsi un’immagine che non necessariamente li rappresenta, è bene non limitarsi alle apparenze.

    Rispondi
  34. Veronica Bucci   9 Novembre 2020 at 23:06

    “MAST”
    Per mio pensiero credo che la frase “l’ abito non fa il monaco” sia un espressione sintetica dell’etichettatura involontaria oramai instaurata nell inconscio di ugnuno di noi. Con questo intendo dire che, per quanto “l’ abito” rappresenti una categorizzazione dell’individuo, noi spesso risultiamo incapaci di andare oltre all’apparenza e quindi rimaniamo fissati sulla “pelle”, cioè il tessuto esterno. Tuttavia la citazione presa dal testo: “L’abito fa il monaco, il metalmeccanico, l’avvocato, il rapper, il banchiere, la signora alla moda, il fantino, il musicista, il cuoco, la prostituta, il poliziotto… I nostri abiti sono l’immagine e la sicurezza di ciò che siamo e facciamo” ; ritengo che essa riporti l’altra metà della medaglia, ovvero l’istinto recondito di ognuno di noi di sentirsi parte di un gruppo, di una società o di una realtà più grande. Questo desiderio a parer mio si può paragonare con il desiderio di possedere il vestiario di una certo brand, se si vuole più famoso o di “élite” di altri, poiché caratterizza il soggetto all’interno di una “divisa”, che a differenza dell’uniforme essa lascia spazio alla varietà e alla flessibilità… Mentre “l’uniforme” è caratterizzata da canoni standardizzati e non variabili, come ad esempio l’uniforme militare, la quale non lascia spazio alla libera interpretazione. Tuttavia non sempre ciò che si indossa rispecchia la vera natura del soggetto, e per di più non è vero ciò che si indossa sia casuale e mostri la realtà che si vuole mostrare.

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  35. Simone Paganelli   10 Novembre 2020 at 00:21

    Ritengo sia banale ribadire il fatto che l’abito non faccia il monaco, ma allo stesso tempo sarebbe ipocrita negarlo. In un era digitale come quella che stiamo vivendo, siamo in grado di essere promotori di noi stessi attraverso la nostra figura, ed investire su noi stessi e sulla nostra apparenza, acquista un certo valore nel bene o nel male. Molte delle nostre informazioni personali oggi vengono raccontate dai social, e questo ci espone a molte più persone, di quante noi ne conosciamo effettivamente. La persona dall’altra parte non ha il tempo di constatare se “l’abito” che indossiamo faccia o meno il monaco. Molte volte, oggi, non c’è tempo di andare oltre le apparenze.

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  36. Greta Lodi   10 Novembre 2020 at 13:35

     Il celebre proverbio si fonda sull’idea dell’apparenza, raccomandando di non giudicare le persone esclusivamente per il loro aspetto esteriore, in quanto ciò che si vede esteriormente non sempre corrisponde a ciò che l’individuo è nella sua interiorità. L’esperienza di vita di tutti i giorni mi porta a sostenere che l’abbigliamento sia fondamentale per esprimere se stessi e per sentirsi bene in ciò che si indossa. La moda ci conferisce l’enorme potere di far vedere al mondo come siamo nella nostra interiorità attraverso i nostri vestiti. L’abbigliamento, quindi, è un manifesto molto importante per comunicare chi siamo: parte della nostra identità è riflessa in ciò che indossiamo quotidianamente. Inevitabilmente, quando ci presentiamo ad una persona facciamo caso al suo aspetto esteriore: ciò non significa essere superficiali e frivoli, ma vuol dire seguire un istinto tipico dell’essere umano. Anche dopo i primi attimi di conoscenza, tale giudizio in genere tende a persistere, perché il nostro cervello ne cercherà continue conferme. Se si è dotati di una mentalità aperta, è possibile cambiare la propria idea dopo aver conosciuto in maniera più approfondita la persona ed essere venuti a conoscenza di fatti che mettono in discussione la prima valutazione.
    Tra i tanti aspetti della comunicazione non verbale che contribuiscono alla sua formazione, c’è anche l’abbigliamento. “L’abito non fa il monaco”, si dice, però il vestiario influenza fortemente la prima impressione. Dunque, ad oggi si può apporre una piccola modifica al proverbio e dire che l’abito fa il monaco, in quanto l’apparenza è in grado di comunicare qualcosa su di noi. Esprimere la propria interiorità attraverso il look è un atto comunicativo molto forte: significa sapersi riconoscere e, di conseguenza, scegliere il modo migliore per potersi rappresentare. Gli abiti, quindi, sono un modo per inviare – a chi è in grado di coglierli – dei segnali su chi sei veramente: andando ad analizzare le singole giornate è possibile che una persona si dedichi maggiormente alla cura del proprio vestiario mostrando così il suo lato modaiolo, proprio come è possibile che in un altro momento la stessa persona per fattori interni non dedichi la stessa attenzione agli abiti ed in questo caso sarà facile per chi la incontra pensare “oggi c’è qualcosa di diverso”, sarebbe un’impressione sbagliata?
    Nessuno ci costringe, siamo noi e solo noi che scegliamo come porci, come vestirci, come apparire, come farci vedere e come farci sentire e di conseguenza sta in noi la responsabilità di scegliere in quali vesti farci conoscere.

