“La vita ha senso solo se si vive “contro”. Il conformismo uccide la creatività e finisce per annientare l’uomo”.
“Ho vergogna di appartenere alla razza umana. Quella razza umana basata sull’economia di mercato. Quella per cui l’Europa è una moneta invece che un progetto di civiltà. Visto che la razza è diventata (anzi è sempre stata) motivo di divisione, di intolleranza, di sopruso; visto che a causa della razza non abbiamo più rispetto nemmeno per i bambini e li buttiamo a mare, li speroniamo e li uccidiamo. Io rifiuto questa appartenenza. Da oggi in poi appartengo alle scimmie, ai serpenti, ai cani, alle jene: a quella razza animale che spesso viene usata come esempio per dimostrare la superiorità dell’uomo. Da oggi restituisco la mia identità di uomo per assumere quella di bestia”. Oliviero Toscani
1. Un fotografo inattuale
Un giorno chi studia la pubblicità e la fotografia dovrà distinguere tra un prima e un dopo Oliviero Toscani.
L’effetto di smottamento della montagna di banalità create dagli apprendisti stregoni della pubblicità (1), causato dalle scelte espressive e dai contenuti imbricati nelle immagini del fotografo, nel corso del decennio nel quale sembrava definitiva l’affermazione degli spot su tutte le altre forme del linguaggio pubblicitario, inaugurò una fase nuova dei rapporti tra aziende, comunicazione e pubblico.
Infatti, negli anni ottanta del secolo scorso, insieme agli stilisti furono i pubblicitari a divenire vere e proprie star di ciò che potremmo definire il “communication system”.
In Italia, nel giro di pochi anni, il loro modo di concepire la comunicazione persuasiva, divenne un punto di riferimento fondamentale per tutte le aziende che cominciavano a scoprire l’efficacia di spot spettacolari programmati nelle emittenti televisive.
Oliviero Toscani, con scelte coraggiose e una straordinaria determinazione, propose una radicale contro-tendenza nei confronti dei modi della pubblicità ordinaria. Invece che enfatizzare la dimensione di sogno delle merci, costrinse l’opinione pubblica a un brusco risveglio, introducendo negli effetti testuali delle sue immagini, elementi del reale sino a quel momento rimossi dalla semantica ideale delle narrazioni considerate efficaci per generare desiderio (di acquisto, di possesso, di status). Ai piccoli, incantati e fasulli mondi possibili di marca, costruiti sterilizzando il testo da qualsiasi contaminazione negativa, oppose il progetto di una azienda-mondo (la Benetton), aperta a un confronto serrato con i discorsi, spesso traumatici, che attraversavano il sociale.
Prima di lui, solo William Klein, Guy Bourdin e pochi altri fotografi avevano avuto l’audacia di traumatizzare la comunicazione pubblicitaria della moda, in modo altrettanto scioccante. Potrei aggiungere alla breve lista anche Helmut Newton, sottolineando però i limiti delle sue provocazioni, riservate al solo contesto erotico. La passione etica di Oliviero Toscani aveva ben altro spessore. Non credo di esagerare se sostengo che la sua partecipazione critica espressa attraverso il linguaggio fotografico, coinvolgeva pressoché tutte le escrescenze problematiche della forma di vita occidentale.
Intendiamoci, dopo quasi trent’anni da quei giorni, sappiamo che non potrà mai esistere una generalizzazione del metodo Oliviero Toscani. Ma il suo audace attacco ai modi della pubblicità tradizionale ha dato coraggio e creatività a molti interpreti di questa disciplina. Inoltre ha contribuito a rendere meno timidi nei confronti delle grandi agenzie pubblicitarie, numerosi manager. Non è dunque un caso se oggi, ad anni di distanza dall’uscita delle sue più famose campagne, al netto dell’impatto determinato dal successo del web ancora da valutare nei suoi effetti ristrutturanti, possiamo registrare nel campo della comunicazione pubblicitaria una maggiore eterogeneità, una minore omologazione, più attenzione al reale e all’intelligenza del messaggio, rispetto al tempo in cui regnava sovrano lo star-system teorizzato da Jean Seguela (2) e lo stile Mulino Bianco o Pasta Barilla di Gavino Sanna.
Forzando un po’ il F.Nietzsche di “Considerazioni Inattuali”, mi piace definire Oliviero Toscani il maestro dei fotografi inattuali. Molto più di altri suoi colleghi pur predisposti ad uscire dagli schemi tradizionali, il celebre fotografo ha dimostrato di essere dentro la Storia del suo tempo, ma ciononostante ha agito con coerenza contro le narrazioni storiche dominanti. In questo furore creativo che lo faceva essere dentro e fuori dal processo storico in atto, dobbiamo riconoscere l’impronta di una modalità soggettiva particolare che nel passato veniva attribuita a chi si ribellava ai canoni, reagendo alla stupidità e alle ipocrisie del proprio tempo. A tal riguardo, oltre ai caratteri dell’inattualità, se penso alla carriera di Oliviero Toscani (perfettamente raccontata e illustrata dal libro apparso nel 2016 per i tipi dell’Electa e intitolato “Oliviero Toscani, più di 50 anni di magnifici fallimenti” ) si impongono alla mia attenzione due ulteriori immagini di sintesi dell’artista sovversivo.
La prima è quella del poeta visionario, ladro di fuoco, di Arthur Rimbaud: l’artista maledetto è come un Prometeo che forza il linguaggio del quale si serve per strappare la gente dal sonnambulismo indotto dal conformismo.
La seconda immagine mi riporta al Das Unheimliche di Sigmund Freud, tradotto in italiano con il perturbante. Con questo aggettivo sostantivato, trasformato in concetto nel contesto dell’analisi estetica, l’inventore della psicoanalisi voleva alludere al sorprendente quanto misterioso sentimento di inquietudine e di paura in presenza di qualcosa che dovrebbe risultarci familiare.
Se ci pensate bene, molte delle immagini che tutti ricordano di Oliviero Toscani, sia quelle fatte personalmente dal fotografo sia quelle tratte dalla cronaca, pur drammatiche o addirittura ciniche, fanno tristemente parte della contemporaneità. In altre parole, sono immagini che vediamo quasi ogni giorno in Tv o scorrendo le pagine di un quotidiano. In breve sono immagini, passatemi il termine, che nello scorrere del tempo ordinario purtroppo sono di casa. Eppure, grazie ad un apparentemente banale spaesamento, che importanza volete che abbia se la foto di un cimitero o di un omicidio mafioso le vediamo pubblicate in formato cinema piuttosto che micro, rispetto al contenuto raffigurato, ingenuamente pensiamo; eppure dicevo, queste immagini trascinate in un altro contesto diventano improvvisamente perturbanti. Perché? L’ipotesi che attraverso una loro ristrutturazione conservativa (nel senso urbanistico della parola), riemerga la loro portanza traumatica, rimossa dalla liquidità dei processi publinformativi in formato Tv, penso sia da tenere in considerazione. Questa congettura basata sulla ambivalenza delle immagini di Toscani aiuta a comprendere anche il disorientamento prodotto dalle sue campagne tra i pubblicitari: mai avrebbero immaginato che il ritorno del rimosso delle immagini da essi con tanta cura create e vendute a speranzosi imprenditori (la messa in immagine di merci forzate a sognare, per forza non tollera situazioni problematiche), un ritorno del rimosso fatalmente di natura traumatica, potesse essere al contempo congruente con lo stile di relazione tra una grande azienda della moda (Benetton) e il suo pubblico, talmente efficace da garantirle una notorietà planetaria.
2. Uno sguardo al contesto
Facciamo un salto all’indietro. Planiamo agli inizi del processo che portò alla rapida accelerazione dello sviluppo delle tecniche pubblicitarie in Italia.
Erano i primi anni ottanta e la TV commerciale apparve tra un pubblico sonnolento, passivo, intorpidito da una televisione di Stato burocratizzata come poche altre in Occidente. Le raffiche di spot che arrivarono insieme alle TV private, sostennero programmi di grande successo popolare. In pochi anni aumentarono i canali televisivi a disposizione dei tele-comunicati delle aziende. I fatturati cominciarono a crescere. La professione di anchorman e di comunicatore divenne una delle attività più desiderate dalle giovani generazioni che, terminati gli studi, si affacciavano al mondo del lavoro. I pubblicitari venivano invitati a cena dai più importanti politici e sui giornali si leggeva quotidianamente che l’oggetto della politica era un prodotto come tutti gli altri e che andava quindi confezionato, presentato, imposto come un qualunque marchio di successo. Finalmente i guru della pubblicità potevano unire al successo economico e al prestigio di una professione ambita, invidiata, corteggiata, il potere indotto dalla rete di relazioni ad altissimo livello nella quale erano coinvolti i protagonisti dell’economia e della politica.
Pochi osavano opporsi al paradigma della nuova pubblicità descrivibile in questi termini: ogni cosa, contenuto e servizio possono essere merce e quindi vendute con successo se tradotte nel linguaggio della pubblicità-spettacolo.
In questo contesto si comprende bene come il movimento tellurico, causato dagli impietosi colpi portati da Oliviero Toscani alle procedure standard dei nuovi persuasori assai poco occulti, sia stato tale da generare un diffuso senso di perplessità, disorientamento, irritazione, anche presso opinion leader sostanzialmente estranei alla pubblicità e tra l’opinione pubblica di tutti i più importanti paesi occidentali.
All’inizio delle famose campagne che descriverò più avanti, molti tra gli addetti ai lavori ebbero paura di finire travolti dalle sconcertanti provocazioni di Toscani.
Diciamo subito che col senno di poi risulta facilmente comprensibile e forse anche in parte calcolata dal fotografo, la reattività negativa di un mondo pubblicitario che da almeno un decennio si era abituato all’auto incensazione, presentandosi ai clienti e alla pubblica opinione nelle vesti di creativi e art director di un mondo di merci trasfigurate in segni, in favole, in fasci di emozioni che avevano come medium ideale i canali televisivi. Oliviero Toscani per contro, vale la pena di ricordarlo, detestava la televisione ordinaria. Come il filosofo Karl Popper, considerava il suo impatto sulle coscienze devastante.
L’opposizione degli apparati spettacolari e pubblicitari che con un appena dissimulato cinismo si atteggiavano a grandi arbitri della comunicazione dell’era post-moderna, nei confronti di Oliviero Toscani, fu durissima. Tra il 1989 e il 1994 gli articoli contro le campagne del fotografo non si contavano più. E’ anche vero che molti intellettuali e una parte dell’opinione pubblica sembravano gradire le sue provocazioni.
Col passare degli anni, seppur oggi ci ritroviamo relativamente vicini al momento critico di quella guerra semiologica, la portata eversiva dell’operazione di Oliviero Toscani tende a stemperarsi e a fare emergere un modo di intendere la comunicazione forse discutibile, ma coraggioso e legato ad un impegno che intreccia un certo modo di concepire la pubblicità con una decisa presa di posizione etica sui fatti del mondo.
3.Due parole sulla formazione di Oliviero Toscani
Se prestiamo fede alle parole del fotografo, contenute nel suo primo libro (Ciao mamma, Mondatori, 1995), l’unica istituzione scolastica alla quale ritiene di dovere qualcosa è la Kunstgewerbeschule (Scuola di arti applicate) di Zurigo. Di ispirazione Bauhaus e quindi molto diversa dalle scuole italiane del periodo, proponeva quell’intreccio di pratica e teoria critica che appassionò un giovanissimo e irrequieto Oliviero Toscani.
Probabilmente in questi anni matura le due propensioni che si concretizzeranno in un modo di concepire e trasformare in azione la fotografia, decisive per il suo tratto di stile:
- in ogni immagine si riflette il punto di vista soggettivo di un uomo che prende posizione nei confronti del mondo… la foto trasmette valori, preferenze, scelte e nel preciso momento in cui diviene comunicazione, fatalmente riflette un punto di vista con implicazioni sociali e politiche;
- a Zurigo, Oliviero Toscani può familiarizzare con le pratiche delle avanguardie artistiche storiche, sperimentandone la fecondità. A tal riguardo Lorella Pagnucco Salvemini, nel suo eccellente “Benetton/Toscani, storia di una avventura”(Bolis Edizioni), giustamente scrive: “Il DNA artistico di Toscani si compone degli stessi geni dissacranti, derisori, irriverenti di Duchamp. Medesima predisposizione a produrre lo shock, offrire costantemente un punto di vista diverso da quello corrente”(3).
La familiarità con le avanguardie storiche aiuteranno Toscani alla piena comprensione dell’estetica/etica dello straniamento ovvero gli slittamenti del significato attivati da improvvise de-contestualizzazioni.
Terminati gli studi diviene un protagonista nella fotografia di moda. Lavora per “Vogue” (soprattutto Vogue Uomo Italia), per “Elle”, “Harper’s Bazaar…solo per ricordare le testate più importanti. In realtà Toscani ha talento, è audace e provocatorio come piace alla moda degli anni ’70. Diviene presto uno dei fotografi più richiesti.
In questa fase della sua carriera manifesta un interesse profondo per l’approccio dissacratorio di Andy Warhol nei confronti delle immagini alte e del conseguente recupero delle immagini basse della cultura popolare. Le manipolazioni della pop art entreranno nel suo repertorio anche se dovranno fare i conti con la razionalità, l’estrema precisione e la coerenza dello suo stile.
Ma l’essere considerato un fotografo alla moda e il privilegio di frequentare la New York degli artisti che pur sbeffeggiando la società dei consumi la vivono da costosi protagonisti, molto corteggiati e ben pagati, non appaga Toscani.
E’ sorprendente notare come, fin dagli inizi, oltre ad un fotografo di indubbio talento e professionalità sia soprattutto un geniale art director delle strategie di comunicazione.
L’esperienza dei jeans <Jesus> dimostra come Oliviero Toscani sia avanti di almeno dieci anni rispetto le più acclamante agenzie di pubblicità del periodo.
La foto del culo della famosa modella Donna Jordan, la sua fidanzata del periodo, culo appena dissimulato da jeans trasformati in hot pants, è veramente forte, di grande impatto senza essere perversa come le immagini di Newton o Guy Bourdin, in quel periodo molto discusse. A ciò Emanuele Pirella, uno dei nostri pubblicitari più bravi, giustappose il geniale slogan evangelico <Chi mi ama mi segua>.
L’effetto fu devastante. Botta e risposta tra “Osservatore Romano” e Pier Paolo Pasolini, con uno strascico polemico che se portò alla censura del manifesto di Toscani (verrà tolto dalla circolazione in ogni parte d’Italia) lo consacra come uno dei colpi più riusciti della pubblicità del periodo.

4. Benetton: dalla maglieria all’internazionalizzazione dei mercati
I fratelli Benetton nel 1965 crearono una piccola azienda artigianale che produceva maglieria. Ciò che li distingueva da altri produttori era soprattutto una idea pragmatica che si rivelerà vincente: nel processo produttivo adottano un procedimento che si chiamerà “tinto in capo” che consiste nel colorare l’indumento praticamente quando il mercato ha deciso i colori dominanti della stagione.
Questa tecnica consentì ai Benetton di avere sempre i colori giusti in ogni stagione e di risparmiare tantissimo sui resi.
L’altra idea vincente fu di non badare a spese sul fronte dell’innovazione tecnologica e organizzativa.
La strategia commerciale della Benetton infatti per oltre un trentennio si è rivelata perfetta: uno o più negozi in franchaising nel centro storico di tutte le città italiane e nei punti nevralgici delle capitali e delle città significative del mondo.
Sul fronte tecnologico Benetton non temeva rivali. A Castrette (TV) l’azienda aveva costruito un centro produttivo che per decenni è stato considerato di assoluta avanguardia.
Per quanto riguarda la comunicazione il gruppo fino all’83 adottò uno stile tradizionale di pubblicità.
Producendo abbigliamento casual adatti soprattutto per giovani, Benetton si comunicava attraverso foto che ritraevano ragazzi e ragazze che indossavano gli abiti pieni di buon senso creati da uno staff creativo che con la dimensione del colore strizzava l’occhio alle tendenze, senza però esasperarne il design e le forme.
Ovviamente i modelli utilizzati nelle innumerevoli campagne raffiguravano una generazione bella, sana, sportiva, spensierata che attraversava luoghi facilmente decodificabili dal fruitore: una spiaggia esotica, una piazza conosciutissima…etc.
In molte occorrenze le foto della pubblicità e dei cataloghi presentavano situazioni di gruppo con l’evidente intenzione di tradurre nei linguaggi della pubblicità il paradosso tipico dell’adolescenza: ambire a essere un individuo ma sentirsi a proprio agio solo nella propria tribù. Col senno di poi possiamo riconoscere nell’accanimento della Benetton nei confronti del dilemma io/e i miei pari, un adeguamento al processo storico che dal ’68 sino alla fine degli anni settanta accompagna l’evoluzione delle apparenze di una generazione quant’altre mai inquieta e trasgressiva.
Infatti, la lotta per cambiare la società post-industriale ( il sogno della generazione adolescente intorno al ’68), criticandone gli inganni, implica che io giovane ribelle devo essere cosciente delle sue contraddizioni… Devo dunque essere un io che pensa. Ma al tempo stesso devo sciogliermi in un “movimento” ovvero sentirmi uguale a una piccola moltitudine di “altri”. Solo così posso far coincidere uno stile di pensiero, di lotta e di vita con qualcosa che assomiglia ad una nuova forma di vita (a un mondo alternativo).
Visto dal di fuori del processo storico e dei problemi strutturali della moda c’è chi trova in questa conciliazione degli opposti qualcosa di essenzialmente contraddittorio. Non è così. Non solo è l’intera vita sociale in occidente richiede una elaborazione di questi due principi, ma è la moda stessa che non è pensabile al di fuori della logica che mette in simbiosi la distinzione con la massificazione.
Non esiste un paradosso psicologico tra l’uno e il molteplice per il semplice motivo che siamo fatti così, sia come natura umana e sia come linguaggio.
Ecco perché i messaggi apparentemente contraddittori delle campagne dell’azienda hanno funzionato benissimo per oltre un decennio, guidando la crescita in immagine del marchio fino all’anno in cui Oliviero Toscani erediterà la responsabilità di declinare in modi più efficaci ciò che a questo punto possiamo considerare la batteria semantica di base della Benetton (ovvero la costruzione di una unità duale che identifica e unisce un io e gli altri).
Tra l’altro, in anticipo su molti concorrenti, l’azienda trevigiana cominciò presto a differenziare le linee di abbigliamento utilizzando strategie di marca. Per esempio con il brand Jean’s West cercò di intercettare un pubblico giovanile più propenso a mettere in gioco le regole delle apparenze che polarizzano i sessi. Nulla di particolarmente geniale. Infatti una delle macrotendenze degli anni ’70 è la cosiddetta moda unisex. Ma ancora una volta registriamo la non comune capacità dell’azienda di rimanere in contatto con l’evoluzione dei gusti della classe di individui che fungono da riferimento. Ecco allora apparire pubblicità con ragazze che vestono, vivono come ragazzi… Nasce allora l’esigenza di comunicare ad entrambi lo spirito della marca. Sono anni marcati da personaggi che fanno della trasgressione la leva per smuovere l’inerzia di una società che cambia più lentamente rispetto i desideri di una generazione e sono questi personaggi che verranno utilizzati in alcune campagne di grande impatto intorno alla metà degli anni settanta: Andy Wharol, Mick Jagger, Jimi Hendrix…
5. Benetton/Toscani
Nell’83 Luciano Benetton ha una azienda in vertiginosa crescita che ha bisogno di espandersi nel mondo. Urge una comunicazione transnazionale che favorisca processi di condivisione delle strategie Benetton (l’azienda essendo un franchising ha bisogno di partner) e al tempo stesso di efficacia su di un pubblico fatto anche di genitori, bambini e adolescenti.
