PARIGI – Il direttore creativo di Gucci ha recentemente progettato l’Alta Gioielleria del brand, con una stupenda collezione presentata qualche mese fa nella Capitale francese presso la nuova boutique di Place Vendome.
Chiunque abbia seguito con un minimo di attenzione l’avventura di Alessandro Michele come Direttore Creativo di Gucci, penso sia arrivato velocemente a formulare un pensiero che potremmo evidenziare in questi termini: molto presto i manager dell’azienda avrebbero visto di buon occhio una vera e propria collezione di gioielli, concepita dallo stilista, per sfruttare il suo enorme talento creativo per le forme decorative.
Per quanto mi riguarda, osservando i look delle sfilate e le immagini di molte sue campagne, in uno script pubblicato tempo fa su MyWhere, avevo formulato l’ipotesi che parte del suo successo fosse legato alla magistrale interpretazione decorativa di abiti che colpivano soprattutto per un effetto superficie, intendendo con questa espressione, il dominio percettivo dei contenuti ornamentali sulla forma/funzione dell’abito. Ma guardando con più attenzione le immagini che ho raccolto di molte sue sfilate, mi sono reso conto che i gioielli utilizzati per completare i più svariati look giocavano un ruolo percettivo fondamentale. A dire il vero, più che il gioiello in sé era l’effetto parure a scuotere la mia sensibilità, forzandomi a ipotizzare che il loro sapiente montaggio conferivano ai look una ineffabile forza o, se volete dirla in un altro modo, era grazie ad essi che l’abito indossato si trasformava in evento.
Non mi ha dunque colto di sorpresa la notizia divulgata durante le ultime sfilate couture a Parigi, della presentazione della prima collezione di Alta Gioielleria di Alessandro Michele, che porta il curioso titolo Hortus Deliciarum.
Si tratta di circa 200 gioielli, molti dei quali “pezzi unici”, impreziositi da pietre rare e da un concept tra i più efficaci nella nutrita serie di idee creative elaborate dalla bizzarra fantasia di Alessandro Michele. Da quello che ho potuto capire guardando le immagini, gli “oggetti” presentano una base ornamentale fortemente simbolica, sulla quale le pietre preziose sono incastonate alla perfezione da orafi di prim’ordine secondo una logica a “simmetria discordante”, tipica del modo di armonizzare i tratti dell’idea di bellezza che al designer piace trovare partendo da contrasti, antinomie, fusioni di immaginari che hanno fatto storia. In questo caso, le intuizioni creative dello stilista si innervano nell’immaginario medioevale, arrivato fino a noi grazie a bestiari e a manoscritti gravidi di figure significanti. Dico subito che gli oggetti mi hanno evocato un senso di perfezione pratica ineccepibile.
D’altronde mi piace sottolineare che all’interno della Holding del Lusso Kering non mancano certo le competenze specifiche nel settore gioiello. Fanno parte della squadra marche come Boucheron ( apparsa nel 1858 e dal 2000 acquisita da Gucci, a sua volta passato nel 2004 a PPR, rinominata Kering), Pomellato (nata nel 1967) e Weeling ( fondato da Chu ling nel 1967, basato sulla grande tradizione orafa cinese e ovviamente specializzato nell’enfatizzare il simbolismo di una tradizione le cui tracce risalgono a 5000 anni or sono). Fa parte del gruppetto anche DoDo, che prende il suo nome da uno sfigatissimo uccello senza ali, un tempo molto diffuso alle isole Maurizius, estintosi nel XVI sec.quando le isole furono occupate dai portoghesi che ne fecero strage. La marca, fondata nel 1994 da Pomellato per intercettare un pubblico più giovane, con minori potenzialità di acquisto ma più esigente per fantasia del design ed effetti cromatici, ironici fu acquisita da Kering insieme alla casa madre… Di tutte queste marche, probabilmente è Boucheron ad aver fornito sia la misura del livello di preziosità degli oggetti che Alessandro Michele, in un certo senso ha sfidato, arricchendo le sue forme gioiello di contenuti che la sua travolgente immaginazione orchestra a meraviglia.