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  37. Gessica Hima   10 Novembre 2020 at 13:37

    L’abito fa il monaco, ma sta a noi capire quanto prevalga sulla persona nel contesto in cui ci si trova.
    Ognuno di noi indossa più “abiti” e quindi più versioni di sé, che si sintetizzano brutalmente nel momento formale della presentazione con il proprio nome; è la nostra volontà di conoscere senza troppi pregiudizi che deve decidere qualora sia un piacere oppure no.
    L’abito deve fare il monaco nel contesto lavorativo: in uno spettacolo teatrale se l’attore, interprete di Cyrano, non indossasse l’abito del “celebre spadaccino”, lo spettatore si ritroverebbe confuso e disorientato.
    Inoltre, la figura professionale viene inizialmente trasmessa tramite la prima impressione e quindi un dress code che è anche biglietto da visita e in quanto tale va curato.
    Poi, se trattiamo dell’abito che identifica la nostra persona o “seconda pelle”, l’invito è di apparire come si preferisce, poiché il pregiudizio è frivolo e radicato nell’indole umana, vista ancora come un’unità organica ed indivisibile dalla maggioranza, quando invece presenta numerose sfaccettature.

    Rispondi
  38. Noemi Nevola   10 Novembre 2020 at 13:53

    Dopo aver letto e analizzato l’articolo realizzato sulla mostra Must, intendo esprimere il mio parere. Nella società odierna, la catalogazione e la “targetizzazione” di oggetti e addirittura persone è divenuta una prassi essenziale per la sopravvivenza nella collettività. Per vivere nel “modo migliore” vi sono degli standard di posizione, delle scale sociali in cui ognuno di noi si posiziona e in base ad essi vengono creati e imposti degli stereotipi. Anche nel campo del vestiario essi vengono applicati, in qualsiasi tipo di ambito sociale, in questo caso quello lavorativo. Per rendere più semplice e comprensibile la distinzioni tra i vari ruoli assegnati o acquisiti vengono utilizzati dei prototipi di base, fondati su preconcetti di natura culturale, che ci impongono certe regole da rispettare per mantenere, appunto, questi “scalini” ben separati e facilmente distinguibili. Quindi probabilmente l’affermazione “l’abito FA il monaco” è reale e concreta. Sicuramente questo concetto, almeno in parte, snatura la nostra essenza svalutandola, facendo in modo che le apparenze abbiano una maggior importanza. Ritengo inoltre che le apparenze e gli stereotipi siano così intrinsechi nel nostro pensiero, che anche involontariamente creiamo un’idea distorta di quel che abbiamo davanti senza neanche accorgercene. Infine i preconcetti e gli stereotipi sono qualcosa che ha una valenza sia positiva che negativa. Li creiamo per proteggere noi stessi e per un puro istinto primordiale di sopravvivenza.

