Norman Parkinson, a very british glamour

A very British glamour .

Norman Parkinson, a very british glamour

Fino a pochi anni or sono, di Norman Parkinson ricordavo ben poco. Certo, i suoi shooting di moda effettuati in Paesi esotici come Thaithi, l’India, l’Africa, quando furono pubblicati erano ancora una rarità sulle riviste di moda, si erano impressi in profondità nella mia memoria. Erano immagini che avevo avvicinato sfogliando vecchie riviste, dai colori perturbanti, con toni a volte eccessivi altre volte in difetto; i pesi visivi degli elementi presi nel campo fotografico li percepivo come perfettamente equilibrati, con spesso presente il tratto ironico tipico del suo stile, pubblicate sull’edizione inglese e americana di Vogue. Ricordavo molto bene anche i suoi raffinati ritratti di adolescenti e signore dell’aristocrazia inglese, caratterizzati da una gravità serena e divertente. Anche gli scatti di moda en plein air pubblicati negli anni sessanta dalla innovativa rivista Queen sono indimenticabili: nessuno meglio di Norman Parkinson ha raccontato con tanta sfrontata grazia il mito della sweet London. E se alle sue foto di quel periodo fa difetto la bellezza groovie ricercata con ostinata tossicità da giovani fotografi come Bob Richarson, David Bailey, Terence Danovan, Brian Duffy, con il senno di poi, riconosco il valore della sua scelta di narcotizzare la dimensione di sex appeal, abusata da molti suoi colleghi. Con le immagini di una Jerry Hall monumentale pubblicate su Vogue verso la metà degli anni settanta il grande fotografo inglese divenne un punto di riferimento per i nuovi interpreti della foto di moda spettacolare e glamour, reclamata dal marketing editoriale delle riviste che celebravano il pret à porter di lusso.

Insomma, anche se avevo letto Martin Harrison, il quale nel catalogo di una delle più grandi mostre dedicate alla foto di moda mai organizzate e intitolata Apparences, sosteneva che Norman Parkinson e Cecil Beaton fossero quanto di meglio l’Inghilterra avesse prodotto nella moda fino agli anni sessanta, fino a qualche anno or sono, non ricordavo quasi nulla delle sue foto degli anni trenta e della prima metà degli anni quaranta.
Per fortuna, una mostra organizzata da Carla Sozzani nella sua Galleria a 10 Corso Como nel 2010, mi aiutò moltissimo a colmare questa mia lacuna e mi fece capire la reale importanza che ebbe Norman Parkinson per la maturazione del linguaggio per immagini della moda, fin dai primi anni in cui i fotografi scalzarono definitivamente i disegnatori dal ruolo di image makers delle nuove tendenze. Devo aggiungere che la contemporanea pubblicazione della importante monografia dedicata al fotografo, scritta da Louise Baring (ed.Rizzoli), aggiunse alla valutazione visiva delle immagini viste in mostra, la rete di informazioni indispensabili per capire l’eccezionalità della carriera di un raffinato fotografo di moda, degno di rivaleggiare con i grandissimi interpreti del genere. In particolare, il saggio introduttivo dell’autrice contenuto nella monografia, rappresenta una ricerca esemplare sulla carriera del grande fotografo che permette a chi conosce solo marginalmente Parkinson di contestualizzarne il lavoro negli anni decisivi della sua carriera.