Grazie a Elio Fiorucci avviene l’incontro tra l’industriale veneto e il fotografo. Nel 1984 esce la prima campagna. La soluzione del dilemma comunicativo evocato sopra è semplicemente geniale: il marchio diviene “All the colours of the world” che, un anno dopo, verrà aggiustato in “United colors of Benetton”. Con questo marchio la missione aziendale sembra evocare un livello etico che impegna la Benetton molto aldilà della logica dello scambio tipica del mercato.
Sulla scorta di questo impegno che, colpo dopo colpo Benetton negozia con i propri clienti, Toscani costruirà uno dei romanzi di comunicazione più appassionanti della storia della pubblicità.
Come tutti i romanzi che si rispettano, nella saga Benetton/Toscani ci saranno alti, bassi, ostacoli, gesti audaci sino alla temerarietà. Come tutti i veri bei romanzi dicevo, non ci sarà un lieto fine.
Diciamo subito che la grande libertà creativa ottenuta da Oliviero Toscani è dipesa molto dalla figura e dall’intelligenza di Luciano Benetton, uno dei grandi personaggi della vita d’impresa del nostro Paese, al quale lo status di magliaro geniale e di successo stava stretto.
Divenne infatti senatore della repubblica e verso la fine degli anni novanta trasformò la Benetton in una delle poche multinazionali italiane capace di allargare il proprio business dall’abbigliamento ad altri settori strategici dell’economia.
Dobbiamo per forza immaginare che vi sia stata una certa complicità tra il fotografo e l’imprenditore.
Tuttavia bisogna aggiungere che la sperimentazione di Toscani ha potuto manifestarsi con l’esplorazione di strategie d’immagine borderline, anche grazie al fatto che il successo del franchaising dell’azienda aveva configurato uno scenario che già alla metà degli anni ottanta raccoglieva nei punti caldi (per il commercio) di tutte le più importanti città del mondo, migliaia di punti vendita perfettamente organizzati e di grande visibilità.
Ora, non dobbiamo spendere troppe parole per sottolineare l’effetto comunicazionale implicito in un punto vendita perfettamente dislocato nello spazio della città. E’ assolutamente evidente che una vetrina può facilmente trasformarsi in una sorta di testo visivo sul quale l’azienda può scrivere messaggi estremamente suggestivi.
Possiamo dunque immaginare che una delle dimensioni più scontate del marketing applicato alla comunicazione ( la cosiddetta comunicazione prodotto) fosse già perfettamente interpretata dalla rete distributiva dell’azienda attraverso vetrine che magnificavano la produzione Benetton, viste da milioni di persone.
Si comprende bene allora come il concetto di comunicazione strategica, invece che ripetere la medesima logica della vetrina, traducendo il prodotto in una foto fatalmente banale e di dubbia efficacia, potesse essere declinato secondo un progetto di variazioni sistematiche di configurazioni d’immagine il cui contenuto prendeva decisamente una traiettoria orientata al sociale.
Torneremo presto su questo argomento.
Per ora, ripercorriamo brevemente la storia di alcune campagne che attirarono l’attenzione degli addetti al lavori (e dei consumatori ovviamente) sul marchio Benetton, prima delle cosiddette campagne shock.
1984, Prima fase del rapporto Benetton/Toscani.
Titolo della campagna: Tutti i colori del mondo
Scenario: bambini di tutte le razze che ridono insieme. Il riso, segno dell’espressività umana per eccellenza, interpretato come il collante emozionale che riunisce i popoli e le culture.
1985, nasce lo slogan United Colors of Benetton
Fusione di colori e nazionalità diverse.
In ogni fotografia vengono raffigurate persone di vari paesi, insieme con la bandiera e con il simbolo di ogni paese evocazione della pace nel mondo.

1986-88, l’incrocio delle razze, ideologia multirazziale di Benetton.Il simbolo della terra, i modelli indossano cappelli e abiti che richiamano la tradizione del Paese al quale appartengono; atteggiamento di sapiente gravità. Bambini e adolescenti che sembrano più maturi degli adulti.

1989-90. Comincia la sterzata verso l’impegno sociale delle campagne Benetton/Toscani. Aumenta il contenuto polemico delle immagini. La foto della donna nera che allatta il bambino bianco suscita un vespaio negli Stati Uniti.
Le campagne sinora descritte raffigurano bene uno dei modelli compositivi preferiti da Oliviero Toscani. Quando riteneva primario concentrare l’attenzione del fruitore sui contenuti simbolici del messaggio, il fotografo utilizzava uno sfondo monocromatico davanti al quale posizionava i giovani modelli. Gli effetti semiotici dell’immagine risultavano particolarmente idonei alla visione etica che Benetton/Toscani avevano maturato. Lo sfondo monocromatico, omogeneo determinava la percezione di un dominio semantico dello spazio rispetto la temporalità. Le figure evidenziate, protette dallo sfondo, potevano alludere ad una simbolizzazione decisamente assertiva che sintetizzava le “narrazioni problematiche” di partenza (per es: il devastante conflitto tra israeliani e palestinesi), in forme dell’espressione e del contenuto, percepite come a-temporali e performative. Ovvero, se osservate l’immagine dei ragazzini uniti da un gesto d’amicizia, sentimento che si trasmette attraverso gli arti destinati a sorreggere il piccolo mappamondo (riconoscimento dell’altro-amicizia-pace nel mondo, questo sembra essere la semantica fondamentale dell’immagine), io credo che come succede a me, vi percepiate un atto di senso che aldilà del messaggio trasmette impegno, determinazione e una solidità che a mio avviso aggiunge efficacia simbolica all’immagine.
Il riferimento all’a-temporalità non è casuale. Si correla perfettamente alle intenzioni del fotografo orientate a rovesciare le coordinate della moda standard: nessuna enfatizzazione sulla novità, sulle tendenze estetiche o futuri stili d’abbigliamento (negazione della temporalità più sfruttata dalla moda). Notate ancora quanto il prodotto risulti decentrato rispetto il punctum dell’immagine. Infine, non è irrilevante aggiungere che probabilmente si deve a Benetton/Toscani l’invenzione del bambino sapiente, ovvero un punto di vista sull’infanzia che rovescia la struttura del rapporto immaginario creato dalla pubblicità standard: al posto dei bambini plastificati in pose rassicuranti e mielose, troviamo soggetti che ricordano al mondo (dei genitori e degli adulti) le responsabilità etiche che devono assumersi.
6. Le campagne Shock
Tra il 1991 ed i primi mesi del 1992, comparvero in tutto l’Occidente campagne pubblicitarie concepite da Oliviero Toscani per il marchio United Colors of Benetton che immediatamente suscitarono grande scalpore. Il fronte della stampa, degli opinionisti, degli addetti ai lavori subito si polarizzò tra chi, da un lato, esibiva una decisa ostilità verso le fotografie scioccanti esibite su spettacolari cartelloni pubblicitari e chi, dall’altro lato, manifestava una reticente, prudente accettazione dell’impegno sociale che il messaggio evocava.
Ricordiamo brevemente la serie di fotografie shock che in rapida successione apparvero su tutti i più importanti periodici e in grandi affiche nelle maggiori città dell’occidente.
Le più scandalose furono tre:
La foto di Theresa Frare raffigura David Kirby, trentaduenne malato di Aids, morente, circondato dalla commovente, rassegnata disperazione della famiglia. La composizione ha la bellezza tragica e solenne di un quadro classico: il padre circonda con il braccio il capo del figlio appoggiando il proprio volto in lacrime sulla sua fronte; lo sguardo fuori campo di David, in rilievo su di un volto scavato dalla morte, non può vedere l’abbraccio affettuoso della madre che stringe a sé la figlia paralizzata dalla paura e dal dolore. Nemmeno “Il compianto” del Correggio (Pinacoteca di Parma) riesce a narrarci la disperazione della morte con una simile elegante, tragica efficacia.

Qualche mese prima aveva suscitato scalpore la foto di Toscani con il primo piano di una bambina appena nata, Giusy, imbrattata di sangue e di vernice caseosa, la sostanza callosa che serve a proteggere il feto nell’utero, ancora attaccata alla madre dal cordone ombelicale, colta nell’attimo in cui risponde all’arrivo nel nostro mondo con un grido disperato. Vista con lo sguardo implicito di questa foto, infatti in questi casi è l’immagine che ci guarda ed interroga e il passaggio alla vita ha qualcosa di perturbante.
Se per il senso comune e per la moda la rappresentazione canonica dell’infante assomiglia agli amorini barocchi, ovvero a un bambinetto roseo, ridente e rotondetto, la discesa alle origini della vita, evocata dalla foto di Giusy, scardina il teatrino dell’immaginario e manifesta nella sua mostruosità una prima, sconcertante apparenza dell’essere nato vivo.
Appare comprensibile la reazione di incredulità e di disgusto che accompagna il crollo delle nostre fantasiose aggrappate alle sempre troppo depurate immagini dell’infanzia.

Una terza fotografia, uno scatto di Patrick Robert, rappresenta un soldato mercenario di colore, di schiena, che stringe nelle mani, il femore di un uomo. Il contrasto tra fucile mitragliatore e osso umano, utilizzato come un’utensile da offesa primitivo e/o un trofeo, evocano l’orrore della violenza riservata al nemico; la mano ingentilita dall’anello dorato trasforma l’affronto all’umanità del gesto del soldato, in una disarmante parodia della furia persecutoria, predatoria, omicida che governa le relazioni tra gli uomini in quella specie di inferno che è il terzo mondo.
L’orrore deriva dal fatto che noi guardiamo quest’osso dall’interno del nostro mondo ovattato, incapaci di dare un senso ad una violenza senza limiti.

L’apparizione delle immagini di P. Robert, di T. Frare e della foto di Giusy, scatenò un putiferio tale da far intervenire la censura del Giurì di autodisciplina pubblicitaria. In Francia, Benetton aveva già subito una denuncia dell’Agrif (Lega generale contro il razzismo e per il rispetto dell’identità francese) nei confronti di una campagna supportata dall’immagine del bacio tra un prete e una suora: l’accusa era di razzismo anticristiano. Senza dimenticare il gran rifiuto in Germania, Gran Bretagna e nella stessa Francia, della foto di un cimitero di guerra, con lunghe teorie di croci ben allineate, a significare con un ironico cinismo il risultato finale di ogni conflitto. L’Occidente si trovava a pochi giorni dalla guerra del Golfo e la cruda verità del messaggio sembrava inaccettabile.

Evidentemente le nuove foto choc rinfocolarono le polemiche.
La durezza delle immagini sembrava inaccettabile. Il fatto che Oliviero Toscani avesse ragione nel denunciare l’orrore che attraversava le nostre vite dopo essere stato sterilizzato dagli schermi freddi delle Tv, era secondario rispetto agli argomenti moralistici che come un meccanismo di difesa, immediatamente vennero eretti dalla maggioranza chiacchierona dell’opinione pubblica.
A questo punto, visti i precedenti, erano sempre più numerosi gli opinione leader che scommettevano sul crollo di immagine del gruppo, seguita da una devastante caduta delle vendite. E infatti, dei 820 articoli apparsi in tutto il mondo, relativi alla campagna Autunno/Inverno 1991, scritti per commentare, condannare, infamare lo scandalo Benetton, una buona parte denunciavano il cinismo, il carattere gratuito, il non senso dell’uso delle immagini shock da parte di Toscani (4). Tuttavia, come sempre succede, non mancarono le voci a favore.
Per un certo periodo fu difficile capire come si sarebbero schierati i clienti dei prodotti Benetton. Poi finalmente cominciarono ad arrivare i dati del mercato: le vendite erano aumentate; non sussisteva affatto il rischio del paventato crollo d’immagine; il valore della ricaduta comunicazionale delle polemiche e dei commenti al seguito delle campagne era di proporzioni inaspettate.
Le campagne di Benetton ora apparivano come uno dei casi di comunicazione più interessanti degli ultimi decenni.
7. La guerra contro Toscani di intellettuali, opinion leader, giornalisti
Un ruolo importante per la diffusione dell’ondata di sdegno nei confronti del fotografo lo ebbero, stranamente, numerosi direttori di riviste progressiste e prestigiosi intellettuali di area liberal.
Il caso tedesco mi pare emblematico.
Subito dopo l’apparizione in molti Paesi europei delle immagini relative alla campagna shock che abbiamo rivisitato sopra, in Germania, l’Agenzia per la lotta contro la concorrenza sleale denunciò formalmente Benetton e il periodico “Stern”, colpevole di aver pubblicato le immagini Benetton. Il tribunale di Francoforte, con una sentenza dell’ottobre 1993, proibì all’azienda italiana la diffusione di alcuni soggetti della campagna.
Allo scontato ricorso di Benetton fece seguito la sentenza definitiva dalla Corte Suprema Federale di Karlsruhe, resa pubblica alla fine del 1995: venne confermata la condanna, con la motivazione che i manifesti di Benetton sfruttavano cinicamente sentimenti e compassione per fini commerciali.
Non va dimenticato che, nei due anni di tempo tra il giudizio in primo grado e quello definitivo, gran parte della stampa tedesca attaccò duramente e con regolarità il fotografo.
In particolare Marion Grafin Donhoff, direttrice della rivista amburghese “Die Zeit” e gran personaggio della cultura dell’impegno, si distinse per una opposizione radicale che non ammetteva incertezze.
L’argomentazione centrale dell’azienda sotto accusa – noi della Benetton non abbiamo voluto esibire prodotti, bensì suscitare discussioni nella società e solo indirettamente richiamare l’attenzione al nostro marchio – insieme al punto di vista di Toscani – io sono un fotografo interessato ad anticipare le mode, a cogliere il processo di cambiamento nella società, e per far questo non posso appellarmi a una morale e a un gusto che risultano sempre molto soggettivi – questi due argomenti, sostenne M.G. Donhoff, sono desolatamente cinici e demoliscono le norme morali elementari.
“Ma la vera questione fondamentale – scrive l’autrice su di un articolo pubblicato in Italia dalla rivista Reset – è se la pubblicità debba rispettare certe norme morali elementari, o se Benetton possa appellarsi al diritto di libertà d’espressione. Io penso che si debba sottolineare che questo diritto non è una carta bianca”(5).
A distanza di anni, malgrado il paradigma del politicamente corretto abbia inebetito i progressisti, questa giustificazione della censura da parte di un personaggio noto per il suo liberalismo risulta sorprendente. Un individuo in una società aperta – proclamava l’accusatrice – dovrebbe accettare e sapere i limiti fino a cui si può spingere. Altrimenti ogni questione finisce per essere regolata con leggi e sentenze di tribunali, facendoci scivolare sempre più verso una società autoritaria. Ecco perchè Toscani è colpevole due volte: le sue foto umiliano i sentimenti morali del senso comune; e di conseguenza costringono il legislatore ad una attività di censura che ci getta di forza all’interno di un paradigma autoritario.
La reazione di Toscani alle parole della Donhoff non si fece attendere.
Dalle pagine della Repubblica del 7 dicembre 1995, intervistato da Loredana Lipperini(6), rispose con questo ragionamento: chi si sorprende perché le mie fotografie affrontano tabù come la vita, la morte, il sesso, la razza è oscurantista…Nella nostra società ogni cosa è fatta per essere venduta… e quindi le anime belle sono degli ipocriti. Grazie al mio lavoro il fatturato Benetton è in costante aumento. E’ vero! le sue strategie danno fastidio perché evitano sempre più i canali ufficiali della pubblicità: “Il timore di tutti – sosteneva Toscani – è che altri ci seguano, e finiscano per distruggere il sistema pubblicitario stesso: questa mafia orrenda dove esiste perfino un Giurì di autodisciplina”.
L’argomento della Dohnoff, non privo di una sua evidenza, mi pare tuttavia speso male. Più che al paventato rischio di involuzione verso una società autoritaria, la sua avversione alle foto Benetton sembrerebbe motivata dal proprio modo di concepire ciò che è corretto rendere di pubblica visibilità. Nascondere le proprie idiosincrasie personali dietro la mobilitazione di una opinione pubblica schierata, naturalmente dopo averla istruita con una massiccia dose di informazione polarizzate, ergendosi a difensore di una political corretness, è purtroppo tipico degli intellettuali liberal nella loro fase di burocratizzazione.
Ben altra interpretazione offrì Gilles Lipovetsky, filosofo ed autore di apprezzati studi sulla società contemporanea come “L’ere du vide”, in una intervista sul quotidiano <Liberation> nell’Ottobre 1993:
“…bisogna cominciare a guardare con attenzione quei messaggi, come quelli di Benetton, che sembrano ormai gli unici capaci di suscitare un dibattito nella nostra società. Il collegamento tra etica e business colpisce con violenza il pubblico.Penso che sia sbagliato. Mi pare che questo collegamento rappresenti un progresso in confronto alla stupidità della maggior parte degli annunci commerciali. La pubblicità Benetton è una delle poche in sintonia con la nostra società che è ormai in una fase nuova rispetto al consumo”.
Notate come per Lipovetsky il rapporto tra le foto di Toscani e la società risulti completamente rovesciato rispetto al punto di vista della Donhoff. Se per l’autorevole direttrice di “Die Zeit” la colpa di Toscani è di aver oltrepassato la soglia del pudore del senso comune, per il filosofo, la fuoriuscita del gruppo Benetton dal paradigma della comunicazione euforica (7) caratterizzata da una sempre meno intelligente leggerezza e da una crescente superficialità, indica una traiettoria che riceve un sostanziale consenso di consumatori stanchi di una retorica pubblicitaria banale e priva di contenuti.
8. Logica della provocazione
Desta stupore oggi, registrare quanti sforzi abbiano fatto molti commentatori, considerati degli esperti della pubblicità, per fraintendere completamente il senso del gesto trasgressivo di Toscani. Come mai, negli anni delle campagne più discusse, quasi nessuno si è interessato a comprendere la necessità e la fecondità della logica della provocazione per il discorso pubblicitario? Una risposta convincente la offre lo stesso Toscani nel suo già citato libro “Ciao Mamma”: “Non esiste una storia della provocazione pubblicitaria, poiché è compito della pubblicità appianare i conflitti, appiattire i problemi di comunicazione, livellare il gusto. Da quando è nata, la pubblicità è stata soprattutto fabbrica del consenso, il cui compito principale era informare sulle qualità di un prodotto per venderlo” (pag.46). Ma allora perché tanta pubblicità sembra attratta da modalità trasgressive, perlopiù attualizzate da programmate sceneggiate scandalose e da dosi eccessive di erotizzazione del corpo femminile? Si tratta in realtà di una provocazione fasulla, sostiene Toscani, dal momento che in questo caso si tratta più che altro di una tattica di stimolazione del desiderio per attivarne la prensività nei confronti dell’oggetto/merce ad esso contiguo.