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  39. Martina Tinti   10 Novembre 2020 at 14:40

    In quanto studentessa di graphic design mi sento quasi in obbligo di affermare che l’abito fa il monaco. Non sarei una buona designer se affermassi il contrario. Il modo in cui ci presentiamo, il modo in cui ciò che vogliamo vendere viene presentato, è più che rilevante poiché stabilisce una reazione basilare importantissima nel cliente. È vero, un primo impatto visivo non stabilisce sempre solo CHI SIAMO, ma può stabilire anche chi vogliamo essere, talvolta chi vogliamo FAR CREDERE di essere. Viviamo in una società dell’immagine in cui l’estetica è un fattore sociale più che rilevante. L’abito, sopratutto l’abito da lavoro, stabilisce lo status sociale che un individuo ha all’interno della società e dunque si possono trarre deduzioni personali su chi ci troviamo davanti, deduzioni, però, davanti alle quali ci dobbiamo sempre porre in maniera critica. È più che moralmente giusto “non giudicare un libro dalla copertina” ma, aimè, chiunque di noi lo fa ed è un processo cognitivo che talvolta avviene anche inconsciamente. L’abito è un fattore sociale che quindi assume un significato differente a seconda del contesto sociale e storico in cui esso viene inserito. L’abito è il biglietto da visita di un venditore, l’abito si differenzia a seconda della tua mansione e permette agli altri di identificarti, l’abito è espressione culturale di una società ed è sicuramente materiale di analisi nell’osservazione, nello studio di un’identità, di una cultura, di un lavoro. Ciò non significa indissolubilmente che siamo ciò che indossiamo, poiché spesso un individuo non si identifica nel proprio lavoro e quindi nella propria divisa. L’abito può trarre in false deduzioni, può essere fittizio, ma è sicuramente una componente importante e rilevante nella nostra percezione del mondo, della società, dell’individuo.

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    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   11 Novembre 2020 at 13:07

      Martina mi permetto di contraddirti, senza che questo significhi sminuire il valore del tuo intervento. Se seguo e quello che dici nella prima parte del tuo script, sono portato a pensare che per te il design sia essenzialmente una sorta di retorica delle apparenze (di un oggetto). Ho sempre pensato che il buon design avesse dei contenuti, ci aiutasse ad affrontare svariati problemi ovvero declinasse determinate “funzioni” in modo efficiente senza escludere, nell’ingaggio con l’oggetto, quel sentimento tipicamente umano che approssimerei col l’espressione “percezione della bellezza”.
      È pur vero che nel caso dell’abito, il design si applica a un oggetto che aderisce al nostro corpo e tende ad essere esperito come una seconda pelle. Ora, il proverbio “l’abito fa il monaco”, sembrerebbe suggerirci che questa seconda pelle, in realtà, per motivi non evidenziabili in questa sede, sia divenuta la prima. Quali sono le conseguenze nella vita di relazione tra le persone? Quali valori si trovano esaltati e quali narcotizzati? Cambiano le responsabilità dei designer?
      Hai senz’altro ragione quando scrivi che non siamo ciò che indossiamo. Ma perché tante persone hanno la tendenza a comportarsi come se fosse vero il contrario? Si possono configurare oggetti di successo (non solo abiti) rispettandola loro natura di oggetto, senza cioè impregnarli di troppo “essere”?

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  40. Sharon Miotti   10 Novembre 2020 at 22:57

    “L’abito non fa il monaco” ormai è un concetto passato.
    Un modo di dire legato a una sua determinata epoca.
    Al giorno d’oggi, dove l’importante è apparire, l’abito ha più importanza del monaco.
    Si potrebbe dire che l’abito ha incatenato il monaco. Basta guardarsi attorno, persone prive di ogni individualità che cercano di identificarsi in base alle mode del momento, seguendo e imitando ciò che le persone più influenti dicono. Un mondo fatto di masse con uno stesso pensiero.
    L’abito ormai non fa più il monaco, ma gli priva ogni senso di individualità.
    Il problema di tutto questo è che siamo bombardati ogni giorno da migliaia di informazioni al secondo, che ci privano del nostro tempo, il tempo per noi stessi, per capire le cose che ci circondano. Tutte queste informazioni ci limitano, non ci permettono di pensare, di capire chi siamo realmente. L’unica cosa che conta è l’apparire perfetti come gli altri ci vorrebbero, non capendo che essi troveranno sempre qualcosa da ridire. Ed ecco che il nostro pensiero individuale va a perdersi in ciò che gli altri percepiscono di noi.
    Dunque, in quest’epoca l’abito fa il monaco, perché oltre l’aspetto esteriore c’è ben poco da scoprire. Bene o male si intuisce già chi abbiamo davanti.

