Recensione Her: può un amore essere virtuale e dolcissimo?

Recensione Her: può un amore essere virtuale e dolcissimo?

Lo so, ci ho messo un po’ di tempo ma alla fine ce l’ho fatta: ho visto Her (Spike Jonze).

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Recensione Her: Joaquin Phoenix

Il mio, a ogni modo, è stato un ritardo voluto e ben motivato. Partiamo da lontano: son venuto a conoscenza del nuovo lavoro del regista di Essere John Malkovich relativamente tardi, una volta appresa la notizia del riconoscimento riservato a Scarlett Johansson durante l’ultimo Festival del cinema di Roma e me ne sono subito incuriosito. Mi chiedevo, infatti, come avesse fatto un’attrice a vincere il premio come migliore interprete per un film nel quale compare solo come voce. Anzi, per essere più precisi, provavo a immaginare lo spessore della sua performance vocale. Da qui la decisione di aspettare la prima proiezione in lingua originale che la desolata e piatta bassa bergamasca potesse offrire.
Non me ne voglia Micaela Ramazzotti (doppiatrice italiana della Johansson nel film), ma la recitazione della diva americana, che oserei definire magistrale, credo rappresenti il surplus irrinunciabile di un’opera certamente molto buona ma che senza di essa perderebbe buona parte dei meriti. Scarlett Johansson presta la voce a Samantha, “incarnazione” dei desideri di Theodore Twombly, processati da un algoritmo molto complesso e accurato.

 Recensione Her: Joaquin Phoenix
Recensione Her: Joaquin Phoenix

Mr. Twombly si muove in un mondo simile in tutto e per tutto al nostro ma con una tecnologia molto più avanzata – che ricorda almeno due episodi della magnifica serie tv inglese Black Mirror – e lo fa in maniera pesante, triste. Ha pochi amici, per lavoro scrive lettere a terze persone per mezzo di un sito internet e passa il tempo libero giocando con un avanzato videogioco interattivo. La separazione dalla sua ex moglie lo ha turbato e l’unica consolazione la trova – appunto – nel rapporto con l’astratta Samantha. Con lei si diverte, si confida, si stupisce e, infine, s’innamora.
La solitudine del protagonista è ben resa dall’interpretazione di Joaquin Phoenix che, con il suo auricolare, si tuffa perennemente nell’etere, interagendo quasi esclusivamente con il suo moderno cellulare. La sua distanza dal mondo reale è palpabile: le persone che lo circondano durante il suo cammino dal posto di lavoro a casa spesso non hanno voce, sono solo corpi che si muovono e bocche ammutolite, ridotte a sottofondo dalla voce dei suoi dispositivi: la sua personale realtà virtuale. Nemmeno l’appuntamento con un’avvenente donna in carne, ossa, e occhi languidi lo strappa dalla perfezione che una identità modellata intorno a lui – ma pur sempre di natura binaria – apparentemente rappresenta.
Lungi da me ogni tentazione di spoiler, quindi con la descrizione della trama mi fermo qui. Anche perché credo sia più interessante insinuare nello spettatore l’idea che questo sia un buon film che, volente o nolente, finisce a parlare soprattutto dell’alienazione verso cui le nuove tecnologie rischiano di condurci, proprio come il sopra citato Black Mirror (sia nelle puntate che aderiscono alle tematiche di Her sia in tutte le altre) aveva fatto, con un’intenzione molto più critica e un risultato di maggiore impatto emotivo.

Marco Leoni
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