Secondo Toscani la vera provocazione consiste …”in un uso spiazzante del mezzo pubblicitario che, ottenendo da un lato un enorme riscontro redazionale, mette in crisi, dall’altro, il sistema dell’advertising tradizionale. Parlare di altro negli annunci e negli spot, rifiutare la logica dei <consigli per gli acquisti> si rivela oggi l’unico modo davvero anticonformista e nuovo di ripensare la funzione della pubblicità”. La provocazione, quindi, e interpreto a mio modo le suggestioni di Toscani, avrebbe un duplice valore: da un lato manterrebbe l’estetica del messaggio a contatto con le emozioni primordiali (le passioni feconde che preservano la mente dall’ipnosi soporifera funzionale solo a fomentare la coazione all’acquisto), dall’altro lato, la provocazione consentirebbe quella vivacità semiologia capace di innovare i codici della neoretorica pubblicitaria. Infatti, se ci riallacciamo ancora alle parole di Gilles Lipovetsky, tratte da una intervista citata sopra (intervista raccolta da Didier Schilte, pubblicata su <Liberation> nell’ottobre 1993 e ripresentata da Toscani in Ciao mamma)…alla domanda: dove è possibile trovare oggi la provocazione che all’inizio del secolo era prerogativa dell’arte? Possiamo rispondere, e sembra un paradosso, che la trasgressione sembra ora più una prerogativa della pubblicità che degli artisti…Ripetiamo le parole di Lipovetsky…”per questo bisogna cominciare a guardare con attenzione quei messaggi, come quelli di Benetton, che sembrano ormai gli unici capaci di suscitare un dibattito nella nostra società. Il collegamento tra etica e business colpisce con violenza il pubblico. Penso sia sbagliato. Mi pare che questo collegamento rappresenti un progresso in confronto alla stupidità della maggior parte degli annunci commerciali. La pubblicità Benetton è una delle poche in sintonia con la nostra società che ormai in una fase nuova rispetto al consumo. Il consumo non ci fa più sognare. Dobbiamo piuttosto avere gli occhi aperti, abbiamo bisogno di nuove ispirazioni, di ricreare la nostra identità di uomini. Non possiamo quindi che augurarci un nuovo atteggiamento da parte delle imprese commerciali per un uso più intelligente delle risorse economiche destinate alla pubblicità”.
Si è insistito molto sull’ispirazione dadaista-surrealista di Toscani. Abbiamo visto sopra quanto il suo modo di ricreare il senso nei dintorni della comunicazione di marca o di prodotto dipenda da quello straniamento per la prima volta messo a fuoco a partire dagli atti artistici delle avanguardie storiche.
Il concetto di straniamento si basa sul riconoscimento dell’effetto sorpresa e della nuova ristrutturazione del senso che percepiamo quando un oggetto, una parola, una immagine, un tema si trova dislocato in un contesto che non gli appartiene.
Attraverso atti di comunicazione stranianti Toscani fa subire al senso un clinamen, una deviazione, una inclinazione che dà luogo spontaneamente ad un nuovo modo di organizzare il processo di significazione che caratterizzerà il messaggio.
Perché insisto sulla coppia straniamento/clinamen?
Ve lo dico in parole semplici. Il rischio che corrono i manager burocratizzati e, se volete, della disciplina del marketing è di concepire e strutturare il rapporto con il consumatore in modo troppo lineare per essere efficace aldilà delle potenzialità intrinseche del prodotto. Ecco perché nella realtà effettiva del mercato, esistono i marketing ovvero una galassia di modelli in costante evoluzione che adattano le assunzioni di base a situazioni via via sempre diverse.
Uno degli errori tattici più frequenti dell’interpretazione dogmatica del modello base del marketing è di concepire ogni turbolenza del mercato e dell’asse comunicazionale col consumatore come puro disordine o rumore. Da ciò discende la strategia a lungo più gettonata (e più stupida) tra i manager che vi sintetizzo in questi termini: maggiori quantità della stessa soluzione (imitazione de modelli considerati vincenti quindi più pubblicità standardizzata, promozioni sempre più pesanti, sconti e gadget in quantità industriale, compri due prendi tre, quattro…).
Lo ripeto, tutto dipende da come interpretiamo lo scarto dalle attese rappresentato da una crisi di mercato che a sua volta implica sempre una crisi di comunicazione con i consumatori. Se la rottura della linearità dei determinanti aziendali fosse sempre all’insegna del puro disordine allora potremmo immaginare che abbia senso il tentativo di ripristinare ciò che si è strappato.
Tuttavia oggi sappiamo che non è così. Il moto turbolento, ci dicono gli scienziati più accreditati, è la base del mondo organizzato. La rottura degli equilibri non è un possibile esito del processo economico, bensì è costitutivo del processo stesso. Ecco perché il clinamen principiorum (Lucrezio, De rerum natura, libro II, v.216 e segg.) è strategico per chi ha il compito di adattare le logiche aziendali ad un mercato (di prodotti e di segni) per definizione instabile e vorticoso.
La deviazione o l’inclinazione che facciamo prendere ad un processo comunicazionale non produce solo turbolenza ma al contrario può creare un nuovo livello d’ordine altamente organizzato.
Altre suggestioni pregnanti per comprendere l’efficacia di Oliviero Toscani ci arrivano dal “situazionismo”. Anche se il fotografo risultava lontano dai barocchismi teorici di Guy Debord e di Raul Vainegem, sembra pertinente congetturare un parallelismo tra il gioco situazionista e le lucide provocazioni simboliche che ho brevemente descritto sopra.
Molti situazionisti erano artisti che, stanchi di combattere l’ideologia del sistema capitalistico ostentando una contro ideologia frontale, cominciarono a prendere molto sul serio gli effetti destrutturanti di una pratica estetica fatta di sistematiche piccole provocazioni. In questo modo, sorprendendo il “sistema”, pensavano di sfuggire alla repressione e al tempo stesso immaginavano di portarlo all’implosione.
Niente di più sbagliato. In realtà il post capitalismo, secondo determinati rispetti, si rivelò più situazionista dei situazionisti, trasformando le trasgressioni e le provocazioni in catalizzatori del cambiamento (cambiamento a sua volta decisivo per lo sviluppo dell’economia allargata della società).
Da quei giorni le tattiche trasgressive entrarono a far parte della cassetta degli strumenti dei soggetti più sensibili al bisogno di cambiare le regole che annichiliscono la creatività e alla lunga impediscono l’evoluzione della società.
Non ci sono dubbi sul fatto che l’atto comunicativo preferito da Toscani rientri all’interno di questo paradigma della provocazione che si propone di cambiare le mentalità attraverso uno shock emozionale.
Infatti cos’è la provocazione dal punto di vista delle modalità semantiche di base?
La provocazione è un far sentire all’altro ciò che non vuole sentire e che lo spinge di forza verso una reattività polemica.
La provocazione, produce passione. E lo stato passionale trasducendosi nel linguaggio (passando dal linguaggio degli umori e degli affetti a quello fatto di parole) produce una esuberanza semantica che permette di saltare il tabù (ciò che non si deve dire, fare o mostrare) che caratterizzava un certo ordine simbolico.
Comprendiamo bene, allora, la valenza straordinaria dell’azione intrapresa da Oliviero Toscani nei confronti di un paradigma comunicazionale aziendale e pubblicitario che verso la fine degli anni ottanta stava correndo il rischio di sonnambulizzare il consumatore, con effetti forse positivi nel brevissimo periodo, ma assolutamente devastanti per l’evoluzione del rapporto marchio/cliente.
I continui déroulement (deviazioni di senso) del fotografo, non avevano nulla di particolarmente complicato; non ambivano a sintesi teoriche generali; non divennero mai un discorso olistico assimilabile a una contro ideologia. Tuttavia, risultarono molto più efficaci delle complicate costruzioni concettuali dei critici il cui pensiero gravitava nei dintorni del nuovo vangelo post marxista centrato sul famoso testo di Guy Debord, La società dello spettacolo.
Se nel terzo millennio nessun marchio della moda prescinde da protocolli etici con i consumatori e se con più frequenza rispetto il recente passato la comunicazione pubblicitaria propone messaggi coraggiosi e intelligenti, probabilmente lo si deve in misura encomiabile anche alle provocazioni di Oliviero Toscani.
9. Oliviero Toscani contro le grandi agenzie pubblicitarie
Molti intellettuali e autorevoli giornalisti, negli anni delle campagne shock, non furono certo teneri con Toscani. Ma la loro ostilità non raggiunse mai i veleni che arrivarono dal mondo della pubblicità ufficiale. Memorabile fu lo scontro con Gavino Sanna, il massimo interprete delle campagne piene di buoni sentimenti, tanto avversate da Toscani.
Secondo il creatore dello stile <Mulino Bianco>, con una argomentazione per la verità molto forzata, al punto da apparire totalmente illogica, la pubblicità di Benetton sarebbe simile alle tecniche di comunicazione dei nazisti e Toscani sarebbe una incarnazione di Goebbels (8).
Il ministro dell’informazione e della propaganda del partito nazista aveva capito – scrive Sanna- che manipolando la comunicazione si sarebbero potute manipolare anche le coscienze. Ma non ingenuamente con interventi diretti, bensì, attivando meccanismi inconsci, facendo leva sulle paure intrinseche del tedesco piccolo borghese.
L’esasperazione di contenuti negativi genera le emozioni che ci permettono di manipolare il soggetto: “Un’operazione che mette in luce il potere della comunicazione e gli effetti devastanti che può avere sulla psiche umana. Perchè, un conto se l’utilizzo della pubblicità serve a far vendere scatole di fagioli; e un conto se l’uso di tecniche pubblicitarie mira alla manipolazione, alla mistificazione, alla menzogna”.
Il pubblicitario se non vuole rischiare di emulare Goebbels deve porsi come tale di fronte al proprio interlocutore, ovvero deve produrre enunciati tra virgolette che presuppongano il fatto che aldilà del contenuto immediato, ciò di cui si dice è solo pubblicità. Inoltre anche il contenuto deve essere sottoposto ad attento controllo dal momento che sappiamo quanto la violenza simbolica possa scatenare l’emotività aggressiva.
Quindi, suggerisce Gavino Sanna, attenti alla pubblicità spazzatura come quella di Toscani che si avvale degli stessi metodi ossessivi dei nazisti, che propone costantemente contenuti violenti esasperando gli istinti più negativi nel consumatore.
A queste affermazioni Toscani rispose che il vero nazismo si nasconde il quegli spot che vendono prodotti facendo leva sui sogni delle persone (9). La vera violenza -secondo Toscani- sta nel farci credere che siamo quel che consumiamo, nell’illuderci che diventeremo quel che consumeremo.
Il contrasto tra il difensore del buonismo pubblicitario e il provocatore, il dissidente, l’artista-fotografo si protrasse per mesi.
Naturalmente Sanna, maltrattato oltre ogni misura dal fotografo su quotidiani, periodici e Tv, ebbe la peggio. E nemmeno una sua dissimulata autocritica apparsa sulla Stampa il 30 dicembre 1994, nella quale annunciava per gli anni a venire un maggiore impegno dei creativi verso la realtà e i messaggi ad orientamento sociale, lo salvarono da solenni legnate: “Bisogna conoscere almeno sommariamente la psicologia da prostitute di lusso dei pubblicitari per collocare nel giusto contesto il <ribaltone> teorizzato da Gavino Sanna… – gli rispose qualche giorno dopo il fotografo dalle pagine dello stesso quotidiano che aveva pubblicato l’intervista che conteneva l’autocritica- Alla ricerca incessante e nevrotica di budget da dilapidare, Sanna si converte, dal lunedì al venerdì, alla religione che gli sembra via via più redditizia. Ieri era la pubblicità dei cosiddetti <buoni sentimenti>, oggi è la pubblicità <sociale> a fargli intravedere confusamente nuovi guadagni”(10).
Ora, chiediamoci: come mai tanti pubblicitari, ben prima di una presa di posizione dell’opinione pubblica e con più animosità, rifiutarono e combatterono le scelte di Oliviero Toscani?
Una delle conseguenze inintenzionali dello shock causato dalle sue campagne fu un’escalation polemica che costrinse il fotografo ad un duro combattimento per dimostrare che il suo lavoro non sfruttava tanto le avversioni del comune senso del pudore verso determinate immagini, bensì dipendeva da un modo di concepire la comunicazione alternativo a quello della pubblicità istituzionale.
“Ma attenzione: Benetton non si presenta come il paladino delle Buone Cause…- scrive infatti Oliviero Toscani nel volume <Global Vision> -…Cerca piuttosto di stimolare una discussione critica all’interno della comunicazione pubblicitaria: introdurre immagini di realtà in un sistema che ha, o ha avuto, l’imperativo categorico di snaturare la realtà, falsificandola, rendendola più bella, eliminandone i conflitti, è già una novità clamorosa. E come si è visto basta a mettere in crisi i dati di fatto che credevamo di aver assimilato. E’ bello suscitare dei dubbi invece che rincuorare con il conformismo delle certezze” (11).
Queste parole esprimono bene il pensiero di fondo del fotografo e indicano il terreno di uno scontro tra modi alternativi di concepire l’identità pubblica di una azienda. Oggi, forse queste controversie potrebbero apparire scontate e per certi versi superate. Molte aziende hanno messo in primo piano l’etica della comunicazione. Trent’anni fa lo scenario era profondamente diverso. Parlare di etica della comunicazione era praticamente impossibile. E infatti, nell’arco di tempo in cui Oliviero Toscani divenne un protagonista assoluto, negli ambienti in cui la comunicazione era da sempre concepita come manipolazione del pubblico, lo scontro fu violentissimo da una parte e dall’altra.
La posta in gioco era ragguardevole. Come sopportare che un banale fotografo, seppur rompipalle come pochi altri, controllasse il budget di uno dei gruppi più importanti al mondo nel campo dell’abbigliamento? Come tollerare che senza ricerche di mercato, senza i creative directors, senza i copy, senza i consulenti delle grandi agenzie pubblicitarie, questo allevatore di inguardabili cavalli nani, raccogliesse tante attenzioni come nessun altro nel campo della pubblicità? E per giunta, il bifolco, ha l’imprudenza di rispondere a tono alle nostre indignate ragioni?
La distanza tra i duellanti fu subito incolmabile. E col senno di poi, mi pare di poter sostenere che il mondo della pubblicità ufficiale abbia perso l’occasione di presentarsi presso l’opinione pubblica più attenta, nelle vesti attualissime di chi, cosciente dei propri poteri e dei problemi, produce al suo interno i geni mutanti per nuove ed inedite risposte all’urgenza delle aziende di dover comunicare qualcosa di diverso dal l’ostentazione del prodotto.
C’è da dire che Toscani, con l’incattivirsi dello scontro, si ritrovò come si suol dire, a nozze. Con una progressione impressionante e con argomentazioni di una chiarezza stupefacente attaccò a suo modo le basi del sistema pubblicitario.
“Tra i tanti stupidari che sono stati scritti, manca ancora quello che riunisce le scemenze divulgate dalla pubblicità, che, purtroppo, diventa sempre più tragica…Qual è il miglior slogan pubblicitario di tutti i tempi? E’ la parola <pubblicità>. E’ il più efficace e il più imbroglione. Evoca cose positive, un servizio, una cosa utile… Non c’è niente invece di più parziale dell’interesse della pubblicità, che è piuttosto una <propaganda commerciale di parte senza contraddittorio>… La pubblicità raramente insegna qualcosa. E’ soltanto un martellamento infinito, destinato a far girare capitali. Ognuno di noi paga una tassa pubblicitaria, inclusa nel prezzo del prodotto reclamizzato. Dovrebbe essere una sorta di imperativo morale cercare di utilizzare questi soldi per qualcosa di utile” (12).
E le agenzie di pubblicità- continua Toscani- più che risolvere i problemi delle aziende autoriproducono le condizioni del proprio potere. Sono strutture costruite sull’intimidazione del cliente, sull’ostentazione di un falso sapere che ha lo scopo di capitalizzare se stesso per accaparrarsi sempre nuovi budget.
Ciò che propongono è sempre tremendamente scontato. “Anche perchè le agenzie non si sentono mai in dovere di fare qualcosa di più di quanto il cliente chiede. L’importante è che il cliente sia soddisfatto: non va turbato con idee troppo alternative, spesso viene blandito con proposte dove il prodotto è associato alla visione di una bella ragazza possibilmente nuda, va tranquillizzato, lasciato beatamente credere che la comunicazione si fermi lì, che non esistono altre strade e, se esistono, sono pericolose…altrimenti addio budget, addio segretarie, addio moquette, addio colazioni di lavoro…”(13).
10. Contro lo star system della moda
Lo stile di comunicazione pubblicitaria detestato da Toscani in realtà rappresenta il dispositivo retorico/persuasivo più compromesso con i modi di comunicare del sistema della Moda anni ’80/’90.
Interpretato come Star strategy oppure ricerca della comunicazione euforica, la Moda per decenni ha avuto orrore di un reale “troppo umano”.
Soltanto grandissimi fotografi del calibro di R.Avedon, I.Penn, W.Klein avevano saputo imporre immagini nelle quali il messaggio moda tentava una ironica convivenza con la vita di tutti i giorni.
Nel nostro Paese probabilmente i primi scatti che rovesciano parzialmente il contesto depurato dall’eccesso di reale della foto di moda canonica, sono quelli di Ferdinando Scianna alla fine degli anni ottanta, quando per alcune stagioni divenne l’image makers di Dolce e Gabbana:
Non avevo mai fatto foto di moda. Non sapevo niente della moda e delle modelle – raccontò il fotografo (14) alcuni anni dopo, quando cominciò a riflettere e a ripensare ad un momento che fu un punto di svolta della sua carriera- e probabilmente proprio il non-sapere (sulla foto di moda) lo portò a scegliere Marpessa come modella (“elle dègageait une grande energie”) e a trovare una serie di scatti memorabili che colloco in uno dei culmini della foto di moda degli anni ottanta. Comunque dobbiamo inserire le parole di Ferdinando Scianna in un contesto moda sostanzialmente diverso dall’attualità di quegl’anni. Le narrazioni dominanti degli anni ottanta erano perlopiù attratte dal paradigma glamouroso. I discorsi che emergevano dalla pubblicistica del periodo, davano per scontato che i processi della moda avessero come catalizzatore unico un algoritmo che correlava lusso, seduzione e uno sfrontato desiderio di esibizione come misura del grado di manipolazione del fruitore.
Malgrado gli anni sessanta/settanta avessero ridimensionato questo paradigma, i mass moda degli ottanta lo avevano resuscitato, al punto che tutta la storia della moda appariva come un pirotecnico catalogo di come dovessero vestire le élite di privilegiati per ottimizzare le loro apparizioni pubbliche.
C’è da aggiungere che in pochi anni emersero in modo esemplare i vizi di queste narrazioni, ascrivibili ai modi innocui di storicismo. Una delle sue forme classiche è rappresentata da uno scontato riferimento allo “spirito dei tempi”. Per esempio si diceva con stupefacente superficialità che dopo gli anni difficili della contestazione al sistema e del terrorismo (in Italia e in Europa), la gente era finalmente attratta da una stile di vita più spensierato e da un irrefrenabile desiderio di ricchezza e consumi. Insomma, per farla breve, lo spirito dei tempi era cambiato e ogni soggetto o categoria sociale in misura diversa ne portava le stimmate. Ma a una lettura più attenta la misteriosa impronta del zeitgeist di origini hegeliane sparisce. Infatti bisogna riconoscere che gli anni ottanta non sono stati solo all’insegna dell’eccesso e del glamour.