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  41. Aurora Morri   10 Novembre 2020 at 23:39

    Che l’abito faccia il monaco o meno dipende soltanto dalle circostanze. Se da un lato chiunque si può vestire in una certa maniera e passare da chi non è, – sebbene l’inganno dipenda dalle doti persuasive del singolo individuo – indubbiamente il modo di vestire è intrinsecamente radicato nella nostra società. E ciò non è né un bene né un male. Anche in questo caso, dipende da come l’individuo decide di usare questo “strumento sociale”.
    A prescindere dall’animo di ogni essere umano, la prima opinione che una persona si fa di un’altra – solitamente è un tempo compreso fra quattro e sette secondi – fungerà da base per le sue scelte successive; questo processo potrebbe essere spiegato anche da un punto di vista puramente primitivo: l’aspetto di un individuo, escludendo occhi ed espressioni facciali, ci può comunicare immediatamente se l’altro è una minaccia o un possibile partner. D’altronde, l’attenzione del cervello umano è programmata per essere attirata da quello che può preservare la vita del singolo soggetto e quella della specie.
    La maggior parte degli esseri umani vuole ciò che è meglio per sé stessa, come tutte le forme di vita, e siccome siamo animali sociali, tendiamo sempre a frequentare individui simili a noi, mentalmente e socialmente. Non significa che il “bello” e la “ricchezza” siano necessariamente legate al “buono” e al “meglio”, ma potersi permettere beni come abiti di buona fattura lascia intuire da sé che possediamo anche i beni di prima necessità.
    E se stiamo bene perché possiamo disporre di cure mediche e prodotti alimentari assieme ad un abbigliamento non trasandato, probabilmente abbiamo la possibilità di accedere anche alla cultura; ne consegue che l’altro ci inquadrerà come individuo a cui vale la pena approcciarsi, poiché può essere vantaggioso per motivi personali.
    Il modo di vestire non influenza solo gli altri: anche noi siamo influenzati psicologicamente da ciò che indossiamo. L’essere umano può scegliere un determinato abbigliamento per assumere un tipo di personalità – perché a quel modo di vestire è socialmente legato un atteggiamento – o perché trova un capo più confortevole di un altro.
    Un tempo non esisteva nemmeno un concetto mondiale di “moda”, piuttosto ogni singolo ceto cercava di rientrare nel concetto sociale di “etica”, qualsiasi fossero le sue possibilità. Con lo svilupparsi della globalizzazione e l’aumento della produzione in massa di capi, il modo di vestirsi di un paese non è rimasto più relegato all’interno dei suoi confini e gradualmente è stato generato il moderno concetto di “moda”, sempre in mutazione e sempre fuggevole.
    Alla fine non esiste un unico codice da seguire per apparire in pubblico nel modo migliore; questo forse c’è solo in alcuni casi e campi. Il monito secondo il quale “L’abito non fa il monaco”, fondamentalmente è vero e non bisogna dimenticarlo; dopotutto i detti tradizionali sono molto pratici ed persistono tutt’oggi per un motivo. Ma è vero pure che le impressioni possono rivelarsi veritiere.
    In fin dei conti, possiamo solo osservare le azioni altrui e decidere da noi.

