MILANO – Con una grande mostra a Palazzo Reale (MI) aperta fino al 6 maggio, la Camera della moda Italiana ha rinnovato il mito della moda italiana e la centralità della Milano Fashion Week.
Palazzo Reale in Piazza Duomo a Milano è una delle sedi espositive più prestigiose del nostro Paese. La mostra di abiti, inaugurata a febbraio durante le sfilate della fashion week milanese con la dichiarata missione di riattivare il mito della moda italiana come modello di riferimento per il segmento di mercato più redditizio cioè il pret à porter, non poteva ambire ad avere una location più favorevole.
Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, i due curatori, hanno scelto per essa un titolo suggestivo: Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001. In questa forma enunciativa il progetto prende le distanze dallo scontato e abusato riferimento al Made in Italy, lasciando subito trasparire l’intenzione dei curatori di spingere il pubblico a confrontarsi con un percorso narrativo rigoroso quanto audace. Infatti, la data ante quem scelta dai curatori che avrebbe la funzione di focalizzare un possibile inizio dell’attivazione della fase più prestigiosa della storia della moda italiana è il 1971 ovvero il giorno di una lontana ma non dimenticata sfilata di Walter Albini, stilista oggi forse poco conosciuto dal vasto pubblico, quanto, per contro, molto rispettato dagli storici della moda. Di passaggio ricordo al lettore che i due citati curatori nel 2010, dedicarono un evento espositivo allo stilista considerato l’antesignano del nostro pret a porter, intitolata Walter Albini e il suo tempo. L’immaginazione al potere (mostra organizzata nel 2010 per Pitti Immagine Uomo 77 a Firenze; catalogo edito da Marsilio). Probabilmente sulla scorta delle ricerche intraprese per l’evento fiorentino i due curatori hanno riproposto per Italiana la centralità dell’estroso stilista (suo il primo abito che ho visto in mostra), fornendo ad essa un condiviso inizio mitico della complessa catena di eventi che in un decennio portò il nostro sistema moda a primeggiare nel mondo. Infatti, nel ‘71 Walter Albini, prima come solista, più tardi insieme ad alcuni colleghi come Ken Scott, Krizia e Missoni decise di presentare le sue collezioni non più a Pitti ma a Milano. Questa decisione era il frutto di un ragionamento strategico che sintetizzo in questi termini: una collezione di pret a porter deve valorizzare al massimo l’integrazione tra industria tessile e designer; di conseguenza deve essere presentata in modo completo (a Pitti il regolamento voleva che ogni stilista esibisse un numero predeterminato e limitato di modelli); con una collezione un creativo non si limita a presentare nuovi abiti bensì propone uno stile di vita cioè un modo di essere nel quale non vi è più differenza tra il look e i significati emozionali ai quali, comprando un abito, il pubblico della moda aderisce; la sfilata dunque non può rimanere un rituale burocratizzato per addetti ai lavori ma deve raccontare le mutevoli storie evocate dagli abiti creati da uno stilista nel suo tentativo di raccogliere la sfida di un inesauribile desiderio di sentirsi giusti e performanti nelle piccole guerre estetiche che coinvolgono la pellicola più fragile quindi preziosa dell’identità; per usare la parola magica che Walter Albini contribuirà a diffondere, la creazione e la presentazione di nuovi abiti deve correlarli alle “tattiche d’immagine” che li trasformano in potenti segni della contemporaneità.
Quindi cosa successe concretamente nella primavera del ‘71, promossa da Frisa /Tonchi a fatale innesco del pret a porter italiano? Walter Albini riunì al Circolo del Giardino di Milano in un unico evento la presentazione degli oggetti moda di diverso tipo logico, abiti, camicie, scarpe, accessori che aveva disegnato per cinque case di moda con le quali collaborava. La sfilata della collezione “Unitaria” per FTM ispirata agli anni trenta (Chanel e la moda tra gli anni venti e i trenta del novecento rappresentava il concetto di eleganza che fungeva da leva creativa per l’immaginazione di Albini) enfatizzava il total look e il ruolo dello stilista come art director di un processo che coinvolgeva gli attori fondamentali di ciò che verrà poi definita la filiera della moda. È chiaro che a quell’epoca pre-internet e caratterizzata da un marketing intuitivo/spontaneo, Milano aveva un ruolo geopolitico molto più efficace di una Firenze disturbata tra l’altro da estenuanti polemiche. Walter Albini, forse, non fu certamente il solo a percepire il bisogno di dare alla moda italiana un nuovo centro simbolico. Ma senz’altro si rivelò il più determinato a compiere i passi che nell’arco di pochi anni permisero alla capitale lombarda di trasformare il pret à porter italiano in un fenomeno culturale, commerciale e di costume di valenza internazionale.