Se vogliamo limitarci ai contesti primari nei quali operava Oliviero Toscani, ovvero moda e comunicazione pubblicitaria, in realtà molte voci erano decisamente in distonia con il paradigma glamouroso. Così come nella moda vi sono stati stilisti come Kawakubo,Yamamoto, Vivienne Westwood, Margiela assolutamente refrattari al paradigma dell’iperseduzione a oltranza, nella fotografia Fallai, G.Roversi, Lindberg e Scianna hanno convinto con stili d’immagine molto diversi da quelli di Meisel, Ritts, Newton, per citare solo alcuni tra i fotografi che amavano di più le provocazioni erotico/seduttive.
Tuttavia i rumori di fondo del decennio puntavano a far emergere come tendenza dominante il chiassoso sistema moda caratterizzato da un lusso per nulla intimorito da eccessi e da stilisti divenuti personaggi pubblici di primo piano.
La distanza tra Toscani/Benetton dallo stile di comunicazione della moda e degli stilisti più importanti fu subito incolmabile.
Non possono dunque sorprenderci i dissacranti ritrattini dei più importanti stilisti divulgati da Toscani. Eccovene alcuni esempi:
“Valentino appartiene a quella categoria di persone che scoreggiano quando chiudono gli occhi per i troppi lifting con i quali si sono fatti stirare la faccia…lavora per vestire le donne che non lavorano…Donne a volte impaurite dalla loro inutilità. Fanno parte di un mondo di lusso volgare che, personalmente, mi fa orrore…
Gianni Versace dovrebbe essere lo stilista del Vaticano, del Papa. Così lussuoso, ricco…Uno che pensa seriamente che mostrarsi sia una specie di missione. Un esibizionista all’ennesima potenza, uno di quelli che si aprono l’impermeabile per far vedere l’uccello al Papa che passa tra la folla. Ha troppo gusto, troppi colori, troppi dettagli, è troppo alla moda…
Jean-Paul Gaultier mi piace molto perchè, al contrario di Lacroix, riflette sull’inutilità, sulla mancanza di senso della moda e riesce così a strumentalizzare il sistema, creando abiti assurdi ma che sicuramente ci dicono qualcosa sulla nostra realtà e forse sul nostro futuro…
Moschino lo avrei voluto come socio in un’agenzia creativa…Era un genio dell’immagine, e le sue pubblicità erano molto più belle dei suoi vestiti per donne strambe…” (15).
Ma il vero bersaglio del fotografo non è tanto chi appartiene al campo creativo. Il fatto che gli stilisti si adeguino a ciò che l’industria crede sia più vendibile, sottrae intelligenza ed interesse al mondo della moda. Ecco allora che al posto di un senso traballante arriva di gran carriera tutto l’assetto pubblicitario che la sostiene, omologato secondo il registro dello stile frivolo, lezioso, mielosamente seduttivo.
Da ciò ne discende la sopravvalutazione delle <modelle> e il misterioso potere delle redattrici di moda: “Le chiamo <le miserabili>. Sempre vestite di nero, sempre tristi o incazzate, curve sotto il peso della moda e della borsa di Prada” (15), chiosava, provocante come sempre Oliviero Toscani. Con il senno di poi, possiamo ascrivere il lavoro del fotografo nel il ristretto catalogo di creativi che pur avendo raggiunto il successo soprattutto grazie alla moda, non avevano avuto remore nel contestarla, denunciandone aspramente le criticità etiche. Si può discutere il suo modo intenzionalmente basso e volgare di evidenziare le sue critiche. Ma io penso che si debbano interpretare le sue parole come le deformazioni che impone il caricaturista ai segni per estrarre dalle sembianze del soggetto i tratti che ne caratterizzano la specificità. In definitiva Oliviero Toscani esprimeva in modo colorito una avversione per la moda dominante molto più diffusa di quanto immaginassero i suoi detrattori. Gli sviluppi delle mode del terzo millennio a me sembrano evidenziare le polarizzazioni che il fotografo a suo modo, esasperava, con l’intenzione credo di avvicinarle al quel in-più di realtà, nel quale in definitiva dobbiamo riconoscere il contributo precipuo di Oliviero Toscani.
11. Contro il dominio degli standard televisivi
Molti autorevoli commentatori ritengono che il successo di Toscani sia dipeso da due elementi fondamentali: la rottura con i modi tradizionali della pubblicità e in un secondo momento, l’incorporamento di frammenti del reale all’interno di un registro simbolico dominato, fino a quel momento, dall’irrealtà.
Ma prima di esaminare con maggiore attenzione queste due coordinate, diamo ancora un rapido sguardo sul come lavorava la pubblicità anni ottanta, tanto detestata dal fotografo.
L’inatteso, la sorpresa, un’interminabile rincorsa all’inedito, alla novità erano via via divenute le armi essenziali della comunicazione pubblicitaria. E’ facile comprendere come in tal modo essa interpretasse bene le esigenze della forma moda: mutamenti continui, effimeri, originalità a qualunque costo.
Qualche volta, nel tentativo di sorprendere un pubblico annoiato da moduli ripetitivi, il messaggio tentava la carta dell’audacia, dell’eccesso, della trasgressione.
Ma a ben vedere sia la pubblicità che le mode, in realtà, simulavano soltanto l’eccesso o la trasgressione. Attraverso il gioco e l’ironia evitavano accuratamente un’eccessiva dirompenza.
Insomma, la pubblicità, come la moda, si nutriva di effetti shock a patto che venissero vissuti come qualcosa di teatrale, di spettacolare. Perlopiù la trasgressione era limitata a scoprire sempre più il corpo della modella, giocava con un corpo più o meno nudo.
Inoltre si cercava di evitare ogni eccesso di realismo, di verità e di impegno. Solo così la comunicazione poteva ambire alla passione fondamentale degli anni ottanta: la seduzione.
In sintesi, la pubblicità anni ottanta era comunicazione strutturata come l’ideologema dominante della moda, in linea con la spettacolarità, la personalizzazione delle apparenze e la seduzione pura.
Sì certo, qualche volta siamo stati graffiati da messaggi assai poco gratificanti e affettuosi. Penso, per quanto riguarda il contesto moda, alle trovate di Moschino. Dovendo citare campagne basate sulle immagini fotografiche, mi piace ricordare il lavoro di Irving Penn per Issay Miyake. Ma un po’ di arroganza e sfrontatezza, nel caso Moschino o la sublimazione estetica delle immagini di Penn, non disturbavano poi troppo il paradigma dominante.
Direi che, in quel decennio, grosso modo il lavoro dei migliori pubblicitari è consistito nell’affinare tecniche che promettessero una comunicazione euforica, superficiale, leggera.
Dal punto di vista creativo e di strategia comunicazionale si è trattato dunque di un processo di alleggerimento del messaggio che ha modificato la traiettoria della comunicazione: eliminata la solennità e la pesantezza di descrizioni organolettiche del prodotto e delle promesse di improbabili vantaggi, quasi tutti i messaggi pubblicitari sono stati declinati secondo il paradigma della seduzione.
In questi casi è nella logica della situazione che con il passare del tempo aumentino le occorrenze in cui il tentativo di leggerezza degeneri in un messaggio melenso, sdolcinato, un po’ stupido.
Il campione di questo modo di fare pubblicità divenne, in Italia, Gavino Sanna.
A questo punto, diviene eccitante il cambiamento di paradigma ed è nella logica della situazione che gli addetti ai lavori più intelligenti sentano l’urgenza di aprire nuove strade.
Diamo ora la parola a Oliviero Toscani:
“Sono dieci anni che collaboro con Benetton e in questi anni ho capito che la realtà, la nuda e cruda realtà, colpisce la gente, la fa discutere. In altre parole consente di comunicare. Non si tratta di vendere più o meno maglioni, non è questo il mio mestiere, bensì di sensibilizzare, informare, far riflettere”(16).
Oliviero Toscani fu uno dei primi a cogliere l’involuzione della comunicazione pubblicitaria e a sostenere che essa dovesse ritornare ad essere soprattutto comunicazione, comunicazione di fatti reali, veri, toccanti.
Chiedo scusa al grande fotografo, ma non considero questa intuizione particolarmente originale. Piuttosto, il talento di Oliviero Toscani è imbricato nel modo geniale con cui ha operativizzato congetture che, in un certo qual modo, erano nell’aria come reazione all’ottundimento prodotto da una pubblicità che ostentava novità pur rimanendo sempre ripetitiva.
Oliviero Toscani configurò un progetto di comunicazione per promuovere il marchio di un grande gruppo del settore moda, secondo uno stile che tagliava completamente fuori il modo in cui la pubblicità parlava correntemente da tutti gli angoli della terra.
Esattamente il tipo sorpresa necessario per scuotere fino dalle fondamenta un ambiente troppo incline alle auto celebrazioni.
Allo spettacolo fantasioso, teatrale, artefatto della pubblicità della moda vestimentaria, Toscani contrappose una realtà violenta che sicuramente prometteva fin dalla fase ideativa del progetto di comunicazione, l’iscrizione di una differenza tra Benetton e gli altri racconti di marche e prodotti.
In questa “differenza” riconosciamo il tratto distintivo del concetto di informazione.
Infatti “notizia di una differenza” è una suggestiva quanto utile definizione di “informazione” di Gregory Bateson.
Ma tutti sanno che la notiziabilità è ancora troppo poco per il marketing delle aziende. I marchi di prestigio vogliono piuttosto manipolare i propri pubblici. E si tratta di un processo persuasivo che puntava decisamente a quell’aldilà o aldiquà del puro contenuto, raffigurabile con la parola emozione e/o passione. I marchi stars delle mode vogliono sedurci, si fanno obbligo di comunicarci emozioni.
Quindi possiamo dire che il sistema moda è stato forse il settore trainante che ha spinto la pubblicità aldifuori del paradigma informativo, lavorando le differenze affinché divenissero qualcosa di affatto diverso.
Possiamo schematizzare il risultato di questo lavoro sul linguaggio della pubblicità con la formula che traggo dal già citato Gregory Bateson: per comunicare in modo persuasivo occorrono “differenze capaci di creare differenze”. Ma di quale differenza stiamo parlando? In sintesi, penso di poter semplificare gli esiti attesi dei processi di comunicazione orientati alla manipolazione pubblicitaria attraverso il concetto di marginalità passionale.
Oliviero Toscani si pone all’interno di questo modo di concepire l’ossatura dell’enunciato pubblicitario, ma rifiuta il fascio di passioni entro il quale venivano modulati gli affetti e le emozioni del pubblico.
In un certo senso, con le famose campagne shock, simula un passo indietro, ovvero si avvicina all’informazione, alle notizie. Ma in realtà, in questo modo, configura un processo di comunicazione che incorpora i momenti chiave del grande romanzo della cronaca, gravidi di passioni estreme.
Infatti, la soluzione che mise in atto a colpi sicopati, durante gli anni novanta, è consistita nella selezione di frammenti visivi della realtà spettacolo che promettevano un racconto pregnante quanto scioccante per il senso comune.
Dando prova di essere uno straordinario art director, Oliviero Toscani nella primavera-estate del 1992, in 7 scatti, rovescia completamente il mondo incanto nel quale si imprigionava il linguaggio per immagini del sistema moda, senza con questo perdere in spettacolarità.
Oltre alle foto di gruppo di bambini ed adolescenti di tutte le razze felici e contenti, le immagini delle collezioni, ecco apparire “nave”, “famiglia”, “container”, “alluvione”, “delitto”, “soldato”, “macchina”.
Con queste foto Toscani dimostra inoltre di conoscere assai bene il rapporto di simbiosi che lega oggi una grande azienda con il mondo dei mass media.
Da un decennio di crescita economica, le relazioni con i mezzi di informazione/comunicazione erano divenuti il nucleo centrale dell’attività di comunicazione di una azienda.
Ora dobbiamo capire che ciò che conta per la politica d’immagine di un’impresa è di riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia e di reciproca comprensione con i propri pubblici.
A tal riguardo i mass media sono l’interlocutore principale.
Infatti, quando vengono percepiti come attori autonomi e non come semplici intermediari della fonte, forniscono all’immagine di aziende un valore aggiunto di credibilità impossibile da conseguire con la sola pubblicità.
Naturalmente autonomia della stampa significa che i giornalisti traducono e interpretano a loro modo i fatti che compongono il puzzle degli eventi moda, configurando i messaggi di tipo logico diverso rispetto al modello di restituzione della notizia standard:
Alcuni di questi criteri d’interpretazione sono:
– la drammatizzazione;
– la spettacolarizzazione;
– la polarizzazione.
Queste lenti deformanti della pura notizia di cronaca, vengono di solito vissute con estremo sospetto, timidezza, reticenza dal management delle aziende.
Toscani ne ha fatto invece il propellente fondamentale delle proprie campagne.
L’attivazione dei criteri sopraelencati ha generato una serie di drammatizzazioni e di conflitti con effetto a cascata. Ne parlavano giornalisti, opinions leaders, professionisti e giù fino al lettore/consumatore.
Da dove nasce l’effetto positivo di questa conflittualità diffusa?
Per una grande azienda il consenso generale è certo importante. Ma lo è ancor di più la fiducia dei propri consumatori. La guerra semiologica aperta da Toscani, per quasi un decennio ha rafforzato la fiducia nel marchio, ha fatto prendere posizione con maggiore determinazione chi era nell’orbita del gruppo. Gli altri non contano.
Più il mondo degli adulti si scagliava contro il rischio dell’orrore, contro il disgusto di certe immagini, contro l’affronto al pudore, più i giovani, per contro, trovavano in questa polarizzazione, un mezzo per esprimere la propria diversità, il proprio stare dalla parte della “verità”. Nulla di particolarmente nuovo: non ritroviamo in questa polarizzazione adulti V/S giovani lo spirito degli anni sessanta?
A tal riguardo io ritengo che l’operazione di Oliviero Toscani sia stata salutare per tutto il mondo della pubblicità. Infatti la rappresentazione della giovinezza data dalle strategie d’immagine delle aziende moda orientate risultava decisamente troppo spostata sul versante della spensieratezza, della gioiosità, del sonnambulismo sociale. Invece se esiste un’età in cui la parola impegno è investita di valore questa è l’eta della giovinezza. I giovani non sono degli arlecchini. Il mondo interiore spesso è molto più grigio-scuro di quanto noi immaginiamo.
A ben vedere l’operazione di de-contestualizzazione di Oliviero Toscani, immagini spostate dalla cronaca alla pubblicità, con l’effetto di straniamento utilizzato a piene mani da Duchamp, dai surrealisti, studiato dai formalisti russi, si interfacciava assai col bisogno di “verità”, di “realismo”, di “diversità” tipici della giovinezza e dei quali anche gli adulti dovrebbero provare nostalgia.
12. Fine del romanzo O.T./ Benetton
Nella primavera-estate 2000 Toscani costringe tutto il mondo a guardare negli occhi 28 assassini, condannati a morte, che attendono il boia nelle prigioni statunitensi.
Nessuno dei ritratti lascia trasparire alcunché di disumano.
Scrive con acume Lorella Pagnucco Salvemini: “Osserviamo quei volti sulla scorta di sfuocate reminiscenze di studi sul Lombroso. Cerchiamo nei lineamenti, nelle espressioni un comun denominatore che ci ragguagli sulle fattezze del criminale. Con la speranza di non riconoscerci, né riconoscere persone a noi care. La galleria approntata dal fotografo non ci soccorre. Facce d’angelo, tristi, rassegnate, sprezzanti. Alcune persone straordinariamente belle e affascinanti. Altre flaccide, disfatte. Di una obesità repellente. Altre ancora dal sorriso sgangherato, beffardo e semplicemente, beatamente idiota. Può darsi che qualcuna sia innocente, anche se non sapremmo stabilire chi. Morirà egualmente. Sulla sedia elettrica, nella camera a gas. O con una iniezione letale” (pag.130).
Tuttavia, anche se con il cuore siamo d’accordo con le parole della studiosa, dobbiamo sforzarci di leggere questi ritratti con lo sguardo particolare dell’america di fine millennio. Accusato da tutto il mondo civile di perseguire il crimine con i modi delle società del passato o primitive, il popolo americano deve tuttavia convivere con una delle forme di vita più violente ed esplosive del pianeta. Non è un caso se la coevoluzione tra criminalità diffusa e modi della repressione hanno assunto nel tempo caratteristiche assolutamente inedite rispetto il resto dell’occidente.
Ora, in questo contesto il dibattito tra i difensori della pena di morte e i fautori di una riforma che impedisca alla Legge di basare il proprio potenziale dissuasivo sul presunto orrore per la morte, è fatalmente aspro e poco aperto a provocazioni intellettuali.

Insomma o discuti seriamente e proponi idee che posso confutare oppure non accetto un dialogo.
Il significato visivo sconvolgente degli scatti di Toscani toglieva di colpo ogni possibilità di replica. Così come era certo che i soggetti fossero dei criminali, al tempo stesso era evidente il fatto che fossero solo degli uomini che avevano sbagliato. Le reazioni dei media americani e dell’opinione pubblica alla campagna di Toscani furono di una durezza insolita.
I magazzini Sears faranno mancare a Benetton circa 400 punti vendita in un colpo solo…Lo Stato del Missouri farà causa a Benetton suscitando gran clamore (va aggiunto che la causa si risolverà pacificamente senza l’esborso miliardario da parte dell’azienda sbandierato dai giornali, informazione questa che in un primo tempo deve aver preoccupato non poco i manager di Benetton)… I parenti delle vittime protestarono con indignazione e forse persino i contrari alla pena di morte si spaventarono di fronte ad un focolaio di polemiche causate da un modo irriverente e, bisogna pur dirlo, troppo diretto di comunicare l’essenziale del dibattito in corso.
Dopo pochi mesi il rapporto Benetton/Toscani si risolve.
Cosa era successo? Il fotografo raccontò che la decisione di interrompere la collaborazione era già stata decisa da tempo. Ne prendo atto, anche se mi piace pensare che la dimensione degli effetti negativi della campagna sui condannati a morte alimenti un’altra plausibile storia. Intendiamoci, niente di particolarmente misterioso. Le componenti più tradizionali della famiglia Benetton e del management, da anni paralizzate dal fascino del personaggio Toscani e dai suoi successi ma sempre più gelose e ostili al fotografo, approfittarono dell’occasione per attaccarlo sia in modo diretto che trasversale (pilotando una parte della stampa che controllavano).
Impossibile in queste condizioni immaginare una prosecuzione del rapporto.
Così l’uomo che seppe dare una identità dal valore straordinario ad una azienda conosciuta sino ad allora per i bei colori dei propri maglioni, l’uomo che con Colors e Fabrica aveva fatto della Benetton l’avanguardia di un capitalismo intelligente, sensibile e responsabile, esce di scena tra la soddisfazione appena contenuta di chi ora non fa che ripetere: “l’avevo detto che prima o poi si sarebbe fatto fuori con le sue mani!”
C’è da dire che a distanza di pochi anni la Benetton si trasformò sempre di più in una sorta marchio anonimo gestito da una holding finanziaria che spaziava dalle autostrade a internet. Colors e Fabrica persero velocemente le valenze avanguardistiche che avevano saputo evocare.
Insomma, il vuoto lasciato da Oliviero Toscani è la prova più evidente del valore delle sue strategie d’immagine e delle sue intuizioni.
I tentativi di emulare le campagne del fotografo nei primi anni del terzo millennio non diedero i risultati sperati (posso citare come esempio la campagna Inhate, contestata duramente dal Vaticano e da altri politici di primo piano coinvolti).
L’azienda Benetton che grazie a Oliviero Toscani aveva rivaleggiato in prestigio ed efficacia simbolica con le campagne di comunicazione dei più grandi marchi al mondo, progressivamente scomparve dalla scena primaria della comunicazione.