You take the high road
You take the high road

Nella mostra di 10 Corso Como, una fotografia mi stupì più di altre. Si intitola “You Take the High Road” e fu pubblicata da Vogue nel settembre del 1937. La modella indossa un abito di tweed di Jaeger, marchio inglese creato verso la fine del XIX° sec. da Lewin Tomalin dopo essere stato influenzato dalle teorie del medico tedesco Gustav Jaeger, un bizzarro personaggio che sosteneva essere salutari per l’uomo, le sole fibre di natura animale come la lana. Negli anni trenta l’azienda inglese produceva maglierie e linee di abbigliamento sia femminili che maschili, fatte con fibre naturali di eccezionale qualità. Norman Parkinson riprende la modella di fronte mentre sta passeggiando in una strada sterrata della campagna inglese. La faccia della modella è rivolta leggermente a lato e con la mano si è portata alla bocca un filo d’erba, un gesto che tutti quelli che amano la campagna conoscono bene. Non credo che fosse stata mai pubblicata una foto del genere su riviste di moda. A chi si era ispirato il giovanissimo Parkinson? Ovviamente il primo nome che viene alla mente è Martin Munkacsi, il fotografo ungherese specializzato in eventi sportivi, entrato nel 1933 a far parte dell’edizione americana di Harper Bazar grazie alle intuizioni estetiche della leggendaria Direttrice/Fashion Editor Carmel Snow e del suo art director Vladimir Brodovicth. Questi due geniali personaggi compresero prima di altri, l’efficacia simbolica del valore e dell’energia che il dinamismo implicito negli scatti di Munkacsi assicurava all’immagine. Insomma, le nuove significazioni della bellezza catturata in un momento in cui il corpo compie una azione, cambiavano in modo sostanziale l’impatto dell’immagine di moda per il lettore. La rappresentazione esemplare del bel abito indossato da un corpo ideale poteva così sfuggire al senso contemplativo della visione e suggerire contenuti eccitanti che cominciavano ad esplorare ciò che in seguito sarebbe stato definito lo stile di vita.

Norman Parkinson, Glamour, October 1949, © Norman Parkinson Limited. Courtesy Norman Parkinson Archive
Norman Parkinson, Glamour, October 1949, © Norman Parkinson Limited. Courtesy Norman Parkinson Archive

Dal saggio introduttivo al libro/catalogo della citata mostra, scritto da Louise Baring apprendiamo che fu Alan McPeake, direttore dell’edizione inglese di Harper Bazar, ad arruolare il giovane Norman Parkinson e a suggerirgli di prendersi una modella per fare foto en plein air. È chiaro che il direttore seguiva le indicazioni estetiche dei leader della prestigiosa edizione americana; ma tuttavia le scoperte estetiche di Norman Parkinson non sono riducibili al paradigma della foto in movimento come alternativa editoriale alla teatralità delle pose o alla statuarietà dei soggetti tipiche del linguaggio fotografico dei grandi fotografi negli anni trenta (Hoyningen-Hune; Horst P. Horst; Cecil Beaton, Clifford Coffin…). Le sue foto nel periodo ’37-’42 non mostrano mai un corpo agitato, agonistico come in molte celeberrime immagini di Munkacsi, non rimandano a pose innaturali o ad una studiata artificiosità. Risultano piuttosto di una convincente naturalezza, più “veriste” delle immagini di Toni Frissell, altra straordinaria fotografa influenzata dal fascino delle foto in movimento, e disinvolte quanto quelle di Jean Moral, Herman Landshoff e di Andrè Kertész.

Art of Travel, Vogue 1951
Art of Travel, Vogue 1951

L’allenamento alla “disinvoltura fotografica” consentirà a Norman Parkinson di affinare il suo proverbiale umorismo, conferendo ad esso le inflessioni fredde e distaccate che verranno spesso confuse con una sorta di dandismo per immagini. Io penso piuttosto che sia più corretto dire che, nel campo fotografico tipico del fotografo nella sua maturità, si faranno largo tensioni divise a metà tra la naturalezza dell’inquadratura e l’accentuazione dello stile necessario per impedire la banalizzazione delle immagini della moda. Molti fotografi dalla metà degli anni trenta al secondo dopoguerra esploreranno il realismo munkacsiano e verranno attratti dall’eloquenza (fotografica) del soggetto messo in situazione, ovvero da momenti che includono il gesto o l’azione proiettate verso il divenire. Tra tutte queste istantanee di moda gli scatti di Norman Parkinson si differenziano per un insolito umanesimo, per la spontaneità, per la giustezza del colpo d’occhio del fotografo.