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  42. Giorgia Piastra   11 Novembre 2020 at 12:15

    Partirei dal presupposto che in senso assoluto l’abito NON fa il monaco, mentre in senso relativo l’abito fa il monaco ,vedi l’esempio delle copertine dei libri posti sugli scaffali delle librerie, in tal caso questo è vero ma perchè quello della libreria è un contesto relativo. Ma essendo l’assoluto un concetto strettamente legato all’oggettivo, mentre essendo il relativo associato al soggettivo, possiamo dedurre che in relazione al contesto che può essere culturale, o di qualsiasi altro tipo, la tua soggettività nei confronti della mia relatività è una percezione. Tu percepisci dunque l’apparenza altrui in base alla tua soggettività ,le tue idee create o meno dalle tue esperienze. Per esempio un ragazzo che si veste di nero, che gira con maglie e felponi molto larghi visto in un ambito come per esempio un parco o uno skatepark, potrebbe essere a prima vista giudicato come “cattivo ragazzo”, mentre quello che vedi camminare per il centro in giacca e cravatta potrebbe farti pensare il contrario. Ma questa è solo apparenza. Se vogliamo parlare in termini assoluti, cioè oggettivamente, non si parla più di percezione ma di assolutismo quindi che cosa sei tu davvero in senso lato. Quando andrai a conoscere nel profondo le persone potresti scoprire che sono diverse da quello che possono sembrare, pertanto mi sento di concludere sostenendo che, secondo la mia opinione, l’abito non fa il monaco.

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  43. Emanuele Maraldi   14 Novembre 2020 at 14:14

    “L’abito fa il monaco” è un proverbio che incontra diversi piani di interpretazione in base, e soprattuto, al contesto sociale in cui si nasce.
    Dal punto di vista dell’indossatore.
    Nella società in cui viviamo, dove simboli, immagini e stereotipi ci circondano fin dalla più giovane età, ci è stato trasmesso che l’apparenza e lo stile che inconsapevolmente ci viene imposto va a definire quello che siamo e non il contrario.
    L’importanza dell’abito e dell’apparenza definita dalla moda odierna, secondo il mio parere, va a costruire, per chi decide di seguirne le orme, un profilo di banale apparenza che fa insorgere nel soggetto un modo di pensare e di approcciarsi alla vita saturo di superficialità.
    Questo succede perché l’uomo, che ha bisogno di appartenenza e di definire se stesso, cerca un adattamento e un’omologazione andando a seguire le orme della moda in voga in quel determinato momento. In questo modo, oltre a presentarci e ad essere definiti, secondo canoni predefiniti da altri, attraverso un processo inconscio, finiamo anche per identificarci in quegli stessi canoni rischiando di contaminare il nostro essere più profondo.
    Quello che voglio intendere è che spesso, in un contesto quotidiano, non solo veniamo definiti dagli altri per l’abito che indossiamo, ma finiamo per identificare noi stessi con l’abito anche quando l’idea comune che si ha di esso non ci appartiene veramente.
    In altri casi però, diversamente da quanto detto, può succedere che l’idea che si ha di un determinato stile/moda vada a rappresentare pienamente l’essere dell’indossatore.

    Dal punto di vista dell’osservatore.
    L’apparenza può ingannare ma può anche descrivere pienamente il soggetto. L’osservatore non lo sa. Per questo affermo che l’abito fa e non fa il monaco, dipende da chi indossa e da chi osserva..una mente più aperta da parte di entrambi può allontanare i pregiudizi e gli stereotipi instillatici.
    Il mio ragionamento cambia però quando in un contesto lavorativo l’abito fa il monaco, cioè compie la sua giusta funzione di strumento di identificazione e di inserimento all’interno di una società. Ciò a patto che l’uomo che lo indossa non si identifichi nel proprio lavoro, lasciando intaccata e integra la vera propria identità.

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  44. Paolo Teodonno   16 Novembre 2020 at 00:29

