Intervista al Reporter cine-televisivo Alessandro D’Alessandro

Intervista al Reporter cine-televisivo Alessandro D’Alessandro

ITALIA – Intervista al Reporter cine-televisivo Alessandro D’Alessandro ripercorrendo la sua  originale storia famigliare e professionale. A lui abbiamo chiesto consigli e visioni future da condividere con chi ha la passione del cinema o vuole intraprendere una carriera artistica, dalla fotografia in poi.

Alessandro, ci racconti le tappe fondamentali della tua carriera e della tua vita? A che età vi siete trasferiti in Italia e perché? 

Ho avuto la fortuna, da giovanissimo, di viaggiare e coltivare per lunghi anni la mia passione per la fotografia in bianco e nero, mirata soprattutto al reportage di viaggio. Così sono tornato negli Stati Uniti, a St. Paul nel Minnesota, dove sono nato, anche per frequentare l’università, all’inizio degli anni ‘80. Durante l’infanzia ho trascorso periodi felici nella casa americana dei miei nonni materni, originari di un piccolo paese in provincia dell’Aquila. All’Università del Minnesota ho frequentato corsi su Giornalismo e Comunicazioni di Massa e Storia del Cinema. Poi, a causa della chiamata al servizio militare, sono rientrato a Roma e ho cominciato a collaborare con alcuni programmi culturali e di storia per la Rai. Ho continuato a viaggiare e a lavorare anche negli anni successivi, sia come inviato che come regista e filmaker. Un impegno che quasi sempre richiedeva di scrivere testi e sceneggiature. Così ai diversi format per la tv, ho alternato lungometraggi di film documentari di creazione, soprattutto inchieste e serie sul patrimonio storico-artistico.

Sei un figlio d’arte. Ci racconti chi erano i tuoi genitori e come hai vissuto l’infanzia? E, soprattutto, quanto questo sia stato decisivo per la tua professione.

Mia madre, Maria Andreassi, è stata una cantante lirica, compositrice e pianista. Si è trasferita negli Stati Uniti a St. Paul nel Minnesota dall’Abruzzo, quando era solo una bambina. Grazie ai sacrifici e alle intuizioni dei genitori è stata avviata agli studi presso il Conservatorio di St. Paul. E’ stata una vera bambina prodigio. A 16 anni si esibiva in diverse trasmissioni radiofoniche ricevendo consensi e incoraggiamenti e vincendo svariati concorsi regionali. Poi ha compiuto il grande salto, andando a New York dove è stata scritturata dal compositore Giancarlo Menotti nell’opera The Consul, in scena per intere settimane al Metropolitan. Il suo ritorno in Italia l’ha portata a cantare nei più grandi teatri, da Roma a Milano, da Venezia a Firenze e Napoli. A Roma ha incontrato mio padre, Angelo D’Alessandro, all’epoca giovane regista aiuto di Federico Fellini, negli anni d’oro del cinema italiano. Titolare della cattedra di Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma per diversi anni,  realizzò alcuni film e sceneggiati per la televisione. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove interesse per l’arte e la creatività è stato sempre vissuto come uno stile di vita ricco di interessi, a prescindere dal consenso del pubblico e dal mercato.

Quindi l’espressione artistica come risorsa per cogliere le occasioni della vita…

Si infatti, l’espressione artistica e stata sempre una risorsa per cogliere le occasioni della vita, fatta di incontri casuali e imperfezioni, gioie e dolori, ma sempre tesa ad una autenticità di fondo. Di mio padre ricordo la sua capacità di lavorare come autore di programmi molto diversi tra loro: dalla matematica, ai grandi protagonisti della storia, agli sceneggiati tratti dai celebri romanzi della letteratura, come quello su Jack London L’Avventura del Grande Nord, con Orso Maria Guerrini e Andrea Checchi, a cui ho preso parte anche come attore all’età di dieci anni. Un’occasione per respirare l’aria del set fin da giovanissimo! Dai miei genitori credo di aver appreso e affinato la sensibilità per le storie, per l’inchiesta,  la capacità di mettersi in attesa, in ascolto degli altri. Ecco perché quando a 16 anni ho avuto in mano la mia prima macchina fotografica, essa è diventata un mezzo inseparabile per capire, scegliere un punto di vista e raccontare la realtà.