Maria Pezzi, insuperabile cronachista della moda dal secondo dopoguerra agli anni novanta, a Guido Vergani raccontò quel periodo con queste parole:”Mentirei se affermassi di avere capito subito la portata di Milano come motore e capitale del pret-à-porter. Avevo coscienza della nostra vera forza: la bellezza dei tessuti, la qualità delle industrie di confezioni, con Maramotti e i Rivetti alla testa. Ma non mi aspettavo che potesse innescare un fenomeno così dirompente. Qualche avvisaglia me la diede il <caso Ken Scott>. Americano di Fort Wayne nell’Indiana, già noto come artista a Parigi e negli States, aveva preso casa e bottega a Milano. Una scelta singolare. Ma Ken spiegava: <Qui attorno c’è tutto: fabbriche di alte tradizioni nella tessitura, negli accessori, grandi industrie nell’abbigliamentom i migliori setaioli del mondo. Qui c’è un modo di lavorare intenso e quasi artigianale nella perfezione>. Un’altra avvisaglia mi venne nel 1972, dalla parata di cinque collezioni di moda pronta, tutte disegnate da Walter Albini, un genio sfortunato e incapace di praticità, di amministrarsi: Basile, Misterfox, Sportfox, Callaghan, Escargot. L’aveva voluta, al Vircolo del Giardino, Aldo Ferrante, un ex rappresentante diventato manager di fiuto nel puntare sulle potenzialità del pret-à-porter.
Per ritornare alla mostra milanese, ricordo che nella conferenza stampa del 21-02-2018 il Presidente della CNMI Carlo Capasa, con parole precise e determinate, aveva presentato la mostra “ITALIANA. L’Italia vista dalla moda, 1971-2001”, non solo come un evento celebrativo dei sessant’anni della massima istituzione della moda del nostro Paese, bensì come il necessario rinnovamento di una delle narrazioni più importanti per il sistema moda italiano.
I lettori curiosi e informati sui fatti di moda, certamente sono a conoscenza dei ripetuti attacchi che la Fashion week milanese ha ricevuto soprattutto tra il 2007 e il 2012, da parte della stampa internazionale. In anni resi difficili dal sommarsi degli ostacoli della globalizzazione e dalla crisi finanziaria dei mercati dopo il crollo del sistema bancario americano, fu soprattutto il giornalismo anglosassone a distinguersi per reiterati tentativi di delegittimazione del prestigio che Milano e il pret à porter italiano aveva accumulato negli anni nei quali la nostra filiera della moda aveva conquistato posizioni di assoluto privilegio nel mondo. Forse esagero un po’, ma dalle cronache sembrava configurarsi un asse New York/Londra contrapposto al dominio storico di Parigi (soprattutto nell’Alta Moda) e alla più recente centralità di Milano per il pret à porter.
Comunque, soprattutto dopo il 2008 per il Made in Italy e per Milano furono anni difficili. Ma forse il nemico più insidioso l’avevamo in casa ed era rappresentato dalla noncuranza delle nostre istituzioni, sino a ieri culturalmente sprovvedute nel capire l’importanza dell’impatto della moda sull’economia e sulle interazioni sociali delle forme di vita attraversate dalle ondate della moda. Mi riferisco ovviamente a politici, amministratori, baroni universitari che non hanno mai permesso alla moda italiana di attrezzarsi per rinforzare le ammirevoli fondamenta dell’edificio creato da più di una generazione di imprenditori e creativi, causando deficit fastidiosi per le nuove generazioni costrette a competere con soggetti formatisi in contesti nei quali la moda godeva di ben altre attenzioni (e finanziamenti).