    Leggendo e analizzando l’articolo: “Mast. Il senso dell’abito da lavoro ieri e oggi” sono d’accordo sull’affermazione che l’abito fa il monaco, sopratutto al giorno d’oggi, in una società consumistica che comunica e ed è incentrata sull’immagine. Riguardo a questo discorso mi è venuto in mente il pensiero di Leonardo Da Vinci secondo il quale la vista è al vertice della gerarchia sensoriale, descrivendola come il mezzo più importante in nostro possesso per comprendere gli infiniti meccanismi della natura. La vista, e quindi ciò che appare a noi, il nostro modo di vestire e di comunicare implicitamente, è fondamentale, soprattutto durante un primo incontro o nelle interazioni di breve durata (un esempio lampante sono i colloqui di lavoro), dove gli interlocutori azzardano a dei giudizi perchè non sono a conoscenza di altri elementi della sfera privata dell’individuo;
    vengono quindi condizionate le emozioni e i pensieri che ognuno di noi si fa dell’altro.
    La cosa più interessante è che tale giudizio, in genere tende a persistere, perché il nostro cervello, lavorando per economia percettiva, cercherà continue conferme sulla prima impressione; questo significa che se una persona indossa un abito consono al contesto in cui si trova, potrebbe, a prima vista, acquisire stima e prestigio.
    Nonostante tutto con il passar del tempo e con una conoscenza più approfondita dell’individuo questa impressione potrebbe cambiare e venire smentita.
    L’abbigliamento inoltre è anche utilizzato come segno di riconoscimento e identità, per esempio, soprattutto prima dell’avvento di internet e delle reti sociali, vestirsi in un determinato modo determinava appartenenza ad una precisa subcultura, orientamento politico o sessuale. Effettivamente se notiamo in una persona una certa congruenza con il nostro modo di vestire, la percepiamo positivamente.
    A livello lavorativo invece l’utilizzo di un uniforme (in particolare in alcune professioni nella quale è richiesto contatto con il pubblico) è importante sia a livello funzionale che a livello di convenzioni che attuiamo per darci un preciso ordine nella società in cui viviamo.
    Detto ciò concludo dicendo che questo tipo di “comunicazione sottintesa” è da utilizzare con razionalità ed equilibrio, non bisogna lasciarsi dominare totalmente dall’esteriorità, il rischio è di apparire superficiali e vuoti.

    Rispondi
    • Lamberto Cantoni
      Lamberto Cantoni   16 Novembre 2020 at 12:30

      Ottimo intervento. Chiaro, preciso, ben scritto. Interessante quello che hai detto sulla “ricerca di conferma” delle nostre verità percettive. Questo spiega perché spesso facciamo fatica a liberarci delle prime impressioni.

      Rispondi
  45. Pasqualini Cristiana   17 Novembre 2020 at 17:51

    Dire che l’abito fa il monaco è un pò come dire “non giudicare il libro dalla copertina”.
    Fin dall’antichità l’abito ha cercato sempre di identificare una persona, il suo ceto e il suo ruolo nella società. Ma con il passare del tempo questo è cambiato, in quanto ora siamo noi a scegliere cosa indossare secondo il nostro gusto personale e la moda odierna.
    Al giorno d’oggi viene utilizzata spesso la frase “L’abito fa il monaco”, ma dal mio punto di vista a volte viene utilizzato in modo opportuno e spinti dallo stereotipo che la società ci ha imposto nel corso dei secoli. Infatti credo che c’è una grande differenza tra abito e uniforme. Mi permetto così di suddividere due gruppi: il primo è l’ abito che a parer mio è ciò che l’uomo ha nel proprio armadio a seconda dei suoi gusti personali, mentre l’uniforme è la codificazione dell’abito all’interno del mondo del lavoro appunto per poter identificarne il settore.
    Nonostante ciò non credo sia opportuno esplicare tale frase ogni qualvolta ci si pone davanti a noi una persona e fermarsi soltanto alle apparenze , in quanto a volte l’abito non rispecchia l’anima di chi lo indossa, ma che a volte potrebbe essere utilizzato anche come una maschera.

    Rispondi
  46. D.TAURO   4 Gennaio 2021 at 17:50

    Leggendo l’articolo è evidente che Il contesto dell’articolo valorizza la formula “l’abito fa il monaco”. Condivido che nell’ambito professionale e lavorativo è palese che l’abito identifica il ruolo della professione.

    Per esempio le forze armate, un medico ecc.. Mentre nell’ambito quotidiano direi di no, per il semplice motivo che l’abito in quanto, non sempre gli indumenti indossati rispecchiano l’identità. Non per forza una persona che veste solo firmato è una persona che sta bene economicamente o viceversa. Siamo troppo superficiali, bisogna andare oltre alle cose, ai pensieri agli schemi. L’apparenza inganna bisogna andare oltre.