Ti sei Diplomato come Fotografo e Reporter cine-televisivo presso l’Istituto di Stato per il Cinema e la Tv Roberto Rossellini a Roma. E’ un fiore all’occhiello della formazione pubblica per quanto riguarda la cinematografia. Cosa ricordi di quegli anni? Avevi compagni di scuola che poi hanno proseguito la carriera con te o come te? 

La mia avventura di studente liceale è stata piuttosto movimentata e anomala. Infatti, pur avendo studiato al Liceo Classico latino e greco fino al quarto anno, avendo nel frattempo scoperto la fotografia, ho avuto la fortuna e l’opportunità di diplomarmi come privatista all’Istituto Rossellini, uno dei pochi che consentiva di ottenere un diploma valido per iscriversi poi all’Università. Quindi non ho frequentato per tutti gli anni l’Istituto, anche se ho spesso incontrato, successivamente, molti ragazzi diplomati al Cine e TV Rossellini, soprattutto montatori e operatori, tutti molto preparati.
 
Che rapporto hai con la formazione? Insegni o hai mai insegnato?

Per un biennio ho avuto la possibilità di insegnare presso il CISOP, Centro Internazionale Studi Opinione Pubblica, presso l’Università Pontificia Angelicum. Ho tenuto un corso di Fotografia sia teorico che pratico. E’ stato utile per capire le mie capacità come docente. E’ stata un esperienza che adesso mi piacerebbe ripetere, soprattutto perché oggi la fotografia è molto cambiata nel senso della consapevolezza e del  modo in cui utilizziamo e creiamo una quantità enorme di immagini. Lo scatto fotografico per me è stato sempre vissuto come un momento di sintesi, di sofferenza e di tempi  lunghi, e mi riferisco proprio al singolo scatto da isolare, perché miracolosamente carico di senso. Oggi ancor più, visto che la tecnologia digitale apre a possibilità impensabili un tempo, ma forse rischia di farci smarrire lo scopo più profondo del nostro sguardo sul mondo e sulle persone.

Dopo anni in cui ha prevalso l’uso della macchina da presa anche per motivi lavorativi, sono tornato a fotografare, accettando le sollecitazioni e le potenzialità del digitale. Nei primi anni ‘80, lavorare in pellicola significava realizzare pochissimi scatti, appostarsi magari per ore, intuire una situazione ed essere pronto a coglierla. Oggi, con l’avvento del digitale, c’è effettivamente il rischio di una sovraesposizione di immagini, il pericolo di fotografare ancor prima di essere dentro la realtà, di capire in che relazione siamo con essa e cosa ci sta indicando.

Regista, fotografo, autore, sceneggiatore e documentarista. Nella tua carriera nel mondo del cinema e della televisione non ti sei mai fermato. Qual è la branca del cinema a cui ti senti più vicino e perché?

Il cinema è stato un approdo piuttosto recente e casuale, pur avendolo a lungo studiato e respirato in famiglia. A vent’anni facevo l’apprendista come aiuto operatore a Cinecittà, ma nel frattempo studiavo come attore in una scuola di teatro. Ho cominciato ha realizzare alcuni book fotografici per i miei colleghi aspiranti attori, specializzandomi in scatti fuori dal set fotografico, in luoghi veri e usando il teleobiettivo con il risultato di ottenere delle istantanee che sembravano già suggerire personaggi veri. Ma la passione per la scrittura ha camminato sempre insieme alla fotografia, anche se in modo più intimo e nascosto. E’ stato per me abbastanza naturale passare alla macchina da presa, utilizzata come strumento di indagine per inchieste su temi religiosi, sociali e di impegno civile. Ho quindi sempre avuto una predilezione per il cinema di Peter Watkins, uno dei pionieri del cosiddetto docudrammae anche del free cinema. E poi Kieslovski con il suo modo unico e antiretorico di proporre tracce e indizi da decifrare per far emergere la cruda verità, dando voce alla gente comune.