Chiedo scusa al lettore per la divagazione che ho ritenuto necessario sviluppare per fargli capire la doppia funzione della mostra milanese: a. raccontare come grazie alle sfilate milanesi il nostro pret a porter sia divenuto una delle migliori testimonianze del saper fare del nostro Paese; b. diffondere la conoscenza, il valore e l’orgoglio di appartenere a un contesto creativo che il mondo ci invidia, a tutti gli italiani con un particolare riguardo per le giovani generazioni.
Per configurare la nuova narrazione di Milano capitale della moda, la CDMI si è affidata ai migliori curator di mostre di moda in circolazione nel nostro Paese, autori in passato di momenti espositivi di insolita valenza culturale.
Infatti, Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, i curator scelti da Capasa, si erano già rivelati al pubblico più esigente con progetti espositivi estremamente complessi tra i quali ricordo personalmente la mostra Excess, moda e underground negli anni ‘80, creata e organizzata per Pitti Immagine Discovery nella Stazione Leopolda di Firenze nel 2004. A mia memoria nessuno fino a quel momento in Italia era riuscito a raccontare con un eterogeneo insieme di oggetti un’intero decennio di storia del gusto con una simile efficacia polisemia cognitiva. Se avete dei dubbi andate in libreria e cercate il catalogo della mostra pubblicato per i tipi di Charta, ancora oggi un utilissimo strumento di conoscenza per la moda di quel decennio.
La seconda mostra da ricordare è senz’altro Bellissima. L’Italia dell’Alta Moda 1945-1968, un evento creato per il Maxxi di Roma, il cui concept assomiglia molto alla mostra milanese in questione. A questo punto segnalo anche un’altra mostra che mi ha permesso di apprezzare la visione curatoriale di Maria Luisa Frisia, questa volta orfana di Stefano Tonchi, ma in compagnia di Judith Clark, autrice di mostre memorabili. Mi riferisco a Diana Vreeland after Diana Vreeland, vista a Venezia nel 2012, nell’indimenticabile location di Palazzo Fortuny. La celebre direttrice di Vogue America, nei ‘70 del novecento inventò e allestì le mostre su temi e personaggi della moda con un taglio estremamente creativo, al punto da trasformarle in eventi culturali di straordinario impatto e successo. Da quei giorni, diversamente da prima, i couturier più famosi e le tematizzazioni più strambe furono accettate dai più grandi musei al mondo. Con la mostra sulla Vreeland, aldilà della evidente rivisitazione di una delle icone della moda, Maria Luisa Frisa proponeva anche una riflessione sulle responsabilità del curatore di un evento culturale, invitandoci a pensarlo alla stregua di un autore.
A mio avviso la mostra al Maxxi sull’Alta Moda del 2017 e la recente esposizione milanese dedicata al Pret a porter italiano, sono la sintesi delle idee maturate dalla studiosa riguardo la forma di conoscenza rappresentata da un evento espositivo.
Quali potrebbero essere le idee guida alle quali Maria Luisa Frisa, sembra alludere con il suo modus operandi?
- In primo luogo ci costringe a fare i conti con la natura non indifferente del gesto curatoriale: scegliendo sulla base di un progetto narrativo gli oggetti da esporre, creando tra essi contiguità o distanze, inserendoli in uno spazio significante, il curatore prende posizione cioè accetta di scegliere un punto di vista particolare che fatalmente accredita un fascio di significati piuttosto che altri. Si dissolve quindi il mito dell’oggettività e dello scientismo applicato alle mostre, e al suo posto emergono ipotesi di ricerca narrative autorizzate dalla scelte dei curatori.
- Nelle mostre di Maria Luisa Frisa mi è parso di riconoscere una deliberata critica della “spettacolarità” dilagante, a favore di una svolta verso l’artistico. In altre parole le sue mostre, dal punto di vista olistico, sembrano grandi istallazioni che mirano a un bilanciamento tra l’emozionale e il cognitivo.
- La narrazione ottenuta attraverso una teoria di oggetti-moda presentati svuotandoli dagli eccessi decorativi, manifesta una intenzionalità didattica che ha come punto di irradiazione significante l’oggetto-moda inteso come forma visiva.