Legroux Soeurs Hat, Vogue 1952
Legroux Soeurs Hat, Vogue 1952

L’importanza di Wenda

Dopo l’esperienza in Harper’s Bazaar , Norman Parkinson nel 1941 cominciò a collaborare con l’edizione inglese di Vogue. Durante la seconda guerra mondiale, le rigorose leggi suntuarie imposte dai governi, avevano di gran lunga ridimensionato la spettacolarità degli abiti. Ma andava in qualche modo stimolata l’autostima del pubblico femminile per dare morale alle tante giovani donne impegnate nelle retrovie del conflitto. Norman Parkinson mettendo a profitto tutto ciò che aveva imparato sull’arte di riprendere la bellezza in movimento si misurò in reportage perfettamente conformi all’obiettivo di porre l’esperienza estetica legata alla moda al servizio del proprio Paese. Le ambientazioni delle sue foto sono spesso rurali e catturano momenti di spontaneità nei quali il fotografo fa emergere la naturale disposizione all’eleganza della donna. Ovviamente si tratta di un romanticismo pastorale fasullo la cui finalità però, in quel periodo, risultava dannatamente seria: creare immagini cariche di un ottimismo intelligente e spontaneo, per donne dai desideri frustrati dallo stato di guerra.

Durante questi shooting conobbe la donna che gli avrebbe cambiato la vita.

Wenda Rogerson aveva 22 anni, studiava recitazione alla Royal Academy of Dramatic Art, e per sbarcare il lunario, occasionalmente, faceva la modella. Fino a quel momento, a parte gli shooting en plein air, Norman Parkinson quando doveva creare immagini di un’eleganza sofisticata, lavorava in studio alla maniera di Cecil Beaton, oppure si riallacciava alle tante suggestioni surrealistiche in circolazione in quel momento, trovandovi spunto per trasformare la rappresentazione in messe in scena che potevano essere avvicinate al sogno.

Dall’incontro con Wenda il suo stile di rappresentazione della Donna divenne più raffinato e consapevole. Wenda Eating Spaghetti, The Iron Road, The New Look, tutte pubblicate nel 1949 da Vogue sono la testimonianza della co-evoluzione reciproca tra fotografo e modella: Norman crea immagini piene di poesia, Wenda regge benissimo la parte portando nella fotografia un po’ dell’arte recitativa che stava studiando.

Wenda eating spaghetti, Vogue 1949
Wenda eating spaghetti, Vogue 1949

Il rapporto tra i due si risolse in un matrimonio felice, ma non è inutile sottolineare che questa fu la stagione più di altre caratterizzata da una notevole crescita qualitativa che impose Norman Parkinson sulla scena internazionale, facendolo diventare un punto di riferimento per i giovani fotografi che ambivano a collaborare con le grandi riviste di moda.

Wenda fu una fotomodella di eccezionale bellezza. Quando lavorava con Norman sapeva essere di una eleganza mozzafiato, spiritosa, collaborativa. Wenda offrì agli scatti del fotografo qualcosa che ancora non avevano: quel senso di eternità, così ambito dalla moda ai tempi di C.Dior, che accompagnato da quella naturalezza maturata negli anni in cui Norman collaborava con Harper’s Bazaar, fanno pensare veramente al british glamour. Nella sua autobiografia, “Lifework” (1984), il fotografo scrisse: “(She)… offered to my camera a quiet beauty that not look so out of date…it is frozen. It is permanent and it does not age”.

Malgrado tutto il mio rispetto per la sontuosa teatralità di Cecil Beaton, io penso che grazie a Wenda, Parkinson abbia creato l’immagine più alta e convincente dell’eleganza della donna anglo-americana nel secondo dopoguerra.