Diamo la parola ancora una volta al Fotografo:
“Alcuni hanno giudicato provocatorie certe mie campagne per Benetton. Per esempio quella che raffigura i volti di ventotto condannati a morte, fotografati in differenti carceri di vari stati americani. Provocatorie per chi? Mi provocano molto più le pubblicità che mostrano una vita irreale, dove i prati sono tutti verdi , i cieli azzurri, le casalinghe tutte felici e dove il mondo del consumo è rappresentato come se fosse il migliore dei mondi possibili. Non solo: pubblicità che ingenerano la convinzione che, se non usi quel determinato profumo, se non compri quella macchina, se non indossi quel paio di scarpe non sei alla moda, sei un escluso, in definitiva non vali niente” (pag.57).
13. Per un nuovo realismo fotografico
Il clamore mediatico scatenato dalle campagne shock di inizio anni ’90 sulle quali mi sono ampiamente soffermato, rappresentano solo una piccola parte dei progetti creati da Oliviero Toscani per Benetton durante una collaborazione durata un quindicennio.
Tra i progetti che corrono il rischio di essere dimenticati, a mio avviso, i più ragguardevoli sono stati l’invenzione di Fabrica nel 1993 e del magazine “Colors”.
Le riflessioni implicite nella configurazione e nella creazione di una scuola del fare e la responsabilità di orchestrare un house organ più laboratorio creativo che rivista, ricco di immagini che dovevano essere, di numero in numero, presentate a un vasto pubblico, permisero a Oliviero Toscani di estendere la visione critica che aveva maturato sulla pubblicità a ogni aspetto problematico del sociale.
Fedele alla massima “meglio una immagine che cento parole”, l’espressione sostanziale del suo modo di concepire la creatività e l’impegno sociale prendeva la forma di un atto fotografico esemplare.
Comunque malgrado le dichiarate avversioni nei confronti della TV, nel 1996 vinse un importante premio a Cannes dedicato ai migliori spot dell’anno. Inoltre nel corso degli anni novanta le sue presenze ai talk show televisivi quasi non si contavano. Ma bisogna aggiungere che malgrado il successo che riscuoteva, nei confronti della TV il fotografo manifestava una irritazione quasi pari a quella riservata alla pubblicità standard. Forse, parte del suo appeal mediatico nelle innumerevoli interviste e incontri/scontri televisivi, dipendeva proprio dal disprezzo intellettuale che riservava al media più compromesso con le aspettative del cluster di individui che maggiormente detestava, ovvero la piccola e media borghesia, disprezzo che spesso evitava di dissimulare conferendo alle proprie performance televisive il taglio polemico e anticonformista, paradossalmente premiato anche dal masochismo visuale di telespettatori apparentemente irritati dai modi decisi e originali del fotografo, ma anche sedotti dalla sua scorbutica franchezza. D’altronde nessuno come Oliviero Toscani conosceva l’arte di trasformare il negativo in positivo, polarizzando l’opinione pubblica dal punto di vista passionale, per poi, dopo la disputatio che immancabilmente seguiva, con il raffreddarsi delle emozioni, raccogliere un consenso che a questo punto appariva alle anime belle, incomprensibile e inquietante.
Probabilmente ci fu un momento nel quale il gioco situazionista centrato sulla provocazione, lasciò a palo di partenza le doverose considerazioni critiche che il talento e la lunga esperienza di Oliviero Toscani ben meritavano. All’inizio, quando i musei di tutto il mondo cominciarono a dedicargli mostre personali, forse, premiavano più la sua straordinaria notorietà e i contenuti originali delle sue idee, rimuovendo ogni considerazione sulle valenze espressive e formali delle sue fotografie. In realtà lo stile fotografico di Oliviero Toscani non era affatto ininfluente nei confronti della eccezionale portanza passionale dei suoi contenuti. La fredda precisione delle sue immagini fotografiche, la durezza espressiva della sua tecnica preferita, intesa a concentrare le figure centrali dell’immagine sulla resa dell’idea creativa da raffigurare sterilizzando il contesto da elementi decorativi, conferiscono una non comune portanza alla semantica passionale del messaggio. Uso il concetto di portanza in senso aerodinamico: in altre parole, non mi riferisco alla resistenza dei materiali, ma alla forza necessaria per far volare un aereo o per navigare tramite vela. Si tratta ovviamente di un concetto che implica la necessità di una spinta capace di sfruttare una una resistenza (nel caso dell’ala di un volatile o di un aereo la forza contraria è rappresentata dall’aria) per sollevare secondo una traiettoria la configurazione di senso prescelta.
L’unità traumatica nelle immagini di Oliviero Toscani è la spinta che il messaggio deve avere per sfruttare le resistenze del conformismo e far sollevare il velo di ignoranza che ci rende sonnambuli nei confronti della realtà.
La portanza semantico/passionale delle immagini di Oliviero Toscani, dal mio punto di vista, rappresentano l’apertura a quel realismo fotografico nei territori simbolici della pubblicità e della moda, in nome del quale il grande fotografo continua a battersi.
Note:
1) Vance Packard, I persuasori occulti, Einaudi, 1993;
2) Star system è una espressione creata da Jacques Seguela in <Jacques Seguela, Hollywood lava più bianco, Lupetti & Co., 1985 (ed. or. 1982)>, che celebra la forma esasperata di pubblicità spettacolare detestata da Toscani;
3) Lorella Pagnucco Salvemini, Benetton/Toscani, storia di una avventura, Bolis Edizioni, 2002, pag.11;
4) Paolo Landi/Laura Pollini (a cura di), Cosa c’entra l’AIDS con i maglioni?, Mondadori, 1993;
5) Marion Grafin Donhoff, Toscani: i colori di un declino, Reset n.23-dicembre 1995, pag 44/45; nello stesso numero della rivista: Michel Thevenaz, Quel fotografo è solo un venditore;
6) Oliviero Toscani intervistato da Loredana Lipperini, Chi ha paura delle mie foto?, la Repubblica, 7 dicembre 1995.
7) Gilles Lipovetsky, L’impero dell’effimero, Garzanti;
8) Gavino Sanna, Un genio da spazzatura, in Il Sabato- 28 nov.1992, pag.104;
9) Maria Stella Conte, Creativi e pubblicità spazzatura <Siete tutti figli di Goebbels>, int. a Sanna e Toscani, la Repubblica 22/23 nov.1992, pag.20;
10) Oliviero Toscani, Ciao Mamma, Mondadori 1995, pag. 37;
11) Global Vision, United Colors of Benetton, Robundo, 1993;
12) Ciao mamma, pag.39/40;
13) Ibid. pag 44;
14) Ferdinando Scianna, Marpessa, Contrejour, 1993;
15) Ciao mamma, pag.113-115;
16) Ibid. pag.120
17) Oliviero Toscani intervistato dall’Espresso del 9 febbraio 1992;
Articoli e saggi che mi hanno ispirato:
– Mike Hicks, intervista a Oliviero Toscani, Grafis n.291, pag.35/49.
– Andrea Semprini, Benetton, histoire d’un scandale annoncè, in Analyser la communication, L’Harmattan, 1996;
– Michele Serra, I chicchi bianchi nella mano nera, la Repubblica, 18 marzo 1997;
– Benetton par Toscani, FAE Musèe D’art Contemporain, Pully/Lausanne;
– Lamberto Cantoni, Il fascino indiscreto di Oliviero Toscani, in <Nei luoghi del disincanto>, Octavo, 1994;
– Lamberto Cantoni, Modello 4 pirla in meno: la controversa campagna di Oliviero Toscani per la prevenzione delle stragi del sabato sera, in <L’Arte dell’intrattenimento>, Edizioni Silb, 1995;
– Gabriella Bartoli, A proposito di Benetton e Toscani, in <Moda, relazioni sociali e comunicazione> a cura di Pio E. Ricci Bitti/Roberto Caterina, Zanichelli, 1995;
– Specchio, n.74, 21 giugno 1997;
– Oliviero Toscani, L’ultima provocazione, intervista di Maria Vittoria Carloni per Panorama del 13 giugno 1993;
– Philippe Sohet, United Pubs of Benetton, in MScope, 8, pag.111-119, 1994.
- Cinema e Moda: Un fruttuoso scambio di prestazioni – 22 Marzo 2023
- Paco Rabanne (1934-2023): addio a un grande visionario della moda – 8 Febbraio 2023
- Vivienne Westwood (1941-2022). La sedizionaria della Moda – 31 Dicembre 2022
l’ho letto velocemente. posso solo segnalare la mia perplessità quando si dice che Toscani odia la TV. Ma se c’è sempre! e non credo che ne parli male altrimenti non lo inviterebbero più.
le sue foto mi piacciono. parlano chiaro ed è facile capire cosa vogliono dire. se tutta la pubblicità funzionasse cosi vivremmo in un mondo migliore.
Non è vero che tutti i pubblicitari vissero con ostilità le sue innovative campagne Benetton. Io ero tra quelli che lo stimavano e contribuii ad organizzare anche ad una delle sue mostre. Le campagne storiche di Toscani proponevano contenuti solidi. Sono d’accordo nel definirlo un grande maestro.
Hai ragione Luciano, non tutti i pubblicitari vissero con ostilità le sue innovative campagne Benetton, ma devo dire che da pubblicitario quale sono stata per quasi un ventennio, pur avendo sempre riconosciuto il grande genio creativo e soprattutto strategico nel toccare sempre temi sociali (come in seguito a Benetton toccò l’anoressia per un marchio moda e l’omosessualità per un’azienda arredo), ho sempre reputato Oliviero Toscani SOLO un fotografo, non un pubblicitario. Pur non intaccandone il merito.
Nota dolente, dopo averlo studiato, letto e scritto per decenni, andare ad una sua presentazione dell’Azienda Agricola OT, è stata una delusione disarmante. Questi personaggi di estrema cultura, come l’amato/odiato Sgarbi, che fanno della polemica, dell’aggressività gratuita e della saccenza la loro bandiera, andrebbero ad un certo punto isolati, ignorati e dimenticati.
Purtroppo sappiamo tutti che ciò non è possibile…ahimè.
Oliviero Toscani non ha bisogno di tante parole. E’ un grande.
Ho letto l’interessante articolo e mi è nata una domanda: come è stato possibile che una multinazionale mettesse la propria immagine nelle mani di un provocatore nato? I rischi erano evidenti e non credo che i manager della Benetton non fossero informati sulle intenzioni del fotografo.
Mah! Bisogna tenere in conto che Oliviero Toscani collaborava con Benetton da quasi due decenni. Sono un sacco di tempo per un creativo. Probabilmente una parte della famiglia Benetton (mi pare fossero alcuni fratelli e una sorella) si era disamorata del suo stile. Ci sta anche che una parte del management non apprezzasse la svolta “realistica” delle sue campagne. Comunque se Benetton è nella nella storia della moda e della comunicazione, lo si deve a Toscani. Il modello di business del gruppo, specialmente dal 2000 in poi, non ha funzionato.
Sì sono d’accordo con Lamberto che non si deve a O.T. la crisi di Benetton ma è stato il modello di business del gruppo che non ha funzionato. Benetton era troppo identificata con le campagne di Oliviero Toscani e lui si identificava solo attraverso il marchio Benetton. Infatti poi l’interrompersi della collaborazione con Benetton ha oscurato per anni anche sulla sua immagine di fotografo. Sembrava un creativo senz’anima e successivamente a Benetton non è riuscito ad inventarsi uno stile nuovo ed ha solo creato altre campagne brutta copia del ventennio Benetton…
Io voglio dire solo una cosa. Da quando Toscani è stato costretto ad andarsene dalla Benetton quell’azienda è andata in merda. Mi riferisco al comparto moda, of course. Era uno dei fiori all’occhiello della moda low cost italiana e guardate cosa è diventata oggi! Zara e H&M si sono presi tutta la crescita o quasi di questo importante segmento di mercato. Ci saranno stati anche altri fattori, ma è un fatto che senza Toscani, il modello di business dei manager non ha funzionato.
Non discuto il fatto che Benetton moda oggi non è più quella di un tempo. Ma vorrei fare notare che la holding della famiglia è ai primi posti nei dividendi del mercato azionario italiano. Cosa significa? Significa che i Benetton hanno scelto la Borsa e di fare soldi non con i maglioni ma con autostrade e assicurazioni. Insomma, voglio dire che la strategia c’è stata ma era contro un maggiore impegno nella moda.
Benetton ha perso la guerra nel suo segmento di mercato dopo che Toscani fu licenziato o una cosa del genere. Lui ha fatto il suo dovere. Cosa doveva fare di più? Io non credo che Benetton fosse una azienda molto creativa. Tutta la creatività era sulle spalle di Toscani. E poi che la pena di morte sia uno schifo é solo vero. Toscani ha le palle, lo sapeva benissimo che nell’America di Bush stava prendendo dei rischi. Ma non si è piegato al conformismo dei pubblicitari leccaculo. Con quella campagna sui condannati a morte ha mostrato che lui e Benetton erano coerenti con i valori che entrambi hanno sempre difeso.
Ma Toscani è un fotografo di moda? La Moda ha bisogno di Toscani?
La metterei giù così: Toscani da un certo punto in poi della sua carriera ha fatto di tutto per non essere un fotografo di moda. Col senno di poi tuttavia, non possiamo dimenticare che all’inizio dei settanta era uno dei fotografi più bravi di Vogue Uomo. Dal punto di vista tecnico è sempre stato tra i più preparati. Ha trovato presto il suo stile e piuttosto che stravolgerlo preferiva utilizzare foto di colleghi. Io preferisco pensare che la fotografia per Toscani fosse semplicemente un mezzo per comunicare significati il più possibile coerenti con la sua visione delle cose. Mi chiedi se la moda ha bisogno di Toscani? Direi propri di sì, e se guardi bene la rassegna delle immagini attualmente in circolazione, in molte di esse traspare il senso della sua lezione. Malgrado faccia di tutto per non esserlo, Toscani è divenuto un maestro inconsapevole per tantissimi giovani colleghi.
Bisogna tenere in considerazione che negli anni ottanta, il marketing nelle aziende moda italiane non era molto forte.
Comandavano i proprietari. Quindi Luciano Benetton da imprenditore illuminato sposò le intuizioni di Toscani. Forte di questo sodalizio il fotografo poteva permettersi di fregarsene dei ragionamenti dei manager. Ho letto recentemente sui giornali che l’azienda Benettono moda va decisamente male. A me dispiace che queste difficoltà contribuiscano a far dimenticare troppo in fretta ciò che Luciano Benetton e Oliviero Toscani fecero in anni in cui solo loro avevano il coraggio di sostenere un modo di fare comunicazione d’avanguardia.
Io conosco vagamente Toscani solo per le polemiche che ha scatenato. Non avevo mai riflettuto sulle sue immagini dal punto di vista estetico. Mi ero convinto che fossero comunicazione pura, senza troppe attenzioni artistiche. Ma riflettendo su quello che ho letto in effetti sarebbero tutte da studiare meglio. Certo che il gotha della moda e della pubblicità non credo che lo abbia digerito fino in fondo. Avere nemici di questo calibro non deve essere agevole anche per un gladiatore come lui.
Il realismo può essere un valore ma per la moda contano tanto anche i sogni. Cosa c’è di male a far sognare i consumatori? Dico questo perché da quanto ho letto Toscani è decisamente contro la tendenza delle marche a comunicare sogni.
Toscani lo conosciamo tutti. È diventato un personaggio pubblico perché è un po’ come Vittorio Sgarbi cioè aggressivo, ogni tanto volgare, diretto fino a sembrare prepotente. Mi ha sorpreso leggere che odiava la televisione. Pensavo che, visto il suo successo, l’amasse. Ho visto degli spot che ha firmato e li ho trovati molto ben fatti. Forse esistono due Toscani: quello raccontato nell’articolo che arriva fino all’inizio di questo secolo e quello dopo che in parte è una critica al primo.
Io ho visto lo scorso anno Toscani su SKY arte nel programma Master of Photography. Per me era il migliore. Chi ha detto che per essere efficaci in Tv bisogna amarla? Toscani la usa e la critica. La sua schiettezza non permette ai gommosi televisi di usarlo.
Io non credo in ciò che dice Eleonora cioè nei due Toscani. Io credo che sia stato sempre coerente. Può piacere o non piacere ma il suo approccio è sempre stato diretto, coraggioso e sensibile al sociale. I pubblicitari vorrebbero convincerci dell’esistenza del paradiso delle merci. Per fortuna ogni tanto c’è qualcuno che ha il coraggio di sbatterci in faccia i veri colori della vita.
Articolo convincente. Ma perché non focalizzare anche quello che Toscani ha fatto dopo l’esperienza Benetton? Non ha piu fatto nulla di rilievo?
Per me l’articolo è troppo filo toscani. Quello che dice il fotografo sulla moda non si può nemmeno commentare. E poi penso che sia uno di quelli che considerano la fotografia (in particolare le sue) come una vera conoscenza. Io credo invece che le immagini siano sempre ambigue. Ecco perché Toscani non si rendeva conto che un sacco di persone davano un senso diverso dal suo alle foto che utilizzava per le sue campagne.
Un grande fotografo deve per forza giocare con l’ambiguità delle immagini altrimenti diventa banale. Toscani, con le foto che l’autore dell’articolo ha citato, ha preso dei rischi. Ma è indubbio che lo ha fatto per uno scopo più rilevante. Ha svegliato l’opinione pubblica, ha impedito alla moda di fare del suo mondo di favole una prigione. Dovremmo tutti ringraziarlo.
Sicuramente Toscani non è un fotografo di moda e di certo non voleva esserlo. I fotografi di moda comunicano prodotti con “stile”, lui voleva comunicare la cruda realtà producendo scalpore. La Benetton sicuramente non è mai stato un brand di alta moda, è un brand che vende capi basici di buona qualità accessibili a tutti che ha avuto il boom negli anni 90.
Secondo me era inutile andare a realizzare una campagna pubblicitaria con foto di super modelle con addosso indumenti basici, e forse l’idea di Toscani fu proprio questa, al posto di fare una pubblicità banale bisognava creare qualcosa che colpisse e stupisse la gente. Si, ha creato shock ma ha anche aumentato il fatturato dell’azienda. Negli anni 90 tutti indossavano magliette con su scritto “UNITED COLORS OF BENETTON”.
Forse fu troppo pure per i fratelli Benetton la pubblicità che ritraeva i condannati a morte. Ma lo licenziarono perché non piaceva nemmeno a loro, o perché aveva suscitato troppe polemiche? Forse pensavano di essersi tolti un problema, ma ora che fa Benetton? L’unione fra culture diverse c’è ancora, ma allo stesso tempo ci sono ragazzi felici e spensierati. Hanno distrutto tutto quello che toscani aveva costruito attorno a Benetton. Il boom che ha avuto negli anni 90 sicuramente non c’è più.
Ma oggi cos’è la fotografia/pubblicità di moda? È un’immagine realizzata per fornire una descrizione di abiti e accessori da vendere. Un modo di catturare l’attenzione, e aiutare a suggerire cosa sia desiderabile. Il loro scopo quindi è creare il desiderio. Si pensa che guardando la pubblicità di un certo brand con un vestito sulla modella o un accessorio, la voglia di comprarla aumenta per il pensiero che comprandola si possa essere come lei. Quindi forse al giorno oggi le persone hanno bisogno di questo, di avere desideri e poterli realizzare.