- Ho la sensazione che per Maria Luisa Frisa quando acquistiamo un abito oltre una scelta estetica compiamo un gesto politico ( cioè scegliamo un codice, ci adeguiamo o contrastiamo dei valori). Quindi dal suo punto di vista, a maggior ragione si può dire che anche chi crea abiti partecipa ai conflitti tra valori contrastanti ai quali possiamo attribuire una valenza politica. Da ciò discende che un intervento curatoriale su di un tema come il pret a porter italiano, oggi, non può evitare di porsi il problema di decidere con chi stare ovvero suggerire una partecipazione militante che ha come scopo la riattivizzazione di ciò che potremmo definire orgoglio italiano per la nostra moda e per Milano che ha contribuito a internazionalizzarla. Sembra inoltre che il suo punto di vista sia orientato ad osservare quanto la moda, non sempre e non tutta ovviamente, cambi i valori relazionali del sociale piuttosto che il contrario. Ma per farlo, i creativi devono in qualche modo prendere posizione sui temi scottanti che attraversano la nostra forma di vita. Probabilmente la seriosità, il rigore e l’arbitrarietà del gesto curatoriale che Maria Luisa Frisa a mio avviso ha imbricato nella mostra milanese, hanno nel fondo etico che ho brevemente evocato la loro ragion d’essere.
Una mostra innovativa e coraggiosa
Le quattro idee guida elencate sono facilmente recuperabili visitando la mostra con un attenzione particolare all’organizzazione dello spazio e al layout degli abiti.
Nelle nove stanze di Palazzo Reale utilizzate, i curatori hanno creato delle isole tematiche di oggetti eterogenei (fotografie, design, arte, editoria, ma soprattutto abiti) che ci restituiscono la molteplicità delle esperienze creative dei protagonisti della moda italiana e le contaminazioni con il mondo dell’arte. Come ho già detto, le scelte degli abiti esposti possono certo apparire arbitrarie, ma se comprendiamo che l’intenzione di Frisia/Tonchi non era orientata primariamente a mostrarci tanto la bellezza dei manufatti esposti bensì a farci riflettere sulla consistenza e l’efficacia di un collettivo di creativi impegnati a rispondere a una domanda di cambiamento estetico e di stile che dall’inizio degli ottanta ha animato i mercati, allora, comprendiamo sia la fatuità di critiche centrate su questioni legate alle scelte degli oggetti-moda e sia sulle parole chiave (i temi) utilizzate per dare il senso di un racconto di trent’anni di moda. Le categorie proposte per il restyling del mito della moda italiana sono: identità, democrazia, in forma di logo, diorama, project room, bazar, postproduzione, glocal. Se riflettete sui primi due temi elencati, comprenderete meglio la visione militante che i curatori hanno cercato di diffondere. La moda italiana forse non è stata la più bella in assoluto, e nemmeno quella più all’avanguardia. Ma è stata protagonista primaria nella riconfigurazione delle identità della gente per la sua apertura a valori condivisibili e per il suo essere fondamentalmente democratica (per tutti). Questo sembra essere l’aspetto centrale della nuova narrazione che dovrebbe dare fiato a un Made in Italy in stato confusionario, sempre più dominato dalla mercificazione senza contenuti valoriali. Non so dirvi se in questo contesto la parola democrazia abbia senso. Anche il tema dell’identità a me sembra superato ( è l’identificazione a essersi imposta dalla postmodenità). Tuttavia ho apprezzato le scelte dei curatori nel cercare percorsi di senso innovativi per ritornare a discutere sulla moda a noi più vicina.
La messa in testo della mostra secondo categorie tematiche, inoltre, ha consentito ai curatori un approccio al tempo moda anticronologico, suggerendo narrazioni polisemiche che ci restituiscono una visione della moda italiana forse meno ordinata ma senz’altro più conforme all’idea complessa di società postmoderna configuratesi proprio nell’arco di temporale prescelto.