Norman si innamorò di Wenda intorno al ’47. Le foto di quel periodo portano le tracce del gioco a due tra il fotografo e la modella/musa. Viste col senno di poi, le immagino come frammenti di un discorso amoroso privo delle zone d’ombra che normalmente finiscono con l’attraversarlo. Il concetto di Donna che Norman sviluppa, grazie al talento di Wenda rimane lontano dal romanticismo ingenuo e dall’eccesso di confidenza che il legame erotico spesso non riesce ad evitare. Anche quando Norman fotografa Wenda mentre mangia gli spaghetti, in una situazione insolita, oppure quando più avanti negli anni la riprende nuda, sdraiata sul letto mentre sta leggendo un libro, insieme all’intimità si percepisce sempre una reverenza ironica che marginalizza il desiderio. Ho sempre pensato che un bravo fotografo di moda dovesse per forza essere un po’ voyeur. Non so se può veramente esistere un voyerismo rispettoso, ma di certo Norman Parkinson è riuscito a trovare una misura al bisogno del fotografo di narrare un aldilà dell’oggetto moda che pur proiettato verso l’emersione di passioni, le imbriglia in una rete di significazioni che ne narcotizzano ogni aspetto estremo. Mi piace pensare che fu anche in virtù del talento della moglie se nel ’49, Lieberman, l’art director di Vogue America grazie al quale, a mio avviso, la prestigiosa testata ritornò veramente competitiva nel confronto con Harper’s Bazaar, lo volle a New York nella sua squadra di grandi fotografi. Insieme a Richard Rutledge, grande fotografo di moda oggi inspiegabilmente dimenticato, formavano una coppia di creativi di straordinario impatto. Norman Parkinson era bravissimo nel tradurre la disinvoltura e la naturalezza che aveva imparato a catturare nel campo visivo di una immagine, in messaggi di graziata eleganza, dando a queste qualità le sfumature glamour apprezzate dalle lettrici americane. Le foto di Rutledge avevano una accattivante impronta grafica e una valenza artistica degna di rivaleggiare con quella del grande Blumenfeld. Aldilà delle informazioni dettagliate sugli abiti, vera e propria ossessione delle redattrici di moda del periodo, incontrare le loro narrazioni visive su ogni numero di Vogue, doveva essere per le lettrici appassionate di moda una vera fonte di piacere.

Credo di poter aggiungere che, in qualche modo, Parkinson sia riuscito ad anticipare di poco Avedon e Penn, nella rappresentazione della Donna/modella intelligente, ironica, presente sulla scena insieme al fotografo, per configurare visual fashion frame (una recita di moda) molto più coinvolgenti rispetto alle significazioni delle immagini standard del passato. E chiaro che Avedon e Penn erano dei fantastici fotografi e seppero poi nel corso degli anni cinquanta imporre la loro accurata tecnica e il loro stile, più spettacolare e cinematografico, rispetto a quello di Parkinson.

Tuttavia il fotografo inglese fu uno dei pochi a non essere influenzato dalla travolgente notorietà di entrambi; e fu uno dei pochissimi a reggere il confronto con gli straordinari scatti che questi grandi interpreti della fotografia di moda pubblicarono sulle pagine di Harper’s Bazaar e Vogue America fino all’inizio degli anni sessanta.

Lamberto Cantoni
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8 Responses to "Norman Parkinson, a very british glamour"

  1. Roberto   1 Giugno 2015 at 17:51

    A differenza dei pittori i fotografi di moda sembrano più coinvolti con le loro modelle. Anche il grande Penn si sposò con una top model. Per non parlare di Bailey, gran castigatore di icone femminili. Ma i loro bellissimi scatti dipendevano veramente dall’intimità che avevano con le loro modelle preferite?

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    • Luciano   3 Giugno 2015 at 09:49

      Una foto di moda assomiglia molto ad ritratto. E per fare un buon ritratto bisogna cogliere l’essenza di una persona. Avere un rapporto intimo con il soggetto credo possa aiutare. In definitiva stiamo parlando di moda e quindi di giovinezza e bellezza. Non trovo difficile capire che un fotografo possa avere le sue muse e grazie ad esse lavorare a livelli emotivi diversi dall’ordinario.

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      • Ilaria   4 Giugno 2015 at 08:23

        Non credo che la bellezza di una foto dipenda dal rapporto sessuale tra fotografo e modella. Secondo me è solo un problema di potere. Modelle giovanissime sono facilmente suggestionabili e spesso chi lavora con loro ne approfitta. Ma cosa c’entra questo con ciò che ha scritto l’autore su Wanda e Parkinson? Io non ci ho trovato nulla di volgare.