Al giorno d’oggi troviamo molto scuole di graphic design, dove insegnano le “regole” per creare pubblicità che funzionino. Io credo che quando si seguono delle regole difficilmente puoi creare qualcosa che crei scalpore, se si vuole fare bisogna uscire dalle regole. Ma siamo sicuri che per fare pubblicità abbiamo bisogno di regole?
Di certo le pubblicità che guardiamo oggi di moda non creano shock. Una delle ultime pubblicità che creò scalpore sicuramente è stata quella della Diesel. Venne criticata la campagna primavera/estate 2016 d’intimo per averla mandata sui siti porno o d’incontri. L’idea è venuta al direttore creativo Nicola Formichetti che dal 2013 ha rivoluzionato il brand. “Questa campagna pubblicitaria s’ispira alla cultura digitale e online, seguendo le orme di quella dell’autunno/inverno scorso. Una cultura, quella dei social, che noi amiamo e odiamo allo stesso tempo”, spiega Formichetti ad un sito di moda online. “Siamo sempre con le dita a scorrere immagini e nomi sugli smartphone, cercando di trovare un amico o un fidanzato o fidanzata, senza averne mai incontrato nessuno. E questa nostra campagna è la continuazione di questa pazza saga. Ci siamo detti, allora: “perché no?”. Così abbiamo creato le nostre emojis. E’ il nostro nuovo linguaggio universale che sia spagnoli che giapponesi possono capire. Lo adoro”.
La verità è che la società d’oggi forse non vuole accettare la realtà dei fatti e si sente protetto dietro una pubblicità che l’assicuri al posto di fargli ricordare tutte le tragedie che la televisione gli ricorda ogni giorno.
Credo infine che le pubblicità di Toscani sicuramente non verranno dimenticate e che sono dei pezzi che hanno fatto la storia, non solo per Benetton ma per la pubblicità.
Bel commento. Penso anch’io che Toscani sia nella storia e sono più drastico rispetto a quello che scrive Giulia. Per me Toscani ha sempre voluto fare comunicazione. La parola pubblicità credo la usi solo per criticarla. Io credo anche che abbia maturato l’idea che oggi il consumatore abbia tantissime informazioni e che quindi si aspetti molto di più dalle aziende che cercano di attirare la sua attenzione,
Io non sono totalmente d’accordo con Giulia. Secondo me dopo Toscani e anche oggi ci sono campagne shock. Altrimenti a cosa sarebbe servita la lezione di Toscani? Forse peró ci stiamo assuefacendo alle provocazioni e ce ne accorgiamo sempre meno.
Sono interessato alle campagne shock. E sarebbe bello se chi commenta facesse come Giulia cioè citasse le foto e le campagne delle quali parla.
Oliviero Toscani rientra tra i fotografi di moda che hanno dato uno scossone all’interno dello star system chiamato moda. Come lui Avedon, Penn, Sieff, Guy Bourdin e Newton hanno ridefinito il linguaggio della moda e della fotografia di moda.
Con il loro linguaggio fotografico questi fotografi hanno un dato una maggiore consapevolezza di dove stava andando la nostra società, affidando al semplice fruitore una nuova chiave di lettura portandolo a un cambio di rotta di come potevano interagire con la società di cui facevano parte.
La grande rivoluzione di Toscani è quella di comunicare il reale. E come lo fa? Lo fa attraverso le campagne pubblicitarie di moda che si soffermano sull’interpretazione delle differenze, mostrando le diverse opposizioni, religiose/politiche, politiche/sessuali, bene/male; opposizioni fondate sull’impossibilità di coesistere, su una differenza che separa invece di unire.
L’importanza di queste campagne non sta solo nella trasgressione dei soggetti, ma anche nella creazione di un’immagine che, anche se non sembra avere un legame con il prodotto, ha sempre una valenza simbolica, secondo la quale la gioia del colore, simbolo distintivo del marchio (qui si parla di Benethon), batte ogni barriera, da quella della pelle a quella della divisa. Ma quando Toscani apre il suo ciclo definibile “realistico”, le polemiche per il suo lavoro diventano più forti. Con le “fotografie reali” che il fotografo italiano viene ad essere definito il grande rivoluzionario dell’immagine della nostra società contemporanea.
Toscani conosce perfettamente il suo tempo e il settore della moda, in cui ha iniziato la sua carriera di fotografo. Ha capito perfettamente dove la moda e la società stavano andando e ha incominciato a prenderne le distanze. Ha avuto l’intelligenza di andare oltre quella che era la comunicazione di quegli anni, per lui non importava cosa si pubblicizza, ma contava solo il messaggio pubblicitario.
Un messaggio fatto di immagini forti, di rottura, che hanno suscitato polemiche e inciso sulla comunicazione.
Ecco perché Oliviero Toscani viene ad essere considerato il creatore di un linguaggio nuovo.
Non accetta affatto che il pubblico degli anni 80 si lasciasse plasmare da quel linguaggio fatiscente che i mezzi di comunicazione gli propinavano. Più che uno spettatore per Toscani era un sonnambulo; che accettava tutte le immagini patinate e di seduzione che arrivano dalla pubblicità. Riconosce il potere della seduzione delle immagine. Ma non lo usa allo stesso modo come lo tendono ad utilizzare tutti i suoi colleghi di quegli anni.
La seduzione diventa il filo conduttore della sua immagine. Ma sarà una seduzione che tenderà a non avvolgere lo spettatore, ma a scioccarlo.
Toscani capisce che lo spettatore si stava uniformando alla propria società diventando uno spettatore passivo che non decide, che si lascia avvolgere da quello che le aziende, la tv, i giornali gli propinano. Un omologazione alla realtà in cui vive senza farsi troppe domande. Perché se mette in dubbio il tempo in cui vive, si rischia di star fuori.
Una scelta facile: rimane all’oscuro di ciò che era il mondo fuori: AIDS, uomini di colore, gay, e anoressia erano temi in cui la gente non riusciva a parlane. Quindi meglio vivere all’interno di una bolla di sapone in una società satinata.
Toscani invece, vuole che i cittadini di questi anni siano attivi, vuole che i cittadini sappiano e scelgono cosa vedere e assistono, anche in maniera scioccante a quelli che sono i mali di quel tempo. Spettatore attivo e passivo; uno spettatore che guardi, diventando voyeurista, e che capisca esattamente quello che sta guardando; che si fermi a capire che le malattie e la diversificazione di colore e di genere non devono essere un tabù. Devono essere conosciute, per essere capite, metabolizzate e per poterle risolvere. Capire che la nostra società è anche questa. Da così alla società e alla moda una grande spettacolarizzazione, ma allo tempo le attribuisce una grande drammatizzazione e polarizzazione.
Sensibilizzare, informare, far riflettere: in fin dei conti era questo lo scopo della fotografia di Toscanini. Ma lo fa con grande consapevolezza e genialità. Comunicare un qualcosa di già esistente, come ad esempio la foto del malato terminale di AIDS, lo combina con qualcos’altro di esistente, come il marchio della Benetton, e crea un’immagine completamente nuova con un enorme valore di impegno sociale. Non possiamo negare che Toscani abbia aperto la strada ai fotografi di moda che si sono succeduti dopo di lui, inaugurando una fase nuova dei rapporti tra aziende, comunicazione e pubblico. Ma soprattutto quello che traspare ancora oggi come la sua fotografia era ed è semplicemente un mezzo per comunicare con un significato il più possibile coerenti con la sua visione delle cose. L’effetto Toscani è visibile ancora tutt’oggi? Ma oggi che tipo di comunicazione la moda vuole fornire al suo lettore e come vuole essere letta?
Sicuramente la comunicazione classica della moda, cioè di attorniare al quel capo una sensazione di desiderio, ci sarà sempre. E non bisogna farne una colpa. Perché la moda rimarrà sempre questa. Io penso che Toscani abbia comunque dato una doppia chiave di lettura. L’oggetto deve dare un’emozione, comunque, ma sta all’immagine prendere per mano il fruitore e fare in modo che lui, quell’oggetto, lo veda in un modo diverso. Dandogli un senso. L’immagine classica della moda non scomparirà mai, ma ormai nessuno può più allontanarsi dal reale. Si comunica tenendo come modello la realtà esterna e la storia dell’azienda.
Lo spettatore è cambiato, non è più quello di una volta e questo Toscani ne è stato il creatore. Ogni pubblicità di moda, seppur perfetta, è sempre contestualizzata nel nostro tempo. Alcune possono essere più forti, come le campagne Diesel/La Chapelle, altre meno scioccanti, più lineari per lo star system moda. Diciamo la verità in fondo è di quello che abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno sia di sfuggire da questa nostra realtà, ma se ci allontaniamo troppo ci sentiamo in colpa per aver svoltato le spalle a quella che è la sofferenza odierna. Quindi abbiamo bisogno che qualcuno ci pone alla nostra attenzione ciò che succede nel mondo. Ma a questo punto in qualche modo siamo noi che decidiamo quando è il momento di allontanarci o avvinarci al reale. E secondo me è giusto che la moda e la comunicazione unisca l’utile e dilettevole. Siamo cambiati, grazie a Toscani che ha lottato per riportarci nel reale. In fin dei conti noi siamo parte di questa realtà.
Ma siamo sicuri che troppo reale non faccia male alla moda? Cosa succede quando non dormiamo e sogniamo a sufficienza? Succede che il giorno dopo abbiamo mal di testa. Mi viene da pensare che Toscani abbia raccolto tante irritazioni perché ha ripetutamente interrotto i nostri sogni. Che cosa succede quando qualcuno ci sveglia troppo bruscamente? A me mi fa incazzare. Poi mi passa. Comunque complimenti agli interventi di Annamaria e Giulia. Sono una bella sintesi dell’articolo che non ho finito di leggere.
La moda vive di favole. Inutile farsi delle illusioni, se vuoi vendere devi emozionare. E per emozionare devi usare i sogni e non il reale. Ha ragione Massimo.
Cara Laura ma ti ricordi la pubblicità del Mulino Bianco. Due coglioni così! Guardati le ultime campagne di Gucci o di Prada. La moda può comunicare benissimo anche senza sogni.
Io sono un pluralista e quindi ragiono così: dal momento che il mondo degli oggetti/merce è quello che è, risulta impossibile immaginarlo senza forme di comunicazione. Tuttavia abbiamo interesse nel renderle le migliori possibili a partire dai valori che decidiamo di difendere. Ma dal momento che nessuno può decidere per altri quali sono questi valori, ci conviene accettare la molteplicità delle esperienze di comunicazione. Toscani ha incarnato una piccola grande scoperta: possiamo comunicare un brand della moda parlando di problemi epocali della vita è della società. Questo non significa che bellezza, ironia, non senso e persino banalità devone essere escluse a priori dalle pubblicità. Significa primariamente che ora sappiamo che una azienda può mettere a disposizione le risorse accumulate dal business per interagire con i propri pubblici in vista di obiettivi collettivi, senza intaccare le fondamenta del mercato. Se osserviamo come si muovono i grandi brand della moda con uno sguardo un po’ più lungo di quello del mero consumatore, è facile rendersi conto che un’etica della comunicazione è sempre presente nelle loro strategie. A volte il clamore di eventi di tutt’altro genere sembra oscurarla. Ma dubito che oggi un brand possa durare se si presenta sempre e solo sotto le insegne del cinismo, dello sfruttamento, della comunicazione ripetitiva e unilaterale. Questo processo di maturazione che implica responsabilità inedite per la moda, Toscani, a suo modo, è stato un protagonista.
E’ vero. Anch’io credo che non si possa definire Oliviero Toscani un pubblicitario. Ma di sicuro è stato un geniale comunicatore. E forse proprio per questo (magari anche più che per le capacità di fotografo) la sua vicenda è emblematica della nostra epoca. Non bisogna forse dimenticare che Oliviero Toscani è cresciuto mangiando pane e fotografia, seguendo il padre che è stato uno dei primi fotoreporter del Corriere della Sera. Dunque il suo imprinting, per così dire, è quello del reporter, del cronista, di colui che osserva e racconta la realtà. Questo suo tratto professionale (e umano e culturale) probabilmente non l’ha mai abbandonato, nemmeno quando ha iniziato a fare il fotografo di moda per Uomo Vogue. Se la moda è un sistema che, in qualche modo, vive di immaginario (possiamo dire il contrario della realtà?), si poteva pensare che la carriera di Toscani come fotografo di moda non durasse che un attimo. Invece lui ha saputo tenere insieme i due estremi, con uno «stile diretto ed essenziale, a metà tra la verità della foto di reportage e la finzione della foto di moda» (“Dizionario della moda”, Guido Vergani, 2010). Ciò che ha decretato il suo successo e la sua fama, oltre che, naturalmente, attirargli gli strali, le critiche e le censure. Perché non è mai gratis invadere il campo altrui. Tantomeno nella società dei consumi, dove l’imperativo della comunicazione (pubblicitaria e non solo) è impedire alle persone di pensare troppo ma invogliarle a desiderare molto, facendo balenare davanti ai loro occhi l’orizzonte di un futuro da Mulino Bianco che non arriva mai. Chi viola questo precetto commette un delitto da pena capitale, perché, come il granello di sabbia nell’ingranaggio, blocca un sistema che si regge su precise regole.
Si è sempre detto che la pubblicità è l’anima del commercio, ma si potrebbe anche dire (con Marcello Marchesi, uno che forse se ne intendeva) che «la pubblicità è il commercio dell’anima». Celebre la feroce critica (sul Corriere della Sera del 1973) da parte di Pier Paolo Pasolini del sistema consumistico, considerato come un nuovo totalitarismo: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi». Un’accusa che, nel 1973, poteva sembrare esagerata e sopra le righe, ma che, quarant’anni dopo, appare di una lungimirante lucidità. Se oggi ci dibattiamo tra le fake news è anche perché ogni aspetto della nostra vita è diventato mero prodotto di consumo e il confine tra informazione, marketing e pubblicità si è assottigliato fino a quasi scomparire. Le persone lo avvertono; perdono fiducia nei mezzi di comunicazione di massa (televisione, ma anche carta stampata); cercano rifugio là dove gli sembra (e sottolineo gli sembra) di trovare la verità. Di contro, il sistema dell’informazione “tradizionale” cerca di difendersi da questa perdita di autorevolezza accusando il web di spacciare per vero montagne di falsità, ma non fa nulla per liberarsi della pesante cappa che gli deriva dalla commistione con interessi economici che hanno solo finalità di business e gli fanno perdere indipendenza di giudizio e capacità di critica. Le aziende, dal canto loro, si infilano (qualche volta in modo scomposto) nei nuovi canali social cercando il contatto diretto (quindi senza più la mediazione giornalistica) con il pubblico per conquistarsi prestigio, fiducia, consenso e marcare la propria diversità. La confusione è, così, grande sotto il cielo.
Toscani ha avuto il merito di fare un’operazione di verità. Geniale è stata l’idea di portare nel glamouroso e luccicoso mondo della moda «la nuda e cruda realtà». L’effetto straniante, perturbante non poteva passare inosservato, nel bene e nel male, soprattutto perché si trattava di temi di cui la gente parlava a casa, in ufficio, al bar e con i quali si confrontava nella vita quotidiana. La Chiesa si scandalizzava? Ma da quanto tempo la Chiesa ha perso il contatto con le persone in carne e ossa?
Naturalmente, l’operazione-verità costituiva una spina nel fianco per un sistema (sociale ed economico) basato sulla “dittatura consumistica”; quasi un sacrilegio, anche se, con sorpresa di molti, la vicenda Benetton è lì a dimostrare che si poteva (si può) fare business anche “violando le regole”, se è vero che le campagne di Toscani hanno reso il marchio famoso in tutto il mondo. Se Toscani ha continuato a mietere successi e vincere premi, mentre Benetton è uscita dai radar, qualcosa vorrà pur dire. Ma non so se la lezione sia davvero servita. Probabilmente è vero che ci siamo un po’ abituati alle provocazioni e ce ne accorgiamo meno. E’ anche vero che la comunicazione delle aziende oggi è più attenta agli aspetti etici. Però ho come il dubbio che l’omologazione (culturale) sia ancora una fastidiosa musica di sottofondo. Per esempio mi domando: chi apprezza ed esalta lo stile unconventional di Gvasalia oggi apprezzerebbe ed esalterebbe allo stesso modo anche una comunicazione provocatoria (secondo canoni attuali, ovviamente) come quella di Toscani?
Bel commento. Per quanto riguarda Gvasalia posso solo registrare il tentativo di evadere dai territori convenzionali della fotografia di moda. Ma da qui ad immaginare un parallelismo con il Toscani anni novanta ce ne passa! In Gvasalia c’è provocazione senza trauma. Per non parlare della discussa dimensione etica..
Premettendo che, ahimé, non ho una conoscenza molto approfondita del mondo della fotografia e, nello specifico, quello della fotografia di moda a cui ho iniziato ad approcciare in maniera critica di recente, posso affermare che pur essendo nata nel decennio (anni Novanta) in cui le campagne shock di Toscani iniziavano a circolare nel panorama pubblicitario/comunicativo mondiale, ho comunque avuto successivamente la possibilità di un contatto con quella realtà.
La Benetton, pur avendo perso un ruolo primario nella comunicazione e parallelamente sul mercato attuale, rimane in ogni caso una forte presenza nello scenario odierno; inevitabilmente ci si scontra con le sue campagna pubblicitarie più o meno presenti in ogni città e in ogni paese. La cosa che maggiormente ritengo scioccante è che nonostante ancora oggi dimostri un grande impegno nella comunicazione, questa azienda non riesca più a “sfondare” il muro mediatico come un tempo, indipendentemente dal fatto che i suoi prodotti possano incontrare o meno il gusto delle persone.
Sulla base di quella che è l’attuale condizione della Benetton, mi viene da pensare che, forse, l’ipotesi di un successo aziendale dovuto ad un rapporto simbolico di dipendenza istauratosi con il direttore artistico/fotografo Toscani sia accreditata. Considerando che alla fine della collaborazione tra Toscani e Benetton quest’ultima abbia perso il suo valore avanguardistico ed il marchio sia divenuto pressoché anonimo all’interno di una qualsiasi holding finanziaria, è innegabile che vi sia stato un “effetto Toscani” sull’azienda, ma anche nel mondo culturale, pubblico, critico.
La fotografia e nello specifico quella della moda, nasce come una semplice forma di documentazione e quelli che oggi sono considerati degli artisti, un tempo erano visti come dei semplici artigiani-esecutori di un’immagine di serie B. In realtà la fotografia, come qualsiasi altra arte che si rispetti, è una forma espressiva attraverso la quale evocare emozioni, sensazioni e, per questo motivo è fatta tanto di creatività quanto di tecnica. Con lo sviluppo dei media, delle tecniche pubblicitarie e comunicative, inevitabilmente i fotografi si sono ritrovati a dover concepire diversamente la propria arte: da un semplice ritratto, allo sviluppo di un rapporto con il prodotto, l’azienda ecc. con le quali si sono trovati a lavorare. Attraverso la dimensione della comunicazione pubblicitaria, si sviluppano quindi nuovi rapporti tra arte e prodotti, tra significati intrinseci ed estrinsechi, tra gusto personale e opinione pubblica. Se così non fosse i fotografi tornerebbero ad essere dei semplici esecutori di idee/opinioni altrui.