Devo dire che ho apprezzato la scelta di evitare fastidiosi storicismi basati sui fin troppo abusati decenni (‘70;’80;’90..è così via) e anche i numerosi anacronismi che hanno punteggiato le isole tematiche (abiti dei ‘70 nello stessa stanza che contiene capi degli anni ‘90). L’anacronismo in questo caso spezza la concezione di una moda lineare proiettata solo verso il futuro, creando dei vortici semantici nei quali possono convivere la ricerca dell’armoniosità con l’avanguardia, il buon gusto con la provocazione, l’eccesso barocco con le geometrie classiche, tracce di tribalismo con forme che esaltano la serialità (l’industria). Ma forse, a mio avviso, la stanza che ho trovato più intelligente è quella dedicata alla rappresentazione di una sorta di guardaroba, ovvero la dimensione della moda più vicina alla vita delle persone e paradossalmente la meno studiata dagli esperti del settore (vedi fig.3).
Lo spazio della mostra, volutamente senza particolari decorazioni, mi ha dato l’impressione di accentuare la percezione di stare osservando singolarità collettive, ovvero di essere veramente di fronte a enunciazioni inerenti un sistema moda (italiano, ovviamente).
Probabilmente è solo una illusione, ma sono convinto che uno degli obiettivi dei curatori fosse proprio la costruzione di una sintesi percettiva che facesse affiorare qualcosa che potremmo definire lo stile italiano. Quindi sorge spontanea la domanda: come appare la forma moda del nostro Paese secondo la narrazione implicita nella scelta di abiti, oggetti culturali fatte dai curatori? Ricordo al lettore che stiamo parlando del pret a porter cioè di abiti creati, passatemi l’espressione, per vestire il mondo (e non pochi privilegiati). Per farla breve, basandomi esclusivamente su ciò che ho potuto vedere, mi ha colpito la vastità di proposte creative che hanno contribuito a disseminare la moda italiana nel mondo. È chiaro che in termini di eccellenza, osservando ciascun singolo look, al netto delle preferenze soggettive, ci sono creativi che convincono più di altri. Ma sono stato attraversato da un fremito di orgoglio nel verificare quanto in realtà tutti i 135 look esibiti, siano attraversati da una ideale struttura che li connette definibile se volete con il concetto di qualità. Forse la nostra moda non è stata sempre la più di tendenza o l’avanguardia amata dal giornalismo radicale. Ma non credo ci sia stato nel mondo, nel periodo compreso nell’arco di tempo scelto dai curatori, un sistema moda evoluto come il nostro capace di dialogare con un pubblico vasto quanto il pianeta, trasmettendogli l’amore per la bellezza ma anche interpretandone gli scollamenti interiori che fanno vacillare l’identità senza i salti o le trasgressioni che hanno esplorato stilisti come Margiela, Kawakubo, Yamamoto, Westwood….utili a fughe nell’immaginario delle mode possibili, ma che risultano poco efficaci per l’elaborazione delle apparenze attraverso le quali ci illudiamo di vivere meglio la nostra identità in progress.
Non so dirvi se la mostra ha avuto il successo sperato. La scelta dei curatori di evitare pirotecniche spettacolarità forse agli occhi di molti potrà sembrare eccessivamente didattica. Anche la scelta di puntare su un concetto collettivo a scapito delle grandi individualità può aver lasciato perplessi molti addetti ai lavori. In definitiva non sono ben sicuro che esista la moda, mentre al contrario sono certo che esistono gli stilisti, le loro creazioni e le conseguenze intenzionali e ininintenzionali che ne discendono. Voglio dire che l’esistenza di una moda italiana autonoma non è affatto scontata come lo è la testimonianza delle singolarità creative che hanno plasmato il nostro guardaroba.
Tuttavia non possiamo sottovalutare l’importanza delle narrazioni. Il nostro sistema produttivo dell’abbigliamento mitizzato con il Made in Italy ha bisogno di manutenzione e di un buon restauro. A tal riguardo la mostra in oggetto potrebbe veramente funzionare come un primo passo per non dissipare ciò che una grande generazione di creativi e industriali hanno costruito.
Addenda
La mostra milanese è arricchita da un indispensabile catalogo che, grazie al contributo di alcuni tra gli studiosi della moda più accreditati, affronta in modo polifonico e da numerosi punti di vista, origini e sviluppo e protagonisti della crescita del pret a porter italiano. Ho trovato molto utile la ricerca iconografica che ha corroborato gli argomenti degli autori. Anche la ricca rassegna antologica di articoli a tema pubblicati tra il 1971 e il 2001, si riveleranno preziosi per chi voglia approfondire la conoscenza del momento storico che ha visto emergere definitivamente la figura dello stilista come interprete e suggeritore di stili di vita.
il catalogo ovviamente porta il nome della mostra, Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001
Editore Skira, 410 pagine, Euro 55.