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  2. Lamberto Cantoni
    Lamberto Cantoni   2 Giugno 2015 at 18:27

    Esiste una vasta annedotica che punta a stabilire una connessione tra attività creativa e pulsioni erotiche. Dalla Frine di Prassitele alla Maja vestida (e desnuda) di Goya, i biografi degli artisti, spesso, fanno discendere la particolare bellezza delle opere, dall’amore per le “modelle” che avrebbe guidato le loro pennellate. Gli esempi nella storia dell’arte non si contano. Nulla di strano se anche per i grandi interpreti della fotografia emergono qui e là le tracce di una lunga tradizione interpretativa.
    Non trovo nulla di strano nel fatto che un fotografo talentuoso, ansioso di catturare gli effetti di passioni ed emozioni, stabilisce con la modella un gioco a due via via sempre più vicino alla relazione erotica.
    Ciò che mi sento di negare è l’efficacia certa del passaggio all’atto. Io credo che una certa distanza vada sempre mantenuta. È dal lato della sublimazione che trovo lecito attendersi gli esiti più significativi. Ma, poniamo che le passioni di riferimento cambino radicalmente. Per esempio nel caso rappresentato dal fotografo catturato da una forma di bellezza estrema, trasgressiva…in questi casi riesce facile immaginare uno scivolamento verso un erotismo più accentuato e alla fine coinvolgente.
    Dagli anni sessanta in poi, non ci sono dubbi, sul fatto che la fotografia di moda abbia esplorato stati del desiderio che definiremmo erotici, perversi e persino pornografici. Questo significa forse che per fare una buona fotografia dovesse scattare tra fotografo e medella qualcosa che aveva a che fare con il sesso? Non lo credo. Una buona fotografia dipende da altre dimensioni. Ma ho il sospetto che il senso comune la pensi diversamente.
    Non per caso, dal romanticismo in poi dissolutezza e libertà sessuale divennero tra la gente sinonimi di artista. Se leggete le riviste più stupide (dalla tiratura immensa) è facile rendersi conto che il tratto romantico citato sia divenuto un topos nella descrizione della vita di protagonisti creativi.

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  3. Michela   9 Giugno 2015 at 21:02

    Nulla da dire sull’art. ma i commenti sono sessisti. È’ da trogloditi pensare che ci sia bisogno del sesso per fare una fotografia di moda provocante. A me sembrano penose considerazioni provinciali. Se veramente tra fotografo e modella dovesse nascere una storia, sono fatti loro. Sul set entra in gioco la professionalità di entrambi. E penso che tutto dipenda dall’interpretazione del tema prescelto. Per me Parkinson avrebbe fatto le sue foto con qualsiasi modella perché era bravo e aveva una gran tecnica.

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  4. Massimo   15 Giugno 2015 at 10:47

    Non posso negarti cara Michela, che l’eccitazione attraverso la modella costruisca di per se la ricerca di quel momento decisivo nel quale la fotografia di riempe di contenuti emozionali. Ed è proprio l’eccitazione che ti porta alla ricerca di quel dettaglio e di quel l’atmosfera che altrimenti rimarrebbe vuota di passione.

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    • Luci   15 Giugno 2015 at 19:50

      Massimo sei in masturbone e non un appassionato di fotografia. E tantomeno un fotografo. Io ho fatto la modella e nessuno mi ha mai mancato di rispetto. Il tuo patetico tentativo di giustificare gli altri cinghialoli non convince nessuno. La fotografia, quella vera, è tecnica, ricerca formale, estetica.

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      • Massimo   16 Giugno 2015 at 09:45

        Cara Luci, una buona foto non si fa solo con la tecnica ma ci vuole dell’altro. Come anche l’arte. Quando comincerai a fare foto capirai.
        Trovo il tuo politicamente corretto povero di buon senso.

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