Che Toscani abbia sbagliato i toni o esasperato i modi attraverso i quali comunicare il proprio punto di vista è un dato di fatto, ma altrettanto vero è che non ha mai negato di non odiare il conformismo e di voler risvegliare le coscienze dell’umanità, costringendo il mondo intero ad interrogarsi su una serie di elementi e fatti del reale che tramite la comunicazione erano stati rimossi, cosa che per certi versi ancora accade. Il fatto che si sia opposto alle convenzioni ed ai paradigmi tecnici dell’epoca forse rappresenta uno dei fattori che maggiormente ha suscitato scalpore. Innegabilmente è stato ed è tutt’ora un geniale art director e artista, ma bisogna considerare il fatto che si parla dell’epoca che va dagli anni Ottanta al nuovo Millennio. Riprendendo la campagna shock dei condannati a morte negli Stati Uniti, probabilmente se quelle immagini fossero apparse adesso, non dico che non provocherebbero scalpore, ma incontrerebbero una minor resistenza da parte della critica e della società. Con questo non intendo sicuramente sminuire Toscani, al contrario; penso semplicemente che per certi versi si sia trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Per contro, ritengo anche che per certi aspetti fosse invece al posto giusto nel momento giusto: da un punto di vista tecnico, etico e comunicativo, se la società dell’epoca (della moda del lusso, del glamour e del dispendio), non fosse stata colpita da quei tipi di messaggi, probabilmente saremo ancora alle prese con tipologie di pubblicità il cui scopo è esclusivamente quello di introdurre la falsità e la finzione nella vita quotidiana.
Nello specifico per quello che riguarda la moda, alcuni fotografi si posero controcorrente, con immagini provocatorie, erotiche e fortemente seducenti per l’immaginario collettivo; Toscani addentrandosi in questo mondo riuscì ad inserirsi mantenendo il proprio stile personale, attraverso delle immagini il cui scopo non era solo vendere e nemmeno solo provocare/sconvolgere, ma l’emblema di entrambi gli aspetti assieme, delle immagini in ottimo equilibrio tra l’aspetto dell’impegno sociale e quello di mercato. Una strategia comunicativa che, attraverso il grande successo raggiunto dalla Benetton, mostra come soprattutto nella moda bisogna andare oltre la presentazione del semplice oggetto o della vendita tramite la comunicazione. La comunicazione moda deve esprimersi attraverso un mix di spettacolarità e di realismo, due elementi capiti da Toscani e che lo hanno portato ad essere criticato, ma altrettanto amato.
Nella fotografia la ricerca della bellezza è necessaria, ma come nel resto dei campi artistici, la bellezza è effimera e nel tempo esaurisce la sua attrattività. È necessario che si aggiungano ad essa dei criteri oggettivi o soggettivi che siano, per far si che le foto o le pubblicità di moda, non restino semplicemente solo una pagina all’interno di un qualsiasi magazine.
Toscani con i suoi “traumi” è riuscito ad uscire dal conformismo e dall’alienazione quotidiana con un realismo simbolico che è parte fondamentale del suo linguaggio fotografico. Attraverso di lui la Benetton sviluppò un valore identitario, di business e commerciale servendosi della tecnica dello straniamento del fotografo che, ha dato l’impulso ad un evoluzione della comunicazione e un invito a prestare maggiore attenzione nella fruizione da parte del pubblico.
Toscani, che ancora oggi si batte per una maggiore apertura al realismo comunicativo, come ogni artista avanguardistico che si rispetti, è amato o odiato. Ad ognuno il suo punto di vista; rimane il fatto che sarà sempre un artista che viaggia contemporaneamente dentro e fuori del suo tempo lasciando un proprio “effetto”.
Per essere a digiuno di cultura fotografica direi che te la cavi benissimo.
Oliviero Toscani è tra i maggiori fotografi di moda di tutti i tempi. Ma a mio modo di vedere ha una marcia in più rispetto a coloro che lo hanno preceduto. I primi suoi lavori fotografici sono dedicati completamente alla riviste di moda come Vogue Uomo o Harper’s Bazaar, nei quali ci propone un’immagine che serve a pubblicizzare abiti, oggetti, figure, come di consueto. Nulla di troppo diverso dai colleghi. Via via con il tempo, inizia quella che si può definire la seconda parte della carriera di Oliviero Toscani, in cui la sua fotografia di moda comincia a subire delle variazioni e nelle quali si può parlare di un nuovo tipo di fotografia, nuovo modo di comunicare e di conseguenza pubblicità innovativa. Tutto ciò coincide, maggiormente, con l’inizio della collaborazione con il brand Benetton. Le sue foto cominciano ad avere elementi e soggetti inconsueti. Si parte con la campagna “United Colors of Benetton” in cui si sottolinea la possibile convivenza tra le diverse etnie, religioni, colori, si passa per l’esaltazione dell’incrocio di razze per poi arrivare alle campagne definite shock. Beh da questo momento in poi Toscani ha dato una sua visione del mondo e del modo in cui fare comunicazione, attraendo sia adulatori (ex: Gilles Lipovetsky) che detrattori (ex: M.G. Donhoff). Questo perché? Per rispondere a ciò inizierei con una considerazione abbastanza logica: l’apportare modifiche, l’introduzione di novità in un qual si voglia ambito, da sempre è pretesto di discussione. E diventa più rilevante quando parliamo di fotografia di moda i cui connotati si sono già delineati negli anni e di una personalità ben definita, come in questo caso Toscani. Ma possiamo dire che lui sapeva benissimo che i suoi lavori avrebbero potuto subire delle critiche. Infatti in essi ritroviamo un’inversione di tendenza rispetto ai suoi antecedenti. Quello che caratterizza i suoi lavori è un’apertura ad elementi della vita reale, con annessi problemi sociali. Non si racconta più un sogno, ma si viene messi davanti i veri problemi della vita senza troppi filtri. Da qui le campagne dedicate ad un malato di aids, ad un soldato mercenario di colore, della raffigurazione dei carcerati americani condannati a morte, e della ragazza anoressica fotografata completamente nuda. Si capisce quindi che non è più un linguaggio limitato alla fotografia di moda, ma qualcosa che va oltre. Qualcosa che vuol far riflettere su quello che ci circonda e succede. Come se si volesse far aprire gli occhi che per troppo tempo sono rimasti chiusi davanti la realtà, troppo spesso raccontata falsamente o comunque non realisticamente. Toscani, invece, crudamente ce la propone. Da qui proviene lo shock delle sue campagne e la diversità. Pertanto mi ritrovo totalmente in accordo con l’autore quando ci parla di tecnica dello straniamento. Egli prende una fotografia di cronaca che raffigura un fatto sociale e lo sposta nel linguaggio della moda, ponendoci solo il logo del brand Benetton. A prima vista sembrerebbero due elementi completamente opposti e distanti tra di loro, ma l’abilità di Toscani sta proprio in questo nell’avvicinarli e combinarli insieme per generare qualcosa di nuovo scioccando così lo spettatore che viene colpito da ciò che di diverso vede. In questo modo raggiunge l’obbiettivo: ossia sensibilizzarlo alla campagna proposta. Ed in ultima analisi avvicinarlo al brand e ai suoi valori. Quello che più doveva risaltare nelle sue immagini era il messaggio che stava dietro di esse. Si tratta di una vera e propria strategia comunicativa, grazie alla quale Benetton aumentò il suo fatturato. Ma non gliene fu molto riconoscente, e questo andò a loro discapito. Si registrarono infatti dei bruschi cali nelle vendite ed un’identità che non venne più riconosciuta dai consumatori. Quindi per il brand Benetton si può tranquillamente parlare di un “prima” e un “dopo” Oliviero Toscani. Questa loro collaborazione è esempio per sottolineare e dare importanza alla comunicazione aziendale. E fu tutta qui la sua genialità, nell’essere riuscito a captare gli elementi principali che servivano all’ azienda per fare successo e aumentare le vendite, e la comunicazione rientrava tra le principali. Ad oggi le campagne Benetton si sono omologate a quelle di altri brand, con la pubblicizzazione del prodotto e nulla che possa dar adito a discussioni o ampi dibattiti come è stato in precedenza. L’originalità non è più presente nelle loro pubblicità.
Negli anni 80-90 Toscani divenne uno dei fotografi maggiormente ambiti tra il fashion system e non solo. Mi sento anche di affermare che con lui cambia anche la figura del fotografo di moda. Si parla più di stratega della comunicazione, della pubblicità piuttosto che delle abilità tecniche e professionali di fotografo. Non più un’immagine studiata tecnicamente ma uno studio tutto basato sul messaggio che deve essere provocatore, intrigante, per attrarre il più possibile il grande pubblico e colpirlo nel profondo. Quindi parliamo più che altro di un comunicatore, ed a tratti anche pubblicitario secondo me. Non di un artista nel senso stretto ma di un pensatore razionale. Vuole essere in controtendenza in tutto ciò che fa e distinguersi dalla massa. L’essere anticonformista fa parte della sua indole.
Infine posso dire che per tutti i motivi che ho elencato, Oliviero Toscani rimarrà sempre un grande punto di svolta nella storia della fotografia di moda e un punto di inizio per una nuova generazione di fotografi che ispirano il loro lavoro proprio al grande maestro.
Queste considerazioni nascono da una visione più attenta delle fotografie ed uno studio su Toscani, non sono sicura sul fatto che siano corrette o meno in quanto è la prima volta che mi confronto con un lavoro critico sulla fotografia di moda.
Mariacristina ha scritto un commento molto coinvolgente. Ma sostenere che Toscani sia tra i maggiori fotografi di moda di tutti i tempi è eccessivo e anche paradossale per un fotografo che disprezza la moda. Secondo me per dare a Toscani quello che è di Toscani bisogna uscire dalle frasi convenzionali. Ammetto però di non saperlo fare.
Toscani si presenta come un personaggio burbero, facile all’incazzatura, spigoloso. Ma riflettendo sull’articolo mi sono fatto l’idea che dietro questa superficie ci sia un uomo generoso, attento al sociale, intransigente sui valori nei quali crede. Oltre ad un grande fotografo penso sia un grande uomo.
Oliviero Toscani, più di un pubblicista lo considererei un comunicatore, perché un pubblicita deve sempre fare ciò che il cliente vuole o quello che piace al cliente, e lui attraverso la sua fotografia stava cercando di farci vedere la realtà, nonostante più cruda che questa fosse, una realta che dovevamo vivere, e forse in questo modo smettere di sognare con quella perfetta pubblicità a cui forse solo una persona su un milione potrebbe arrivare. Attraverso il suo ciclo definito “realistico” il suo lavoro è più forte e allo stesso tempo più controverso, c’è tra 1980-2000 dove Toscani e Benetton avevano l’intenzione di rendere famoso il marchio con lo stesso nome, dando un’identità attraverso lo scandalo e non con la qualità dei suoi prodotti. Gli artefici della campagna al contrario difendevano, che Toscani e Benetton, volevano generare discussione su questioni controverse per la società in tutto il mondo, ma dal punto di vista degli affari, quelli che protestavano non erano interessati al prodotto, non erano clienti del marchio, per questo cosí tanto quello che dicessero o no, non interessava e Toscani e la Benettton, dovrebbero seguire avanti, tra oltre piu le persone se indegno e i giornali si rifiutano di pubblicare le foto di Toscani, più Benetton vende e Toscani diventa forte, come sappiamo, dopo il divorzio tra Benetton e Toscani, il marchio non ha restituito a essere lo stesso, oggi da carico di una holding finanziaria, non ha l’impatto che aveva al fianco di Toscani, non esiste piu una campagna di Benetton che provochi lo shock emozionale a cui siamo stati abituati, forse perché per Toscani, l’arte deve essere sempre provocatorio, altrimenti non ha senso, senza Toscani il marchio ha smesso di crescere, e forse non sia più uno dei cinque marchi più grandi del mondo, come è stato in quel momento. Toscani può essere amato e odiato o come succede con la magior parte di artisti, non puó essere compreso nel suo tempo, ma quello che se sono sicura é che Toscani è nato per creare polemiche e cosí fare che la sua arte crede scandalo, come a lui piace, altrimenti non se lo può immaginare, alla fine, le famoso fote di Toscani rimarranno come punti di riferimento fondamentali di un tipo di pubblicità inserita nella polemica e le sue immagini, sono diventate il canone o precedente per le campagne successive, lasciando così delle barriere gigante per i fotografi future, che cercarno una specie di rivoluzione artistica, come quella che lui é riuscito a fare.
L’adolescenza, influenzata da padre fotoreporter del Corriere della Sera, senza dubbio, contrassegnerà tutto il percorso formativo di Oliviero Toscani. Gli stessi anni dell’adolescenza sono quelli delle contestazioni: della minigonna di Mary Quant, dei Beatles e dei Rolling Stones, della cultura underground e delle proteste. In tale contesto, si forma la personalità di un fotografo, che diverrà esso stesso provocazione e contraddizione.
Inattuale e anticonformista, contro la moda, la televisione, la creatività, la religione, l’economia di mercato, oserei dire nichilista, eppure fa foto di moda, va in televisione, partecipando anche ad un talent “Master of photography”.
Prima di lui, Guy Bourdain ha accantonato raffinatezza ed eleganza, sezionando e ricomponendo i corpi a proprio piacimento, tramite “un’orchestrazione” di colori. In seguito, Helmut Newton, tramite una continua provocazione erotica, trasmette l’idea dell’uomo come accessorio della donna. Pertanto Bourdain e Newton, altrettanto provocatori, come esprime l’autore, hanno traumatizzato la comunicazione nella moda.
Le immagini di Toscani raccontano la realtà dei fatti, la cruda realtà, senza censura, per smuovere la coscienza della gente, per innescare delle discussioni e far riflettere, per presentare un versione dei temi sociali che i media e le istituzioni nascondono.
Come già detto, oltre ad avere un padre fotoreporter, ciò che ha influenzato il suo percorso artistico, è stata la scuola di Zurigo, che ha permesso lui di acquisire competenze tecniche, grafiche e comunicative. La strategia comunicativa è la continua provocazione e lo shock: spiazzare lo spettatore. Dopo gli studi, inizia a collaborare con prestigiose riviste di moda, ricevendo diversi apprezzamenti, grazie all’adeguamento allo spirito contestante degli anni ’70. Inizia, dunque, a spiazzare il pubblico con la prima campagna dei jeans Jesus con lo slogan “Chi mi ama mi segua”. Inizia a far parlare di se, e a ricevere le prime indignazioni, soprattutto dal mondo ecclesiastico.
In seguito, prende vita il rapporto Benetton/Toscani; a mio avviso, tale rapporto ha beneficiato entrambi, il brand e il fotografo. Non si può dire che Benetton avrebbe avuto miglior lancio senza Toscani e, al tempo stesso, che Toscani avrebbe raggiunto la stessa “popolarità” senza il brand Benetton. Ciò che, anche io, come detto dall’autore, mi sono ripetuta, leggendo il saggio, è “Lo sapevo che prima o poi si sarebbe bruciato da solo”. D’altronde, questo è il rischio di chi osa, di chi ha abbastanza coraggio per continuare sulla propria strada, di chi impronta la propria vena artistica sull’unicità, e di chi non si adegua al sistema, è vero. Non credo, in ogni caso, che l’azienda Benetton abbia diminuito, negli anni, il proprio fatturato a causa della fine del rapporto con Oliviero Toscani. Credo che il business dell’azienda non abbia saputo adeguarsi a pieno al cambiamento dei tempi, nel settore moda, complice il boom dei colossi low cost, come Zara ed H&M.
Tuttavia, il rapporto “idilliaco” Benetton/Toscani ha dato vita a campagne, seppur discusse e discutibili, che ancora oggi sono attuali e hanno spiazzato i consumatori, e non solo. Ho apprezzato molto il fatto di porre sulle campagne la mission stessa dell’azienda “United colors of Benetton”. Trovo meraviglioso l’accostamento della strategia Benetton del “tinto in capo” (utilizzare i colori giusti in ogni stagione, per aver risparmio sui resi) con le prime campagne Toscani su tutti i colori del mondo, al fine di aprire le coscienze sul tema razzismo. Trovo anche interessante, anche se forte, la donna di colore che allatta il bambino bianco. E’ forte, è vero, ma diretta e ad impatto. Toscani, tramite le sue campagne, ha elevato qualcosa di già esistente (temi sociali) a qualcosa di diverso (moda). Trovo meno interessante la campagna sulla morte del malato di Aids; così come, la foto del mercenario. Le foto di Toscani sono crude e “tremendamente” reali, ma si tratta pur sempre di moda. Lui è dissacrante, ma a mio avviso esiste pur sempre un limite. Si tratta in ogni caso di gusto personale, ma su Toscani non sono d’accordo su chi estremizza in un senso o nell’altro. Può piacere o non piacere, come qualsiasi altro grande artista. Apprezzo il suo coraggio nell’osare sempre, a costo di “bruciarsi da solo”, ma potrei anche pensare che, a un certo punto, quando si è molto in alto, non si vede più quale sia il limite. Non sono d’accordo, dunque, su chi estremizza sul fotografo, sempre a mio modesto avviso. Secondo Donhoff, le campagne Benetton sfruttavano, cinicamente, sentimenti e compassione per fini commerciali. Secondo Lipovetsky, le campagne erano totalmente in sintonia con la nostra società. Ecco, io non mi schiererei ne da una parte, ne dall’altra.
Lo considero un genio, per quel che riguarda il fatto di osare e, perché no, il fatto che sia la contraddizione in persona. E’ contrario alle agenzie pubblicitarie, allo star system della moda, agli standard televisivi, ma realizza comunque campagne pubblicitarie, fa foto di moda, e va in tv. Ma probabilmente, è proprio questo che rende diversa dagli altri una personalità del genere: la sua unicità e il continuo spirito di lotta al sistema. E’ un’artista che non si potrà mai dimenticare e, senza dubbio, a lui appartiene il merito di eterna contemporaneità delle sue foto. Ha il merito di aver fatto discutere, nel bene o nel male, e di non lasciare inerme e indifferente lo spettatore, dinanzi a qualsiasi campagna abbia realizzato.
Ottimo intervento. Certo che però suona bizzarra l’affermazione sul tuo non schieramento (relativamente alle polemiche innescate da Toscani) quando subito dopo lo definisci un genio.
Non discuto l’importanza di Toscani. Ma se io avessi un marchio della moda non lo vorrei come comunicatore. Se è così attratto dal sociale perché non ha fatto il reporter come il padre? La moda ha degli obiettivi. Possono non piacere ma se ci lavori dovresti rispettarli.
Toscani critica essenzialmente una forma moda che esaspera il glamour il sexy le sciocchezze. Per fortuna ne esistono altre più autoironiche, meno compromesse con tendenze e ossessioni marketing. Ancora, credo che Toscani non tolleri la pubblicità stupida, inspiegabilmente ripetitiva e ancorata solo alla dimensione di prodotto da magnificare.
Allora caro Fabrizio, puoi certo criticare Toscani ma non puoi non riconoscerne il coraggio e la determinazione.