Italiana
- Walter Albini: Il talento, la creatività, lo stile – 9 Settembre 2024
- Gli abiti sostenibili vestiranno il mondo? – 20 Maggio 2024
- Roberto Cavalli (1940-2024): La stravaganza al potere – 17 Aprile 2024
Potevate pubblicarlo prima. A me la mostra non aveva fatto una grande impressione. L’ho trovata un po’ freddina. Letto l’articolo ci ho ripensato. Dovevo guardarla con più attenzione. Speriamo la ripetano in un’altra sede.
Un sano orgoglio nazionale lo trovo positivo. A volte siamo di un provincialismo irritante. Tutto ciò che viene da Londra, Parigi, Anversa è di tendenza e quello che fanno Armani e i nostri altri stilisti è mercificazione o creatività polverosa. Ma perché ci riesce così difficile difendere la nostra creatività?
Non ho visto la mostra ma mi dispiace. Spero anch’io in un’altra sede.
Premetto che non ho potuto vedere la mostra. Aggiungo anche che l’articolo mi ha convinto che ho peccato di pigrizia. Sono d’accordo con i curatori. Non posso sapere se gli abiti erano veramente rappresentativi, ma lo loro filosofia mi piace. Cercherò il catalogo.
Se quanto ho letto corrisponde al vero allora la mostra è veramente importante. Mi associo a chi scrive sperando in una seconda sede. Anche se per me dovrebbe circolare all’estero come biglietto da visita per i nostri marchi. Io non credo che gli italiani siano dei provinciali. Se la nostra moda è forte lo si deve anche ai nostri consumatori. Il problema di oggi è la crisi che non permette di comprare molti abiti.
Qualche anno fa ho visto a Londra una mostra sulla moda italiana. Ho l’impressione che la raccontasse in modo molto diverso da quello che ho visto a Milano. Sarà il fascino di quella città ma a me sembrava fatta meglio di quella di Milano. Vorrei conoscere l’opinione dell’autore sempre che la conosca. Secondo me c’era una scelta di abiti molto belli. Anche le origini della nostra moda mi apparivano raccontate meglio. Però l’articolo mi ha fatto venire dei dubbi.
Penso che Vincenza si riferisca alla mostra che organizzò il Victoria & Albert Museum nel 2014, intitolata “Glamour of Italian Fashion Since 1945-2014”. Tutte le mostre del Victoria sono rilevanti. Tuttavia la mia impressione è che quella mostra non dicesse nulla di nuovo.
Al contrario la mostra di Milano rappresenta il tentativo meglio riuscito di raccontare la specificità della forma moda italiana, legata fortemente al pret à porter. Con questo non voglio negare l’importanza della Sala Bianca, di Giorgini, di Roma, Cinecittà, le sorelle Fontana e così via… personalmente ho trovato più convincente, per quanto riguarda l’Alta Moda italiana, la mostra “Bellissima” (Roma, 2015). Credo che il punto sia questo: quando la moda italiana ha cominciato a interpretare da protagonista le oscillazioni identitarie della gente? Chi, quando, perché, come i nostri stilisti hanno dato una risposta al desiderio di cambiamento di un pubblico divenuto subito globale? Uno dei meriti della mostra milanese è di aver evitato l’effetto elenco del telefono di belle e lussuose forme per proporre una inedita coerente narrazione che presupponeva la domanda: come gli stilisti hanno interpretato la postmodernitá e i suoi problemi? Comunque potremmo metterla giù così… per i curiosi e innamorati del lusso la mostra al Victoria ha funzionato benissimo. La mostra di Milano, invece, è più impegnativa intellettualmente e focalizza un problema da non sottovalutare. Ovvero narrazioni come The Glamour of Italian Fashion ripropongono un mito del Made in Italy a mio avviso un po’ consumato. Abbiamo bisogno di rinnovarlo. La mostra “Italiana” alla luce di questo obiettivo la considero un eccellente lavoro di manutenzione simbolica.