Il tuo è un cinema d’autore e molto legato anche al sociale. Ricordiamo a tal proposito La lezione di Don Milani. Qual’è la mission dei tuoi obiettivi cinematografici?

Questo film realizzato con Cinecittà Luce e Felix Film è stata un avventura umana e professionale molto coinvolgente, che mi ha portato, dopo la scomparsa di mio padre nel 2010, al ritrovamento prima delle bobine audio e poi del girato originale, da lui realizzato nel dicembre 1965 a Barbiana.
Il recupero integrale di questo materiale, protagonisti don Lorenzo Milani e i suoi allievi, è diventato l’occasione per far riemergere con forza l’attualità del messaggio del Priore e ricordare a tutti la sua grande lezione. Mio padre fu l’unico a cui Don Milani concesse di effettuare delle riprese della vita nella sua scuola, per lasciare un documento ai suoi ragazzi. Era salito a Barbiana per un’inchiesta sull’obiezione di coscienza a cui si era aggiunta la voce di don Lorenzo. Il filmato originale dell’epoca mostra alcuni momenti e aspetti fondamentali della Scuola di Barbiana: la scrittura collettiva, la lettura dei giornali, i ragazzi più grandi che insegnano a quelli più piccoli. Ma c’è anche il lavoro manuale svolto dai ragazzi (o la loro partecipazione alla Messa, in cui vediamo Don Milani sull’altare celebrare ma solo “per finta”, per la macchina da presa, dopo una scelta consapevole e condivisa con il regista). Intorno a queste immagini del 1965 ho sviluppato il racconto con le testimonianze di Adele Corradi, l’insegnante che ha vissuto l’esperienza di Barbiana con don Lorenzo, di Beniamino Deidda, ex Procuratore Generale di Firenze, che dopo la morte di don Lorenzo ha continuato a insegnare nella scuola di Barbiana, e Don Luigi Ciotti. Scuola, Costituzione e Vangelo sono i tre pilastri su cui si sviluppa il pensiero milaniano, che trova il suo culmine nella lettura che don Lorenzo fa davanti alla macchina da presa della sua Lettera ai Giudici, il testo scritto per difendersi dalle accuse di Apologia di reato nel processo che lo attende a Roma. Il filmato restituisce dunque con grande forza la voce e l’immagine di un uomo che, oggi più che mai, ripropone con evidenza il tema della coscienza e dell’obbedienza, della giustizia e della solidarietà, e della scuola che deve permettere a tutti di diventare sovrani di sé stessi.
L’esperienza fatta con questo piccolo film Barbiana65, La lezione di Don Milani, proiettato alla 74^ mostra del Cinema di Venezia, nel 2017, mi ha sollecitato a lavorare su altri progetti, sui temi della Scuola, della Giustizia e della Pace.

barbiana65

 
Qual è stato il punto più alto della tua carriera?

Direi che molto ho ancora da imparare e mi piacerebbe sperimentare e mettere alla prova il mio punto di vista in autonomia e rigore e questo, purtroppo, non sempre è possibile. Mi piace pensare che il punto più alto della mia carriera finora abbia coinciso con qualcosa che è fuori dall’inquadratura, qualcosa che appartiene alla vita vera, che è molto più rilevante di un film o una fotografia…
 
Al momento a cosa stai lavorando e quali sono i tuoi progetti futuri?

Sto lavorando ad un progetto cui tengo molto: un film documentario girato all’interno di un carcere di massima sicurezza. Quello della giustizia è un tema che mi appassiona, perché credo che oggi più che mai, da credenti o no, l’importante sia fare la cosa giusta, scegliendoda che parte stare.

Infine, cosa consigli a un giovane che vuole intraprendere il tuo percorso?

Di impadronirsi rapidamente dell’uso dei mezzi tecnici e del linguaggio e proteggere  le proprie idee creative ed i contenuti. Certo, non è semplice, perchè ci si confronta sempre con il mercato e la committenza, ma è necessario conquistare il prima possibile una certa autonomia produttiva, distributiva e autoriale. Questo potrebbe essere un buon punto di arrivo che sicuramente, alla lunga, metterebbe in condizione di esprimere le proprie idee con coerenza.

ALESSANDRO D'ALESSANDRO

Fabiola Cinque

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