Nel 1982 avviene l’incontro che cambia il mondo della comunicazione e dell’advertising: Toscani inizia a realizzare le campagne pubblicitarie per Benetton, dando vita a una serie di fotografie che difficilmente verranno dimenticate nell’immaginario collettivo. Toscani e Luciano Benetton insieme inventano il marchio United Colors Of Benetton, spazzando via la pubblicità creata fino ad allora. Verrà ideato il rettangolino verde (icona del marchio) che sarà posto sulle fotografie che scuoteranno le coscienze del mondo. Per la prima volta un creativo come O.T. anziché creare foto di moda dove l’effimero e la bellezza sono poste in primo piano, parla di ciò che fino ad allora era stato per tanto tempo nascosto. Toscani inserisce nel mondo del glamour il razzismo, la fame nel mondo, l’AIDS, la religione, la guerra, il sesso e la pena di morte. Il fotografo ha avuto il merito di fare un’operazione di verità, infatti la sua genialità risiede nel portare davanti agli occhi del mondo della moda «la nuda e cruda realtà». Come egli stesso dice in un’intervista: “Siamo tutti condizionati dalla ricerca del consenso e nessuno produce più niente di coraggioso. È tutto piatto. I format sono tutti uguali. Da quando esiste questa parola, marketing, è arrivata la mediocrità in comunicazione.” In effetti il suo discorso non fa una piega, in quanto negli anni più floridi della sua carriera (‘80/’90) il mondo era assuefatto dalle favole e dai sogni che ogni giorno propinava la tv e le campagne pubblicitarie. O.T. non ha fatto altro che risvegliare le coscienze di un popolo addormentato utilizzando provocazione e shock. In semantica la provocazione è far sentire all’altro ciò che non vuole sentire producendo in lui una passione e una reazione. Ciò che il fotografo cerca è proprio la reazione della massa, è il “fare scalpore” e il “porre l’attenzione su temi sociali troppo spesso dimenticati o quantomeno accantonati”. Trovo che Toscani sia un genio indiscusso, un comunicatore d’avanguardia più che un semplice fotografo. Egli ha percepito prima degli altri che è possibile comunicare un brand della moda anche parlando dei problemi della vita e della società. Lo definirei un visionario per l’epoca. Oggi sicuramente la situazione è diversa: tutta la realtà che lui ha sbattuto in faccia alla gente, nella situazione attuale è più semplicemente fruibile grazie ai mezzi di comunicazione ed ai social network. Allo stesso tempo non bisogna dimenticare che un forte contributo al risveglio dei comunicatori attuali è stata data sicuramente da Toscani che ha rinsavito l’opinione pubblica ed ha impedito alla moda di fare del suo mondo una prigione dorata.
L’osservazione che fai riguardo a internet è giusta: oggi grazie alla rete ci stiamo abituando ad avere un rapporto quotidiano con immagini di ogni tipo. Stanno nascendo nuovi problemi ma di certo la fruibilità immediata di immagini eterogenee ci ha reso più cinici e disincantati.
Preciso che mi riferisco ai commenti. Ho letto molte critiche alla Benetton. Ma lo sapete che con la creazione della holding e le differenziazioni sono una delle famiglie imprenditoriali più potenti d’Europa? Scusate tanto se hanno trascurato la moda ma con il resto fanno fatturati da paura e danno lavoro a decine di miglia di persone. Non vi viene il sospetto che un fotografo come Toscani pregiudicasse lo sviluppo manageriale sul quale la famiglia scommetteva? L’articolo dell’autore forse ha condizionato troppo i giudizi. Descrivere la realtà come se Toscani fosse un eroe e i manager della Benetton dei deficienti è ingiusto ed è una sciocchezza.
Capisco il tuo punto di vista. Tuttavia ti ricordo che le critiche al management si riferiscono fondamentalmente al comparto moda e maglieria. Delle attività della Holding non so praticamente nulla a parte due cose:
1. A me risulta che sinora i dividendi delle trentennali diversificazioni che si sono divisi i vari rami della famiglia Benetton non sono stati esaltanti.
2. Come tutte le imprese famigliari con il passare del tempo e l’arrivo degli eredi intervengono problemi legati all’impasto affettivo e passionale sul quale si è sviluppata la lunga avventura dell’azienda trasformatasi in holding.
Il punto 1 determina una conseguenza che bisogna calcolare, ovvero la quantità di risorse da investire nel settore di partenza per sostenerne l’espansione può risultare insufficiente (soprattutto se altri players sul mercato crescono e diventano aggressivi). Allora non conviene più sostenere il business delle origini ma diversificare ancora di più. Di conseguenza il settore primario non solo non cresce ma comincia a perdere pezzi.
Il punto 2 è un problema tipico della nostra imprenditoria. La presenza delle famiglie in fase operativa, nel corso del tempo, porta in azienda tensioni non lineari cioè difficilmente razionalizzabili secondo la logica brutale del management. E il passaggio dalla conduzione familiare a un vero management libero di prendere le decisioni strategiche immediatamente operative sul mercato, rappresenta un ostacolo di non facile soluzione. Devo aggiungere però che i Benetton in questo sembrano più avanti rispetto altre situazioni familiari. L’imminente risoluzione del tentativo di acquisto di Abertis da parte di Edizione (holding della famiglia Benetton) sembra annunciare un nuovo ordine nei poteri aziendali che cancella ogni ombra su dissidi o altro. Ad acquisizione fatta la holding controllata dalla famiglia Benetton avrà una potenza di fuoco di 16/18 miliardi di euro. Immagino che si contino sulle dita di una mano le famiglie imprenditoriali europee con il potere di questi fatturati. Onore quindi ai Benetton. Ma il ragionamento di fondo sulla moda e sulle loro radici non cambia: potevano essere loro i Zara del terzo millennio; non ci hanno creduto e oggi l’indirizzo originale della famiglia è sottoposto a fortissime pressioni. Occorrerà fare molta attenzione al settore moda e chi lo dirigerà dovrà ispirarsi all’audacia che ebbe Luciano Benetton quando scelse Toscani come art director del mondo simbolico della marca.
Toscani anche conosciuto come il fotografo che “andava contro”, è uno dei fotografi più conosciuti nel mondo, celebre per le sue campagne pubblicitarie shock.
Direi anche, l’unico che ha avuto la forza e l’inclinazione per polemizzare, criticare e mostrare realmente la realtà delle cose. Nessun fotografo, penso, come lui è riuscito in questa impresa, a far parlare di lui, delle campagne pubblicitarie che rispecchiavano i suoi ideali e non solo: i pregiudizi, il razzismo, la pena di morte di cui è sempre stato contro, le unioni civili, l’Aids e la violenza sulle donne. Temi attuali, ricorrenti ma di cui si parla poco. Toscani usa il mezzo pubblicitario di moda per parlare dei problemi del mondo e penso che sia stata la più grande “genialata” della storia. Ha avuto un grande potere negli anni in cui era attivo e credo e spero che le sue campagne pubblicitari siano servite a far aprire,finalmente, gli occhi al mondo
intero. Ha subito accuse molto pesanti per il suo modo di far pubblicità dove l’opinione pubblica riteneva clamoroso sfruttare i problemi del mondo per “pubblicizzare i maglioni” (campagne pubblicitarie per Benetton), ma è stato l’esatto contrario. Qui si parla di un nuovo modo di fare pubblicità, di come queste immagini pongono un nuovo “canone fisso” della pubblicità e dello slogan, come disse anche Pier Paolo Pasolini, rivelando una nuova possibilità di espressione.
Solo una precisazione. Toscani è ancora attivo, anche se si divide in molte forme di attività.
Irriverenti, dissacratori, sovversivi, anticonformisti, provocatori: frammenti di una realtà poco illuminati dalla routine quotidiana e che promettono un racconto quasi scioccante per il senso comune. Oliviero Toscani con scelte coraggiose esce dagli schemi tradizionali e propone una radicale contro-tendenza nei confronti della pubblicità ordinaria.
“Il conformismo è il peggior nemico della creatività, chiunque sia incapace di prendersi dei rischi non può essere un creativo”, afferma lo stesso fotografo.
Oliviero prende posizione nei confronti del mondo attraverso immagini che costringono l’opinione pubblica ad un brusco risveglio: immagini vere, toccanti, che non rientrano più all’interno della dimensione di sogno a cui eravamo abituati, costituita da mondi incantati, perfetti ed incontaminati ma allo stesso tempo irreali, in cui le merci erano trasfigurate in favole.
Oliviero rovescia le coordinate della moda standard facendo a meno di qualsiasi enfatizzazione sulla novità e sulle tendenze estetiche: egli stesso dichiara di essere un fotografo interessato a cogliere il processo di cambiamento nella società e, dunque, di non appellarsi a un gusto o a una morale, che risultano sempre molto oggettivi.
Le immagini di Oliviero riflettono un punto di vista con implicazioni sociali e politiche: sono immagini forti, di rottura che hanno suscitato forti polemiche e inciso fortemente sulla comunicazione, dando vita ad un nuovo linguaggio comunicativo.
E in un contesto, come quello degli anni 80, in cui si assiste alla rapida accelerazione dello sviluppo delle tecniche pubblicitarie e della professione di comunicatore (che diventa una delle attività più desiderate dai giovani), in cui pochi osavano opporsi al paradigma della nuova pubblicità, risulta facilmente comprensibile la reattività negativa di questo mondo pubblicitario nei confronti dei colpi impietosi portati poco dopo da Oliviero Toscani alle procedure standard.
Con un bel fondo schiena in un paio di succinti shorts di jeans, e uno slogan che recita “Chi mi ama mi segua” ha inizio la storia del fotografo italiano dall’indubbio talento: immagine di grande impatto, che tuttavia non si veste di quell’aria perversa che aveva, invece, caratterizzato le fotografie molto discusse ai quei tempi di Newton e Bourdin.
La collaborazione con il gruppo Benetton, iniziata nell’82, invece, costituisce per Oliviero una delle strategie di comunicazione più emblematiche della storia della pubblicità: l’importanza delle sue campagne risiede nella trasgressione dei soggetti, ma soprattutto nella creazione di un’immagine che ha sempre una valenza simbolica, nonostante sembri negare ogni legame con il prodotto. La vivacità dei colori, simbolo distintivo del marchio, che un paio di anni dopo diventa “United colors of Benetton”, batte ogni barriera, ogni distinzione etnica, sociale, religiosa e culturale.
Da qui in poi la drammaticità della realtà è sempre più frequente nei suoi scatti: malati di HIV, immigrazione forzata, catastrofi naturali, vittime dell’anoressia diventano i protagonisti della sua comunicazione, che fa un balzo in avanti con foto di reportage che riproducono il mondo reale.
Fino a We on death row, il titolo dell’ultima campagna di Toscani per Benetton, che chiude un sodalizio durato molti anni e per la quale Oliviero Toscani fotografa dei condannati a morte.
Quando Toscani da avvio al suo ciclo definibile “realistico”, le polemiche per il suo lavoro si inaspriscono: le immagini vengono criticate da enti o dall’opinione pubblica per i metodi pubblicitari di shockvertising utilizzati. Nonostante ciò ritengo che esse trasmettano un efficace messaggio di impegno e determinazione.
La forza delle sue immagini si manifesta attraverso una creatività innovativa e scandalosa: Toscani è irriverente e provocatorio, ed esprime un messaggio altamente comunicativo, che arriva a tutti perché non può passare inosservato. E oltre al valore dell’immagine, ci invita a pensare: con le sue immagini ha precorso i tempi, soprattutto in campo sociale, contro i pregiudizi, il razzismo, la pena di morte.
“Sono orgoglioso del lavoro svolto perché ancora una volta ho dimostrato che in questo Paese quando fai arte crei scandalo”. Questo è quanto affermato dallo stesso Oliviero Toscani.
Grazie al suo lavoro, il fatturato di Benetton, in quegli anni, è stato in costante aumento. E ritengo, dunque, che non sia un caso se a distanza di pochi anni dall’uscita di scena di Olivieri, l’azienda è scomparsa progressivamente dalla scena primaria della comunicazione pubblicitaria. Il vuoto lasciato dal fotografo testimonia come il successo aziendale della Benetton sia dipeso anche dal rapporto di dipendenza con Toscani e mette in luce la grande efficacia simbolica delle sue strategie d’immagine e le sue astute intuizioni. Una strategia comunicativa, la sua, in totale contrapposizione con i canali ufficiali della pubblicità standard che verso la fine degli anni ’80 stava rischiando di sonnambulizzare il consumatore: si tratta di una continua provocazione che si propone di cambiare le mentalità attraverso shock.
Ritengo che, con le sue campagne pubblicitarie, la Benetton sia stata in grado di lanciare dei messaggi intelligenti e coraggiosi, capaci di suscitare un dibattito all’interno della società e rompere gli stereotipi di leggerezza e crescente superficialità della maggior parte degli annunci commerciali. Oliviero Toscani ha avuto la capacità di smuovere, insomma, le coscienze degli individui ed è per questo che non si è potuti rimanere in silenzio di fronte a tanto scalpore.
“Non si tratta di vendere più o meno maglioni, non è questo il mio mestiere, bensì di sensibilizzare, informare, far riflettere”, ha dichiarato il fotografo. Ogni soggetto ha un significato intrinseco nella filosofia di Toscani: non importa cosa si pubblicizza, conta solo il messaggio pubblicitario.
A mio avviso i consumatori sono stanchi di una retorica pubblicitaria banale e priva di contenuti, volta a snaturare la realtà falsificandola, rendendola migliore ed eliminandone i conflitti.
La pubblicità della Benetton è in sintonia con gli sviluppi della nostra società che si trova in una nuova fase rispetto al consumo.
Ritengo, dunque, che Oliviero abbia sollevato la società da quel velo di ignoranza cui eravamo abituati a causa dello spettacolo fantasioso, spensierato, gioioso, teatrale, artefatto tipico della pubblicità ordinaria che ci rendeva spettatori passivi nei confronti della realtà e a cui, invece, il fotografo contrappone immagini talvolta violente ma estremamente veritiere.
E’ necessario, dunque, che la moda vada oltre la presentazione del semplice oggetto: la comunicazione deve allontanarsi dal conformismo ed esprimersi attraverso un realismo fotografico, in nome del quale Oliviero Toscani continua a battersi.
Per riprendere le parole di Lipovetsky, citate dall’autore del testo: “ Dobbiamo avere gli occhi aperti, abbiamo bisogno di nuove ispirazioni. Non possiamo che augurarci un nuovo atteggiamento da parte delle imprese commerciali per un uso più intelligente delle risorse economiche destinate alla pubblicità”.
Penso che il mondo della moda abbia bisogno di una figura come quella di Oliviero Toscani: se si analizza con attenzione la rassegna delle campagne pubblicitarie odierne, traspare la presenza della lezione impartita dal grande maestro. Le sue strategie comunicative hanno aperto la strada ai giovani fotografi di moda che si sono succeduti dopo di lui: la portata eversiva dell’operazione proposta dal fotografo ha fatto emergere un modo di intendere la comunicazione, molto discutibile ma apprezzabile e coraggioso, attraverso cui la pubblicità si è impegnata in una ferma presa di posizione etica sui fatti del mondo.
Si fa presto a dire realismo, ma è difficile trovarsi d’accordo su cosa significhi. Per esempio le persone sono reali, le persone sognano, quindi anche i sogni sono reali. Allora anche la moda che ci fa sognare la si può definire realista. Mettiamo che su un giornale nelle pagine della cronaca ci sia la foto che drammatizza l’inquinamento, per esempio una spiaggia piena di rifiuti, accompagnata da un articolo che parla della sicurezza delle spiagge. Volto pagina e mi trovo una pubblicità che presenta una immagine simile al posto di un bell’oggetto o di una incantevole modella. Che cosa mi insegna che già non so? Perché dovrebbe essere geniale o impegnata? L’articolo che ho letto prima può risultare utile, ma quella pubblicità sembra francamente inutile o retorica. A me Toscani sembra il classico rompicoglioni cioè quello che mentre si scherza e si ride tira fuori gli immigrati che poverini annegano o i politici corrotti, con la scusa che sono reali. Vogliamo un po’ di sexy relax ottico e lui ci spara negli occhi l’anoressica. Non vediamo l’ora di gustarci un bel paesaggio e lui ci deprime con una serie di stronzi, fotografati talmente bene che quasi quasi si sente l’odore della merda. Forse ha ragione l’autore: lo spectator post moderno è un masochista; Toscani lo ha capito e sadicamente lo bastona, cioè lo fa godere di più.
Oliviero Toscani un ribelle provocatore, un provocatore limitato, che non accetta, leva ogni possibilità di replica. O.T. gli piace polemizzare e ama castigare i costumi sociali in cui si trova a vivere. Non amo, anzi proprio non sopporto il suo sentirsi onnipotente che ridicolizza e sminuisce tutto, tranne la sua genialità. Non siamo qui a dover commentare la sua ruvida personalità ma la sua “poetica fotografica”, il suo messaggio artistico.
La fotografia è un mezzo di comunicazione, è una meravigliosa branca dell’arte che secondo me non sta vivendo un gran periodo; come ci insegna O.T. ogni momento storico ha le sue tecnologie tutte le forme di comunicazione sono influenzate dalla tecnologia che attraversa quel determinato periodo, ed ora che la nostra contemporaneità è tecnologia tutta la razza umana possiede un obiettivo, ogni singolo individuo sicuramente una volta al giorno scatta una foto. Infatti oltre che di tecnologia siamo fatti di immagini, il nostro terzo palmo, il nostro smartphone è sempre lì pronto a produrre e darci immagini. Ovviamente con questa sovrabbondanza di fotografia cerchiamo la rarità, cerchiamo qualcosa che ci buchi la retina che ci lascia pensare, che ci lasci ispirare, una foto che siamo pronti ad accogliere nel nostro database nella nostra memoria. Sono moltissime le scintille, le tematiche che negli anni O.T. tra interviste, libri, lezioni ci ha proposto, preferisco molto di più le giustificazioni dei suoi lavori, il concetto che ha districato fotografando quel determinato momento che la fotografia stessa; trovo il genio nel pensiero non nella fotografia, non trovo talento, nonostante penso sia un’enciclopedia vivente di tecnica fotografica.
Studiando questo personaggio le fotografie che ricordo con piacere sono le foto di moda degli anni 60, scattate per Elle e Vogue Italia, e le fotografie per l’azienda Alessi dove si spostò dal classico still life e propose un’altra soluzione, trovo del genio anche lì, senza esagerare e senza andare a toccare dei tasti emotivi troppo intimi. Scandalizzare con le brutture del mondo è facile, scandalizzare con la bellezza?
Quando mi ricapitano sotto gli occhi le foto denuncia di O.T. per l’azienda di maglieria che attualmente arranca nel mercato e che ancora vive di rendita dell’immagine che gli impose il “Brontolo fotografo” spero sempre che quei problemi socioculturali siano superati, invece no, a distanza di venti anni la razza umana è ancora piena di metastasi: razziali, religiose e culturali.
Quando si ha il coraggio di provocare, si deve avere anche il coraggio di riceve delle reazioni e penso che la sua intolleranza mi abbia rovinato l’idea che ho di lui, da poco mi sono trovata a leggere anzi a rileggere il suo libro “Non sono obiettivo”, la frase che meglio mi ha fatto mettere a fuoco la sua poetica, al di là che si parli di foto di moda o foto denuncia è questa: “Io non sono obiettivo, però vedo, e molto spesso quel che vedo non mi piace. Allora mi prendo la libertà di dirlo. Forse esagero, ma esagerare è una forma di creatività che appartiene all’arte. E l’altre è l’espressione delle emozioni, esagerare fa bene, è un esercizio delle passioni, dalle quali veniamo sempre più allontanati dalla realtà analgesica in cui viviamo”.
Concludo dicendo che io non vedo l’ora di essere nuovamente scandalizzata, e non da un telegiornale e non entrando dentro un museo di arte contemporanea ma semplicemente alzando gli occhi e vedere affisso sopra il flagship di una grande città una fotografia pubblicitaria che mi faccia dire: “non ci avevo mai pensato!”