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  47. Aurora Verdone LABA   6 Aprile 2021 at 14:59

    Oggi la divisa lavorativa è diventata una parte di branding a tutti gli effetti, soprattutto per le grandi aziende diffuse in tutto il mondo, che puntano soprattutto sulla propria riconoscibilità che quella del singolo lavoratore. L’uniforme invece mantiene sempre forse un significato più “romantico” o più potente, pregna di tutte le tradizioni, regole e comportamenti che fanno parte del gruppo che identifica e anche il tipo di competenze e autorità del singolo. Sicuramente, nei pregiudizi della gente comune, non per nulla un’uniforme incute più rispetto se non “timore” o ammirazione, mentre una divisa da lavoro di una fast food chain può suscitare indifferenza.

    In entrambi i casi sembra che dall’influenza dell’aspetto esteriore e dall’effetto “prima impressione” si faccia fatica a liberarsi. Nel mondo in cui ci troviamo oggi in particolar modo, costruito su molti contatti e interazioni sociali puramente in “toccata e fuga” sembra proprio che l’unicità del singolo individuo fatichi ad essere percepita e si tende quanto possibile ad “uniformarsi” e quindi anche ad assegnare una certa uniformità agli altri. Fermandosi a fare sosta in autogrill in autostrada è altamente probabile che i commessi con cui interagiremo non li si rivedrà mai più dopo essercene andati, quindi, per predisposizione a fare economia di informazioni, la nostra mente non si soffermerà in ogni caso ad andare oltre all’apparenza di quella persona.

    Il caso migliore probabilmente si trova nel privato o nel freelance, dove la qualità della vita lavorativa è diversa e l’individuo è libero di non appartenere ad alcuna identità stereotipata, a costo comunque di non essere immediatamente percepibile, anche se non mi spingerei ad affermare pessimisticamente che a quel punto le persone hanno perso voglia di andare in profondità. Alla fine, i business che oggi hanno più successo sono proprio quelli che tendono a creare rapporti di fiducia e quindi il meno possibile superficiali con il cliente.

    Rispondi
  48. Michele Saracino   25 Agosto 2021 at 14:08

    “L’abito fa il monaco, il metalmeccanico, l’avvocato, il rapper, il banchiere, la signora alla moda, il fantino, il musicista, il cuoco, la prostituta, il poliziotto…I nostri abiti sono l’immagine è la sicurezza di ciò che siamo o facciamo”. – Olviero Toscani.

    Per alcuni aspetti sono d’accordo con queste parole di Toscani, penso che per alcune professioni, soprattutto quelle creative, l’abito faccia il monaco, rispecchia ciò che sei, ciò che senti, ciò che ti piace e di consequenza fa già parlare di te.
    La prima impressione credo sia fondamentale, pe questo, quando incontro una persona per la prima volta ed essa m’interessa per vari motivi, cerco di fare una bella impressione, perchè come dice la psicologia del marketing, poi ci vogliono 7 buone impressioni per rimediare.

    Sono anche fermamente convinto che ciò che indoassiamo quitidianamente, sia il riflesso di ciò che siamo noi internamente, è la nostra seconda pelle e io personalmente gli dò molta importanza, anche se molte volte ritengo che alcune convenzioni vadano superate.

    Rispondi
  49. Matteo Mazzotti   27 Settembre 2022 at 11:03

    “Il fascino oscuro dell’immagine, nel mio caso, nasce dall’empatia che provo per l’operaio. È come se mi trovassi al suo posto e stessi meditando…”

    Credo che questa frase sia il giusto mezzo per cercare di comprendere il quesito.

    “L’abito fa il monaco” non sono mai stato d’accordo con questo detto.

    Se prendiamo la foto di Salgado vediamo un operaio, e stabiliamo questo dal suo abito, ma capiamo la sua disperazione, la sua stanchezza semplicemente osservando la sua espressione e cercando di immedesimarci nella sua situazione, completamente scavalcando il suo abito.

    Prima di essere carabiniere, operaio, pompiere, insegnante, etc… siamo tutti persone.

    Rispondi

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