Per farla breve, indubbiamente a designer di Gucci non sono certo mancate le competenze pratiche/artigianali necessarie per incapsulare le sue idee creative sulle varie forme di gioiello presentate dalla sua ambiziosa collezione. Gli suoi oggetti preziosi, di qualità ragguardevole, realizzati materialmente da mani esperte del settore necessarie per eseguirne la fattura (i sempre poco citati orefici-artigiani, punto di forza del gioiello Made in Italy), aggiungiamoci pure i manager del lusso, fondamentali per progettarne la commercializzazione elitaria scelta dalla marca per trovare nuovi sbocchi alla straordinaria notorietà acquisita negli ultimi anni, i suoi gioielli dicevo, sono da un lato una nuova sfida personale del designer, dall’altro lato rappresentano un affinamento strategico probabilmente necessario nella attuale fase di sviluppo del brand: aver concentrato all’inizio la potenza di fuoco del brand sui Millennials ha portato Gucci ad essere vissuto come il Zeitgeist della moda contemporanea, di conseguenza ora anche chi non appartiene a quell’osannato cluster di consumatori, può essere attratto dalla marca, in particolare le persone molto ricche che desiderano però l’oggetto esclusivo, raro, distintivo, non disgiunto dai valori creativi dominanti nella moda attuale..
Hortus Deliciarum come narrazione
Ho trovato particolarmente interessante le parole/narrazione di questa collezione di Alta Gioielleria, parole che evocano fantasiosi scenari medioevali. Del resto è da quando interpreta il ruolo di art director creativo Gucci che ammiriamo la ragguardevole abilità con quale Alessandro Michele arricchisce le proprie creazioni con narrazioni che eccedono gli stereotipi della moda. Tra gli stilisti della sua generazione a me sembra il più consapevole del fatto che i clienti evoluti abbiano bisogno di dare “un in più di senso” agli oggetti o forme che eccitano i loro desideri. L’Hortus Deliciarum più famoso è senz’altro il manoscritto attribuito alla badessa dell’Abbazia di Hohenbourg (Alsazia), Herrad von Landsberg. Pare sia stato scritto intorno al 1175 e il suo eccezionale valore deriva dalla ricchezza di miniature che illustravano il testo. Purtroppo l’originale andò perduto in un incendio della Biblioteca Nazionale di Strasburgo nel 1870 (guerra Franco-prussiana), dove il manoscritto dopo varie vicissitudini era arrivato. Ma per fortuna esisteva un facsimile redatto da Christian Moritz Engelhardt nel 1818, altrettanto prezioso, che permise di far arrivare quasi integralmente fino ai nostri giorni la proto-enciclopedia voluta dalla Badessa per illuminare la mente delle sue accolite con ciò che allora poteva considerarsi la summa del conosciuto. Delle 344 miniature originali ne furono ricostruite 254, con i relativi testi in latino.
Il titolo viene spiegato dagli eruditi come una sorta di epopea del regno di Cristo che culmina nel ruolo centrale della Chiesa e della promessa del Paradiso del quale l’Hortus Deliciarum è metafora.
Cosa c’entra il paganissimo sincretismo estetico di Alessandro Michele con la mitica narrazione dedicata a sublimare la verginale dedizione della badessa alle virtù cristiane? Praticamente nulla. In realtà, ho il sospetto che il direttore creativo di Gucci, abbia voluto riallacciarsi all’antinomia che molti cultori del Medioevo sottolineano tra Hortus Conclusus e Hortus Deliciarum: il primo, tra gli innumerevoli significati a cui rimanda, sarebbe metafora della purezza verginale; il secondo invece evocherebbe i piaceri terreni.
Quindi, anche se la Badessa Herrad, con tocco femminile ribalta l’antinomia ponendo il piacere al centro della purezza del sentimento di adesione al verbo della Chiesa (per esempio, esaltando il piacere nella verginità, uno dei tanti paradossi di cui si nutriva la creduloneria religiosa del periodo), l’Hortus Deliciarum al quale pensa Alessandro Michele per sublimare il suo approccio fantasioso al Medioevo, a me pare più ragionevole agganciarlo ai solidi piaceri terreni implicati dalla consolidata significazione storica del gioiello prezioso che lo presenta come emblema del lusso estremo. Per farla breve, il creativo avvolge l’oggetto del lusso, segno/sintomo di peccato, con l’effervescenza semantica di frattali di storia delle immagini che alludono a valori spirituali, che evocano un sogno di eternità, tali per cui il gioiello assoluto (raro, il pezzo unico) si presenta sia come uno dei simboli fortemente radicati nella vita terrena (come tale marcatore di una identità prestigiosa, distinta) e sia come operatore simbolico: gioielli dunque che significano amore eterno per la bellezza più rara,suppongo.
Naturalmente sappiamo tutti che le narrazioni utilizzate per eccitare l’immaginario dei clienti di un brand, quando non toccano temi scottanti che fanno erompere livelli di realtà critici (razzismo, sessismo, etc…), non hanno certo bisogno di rigorose convergenze con il piano di razionalità. Tuttavia, si può notare che il riferimento all’immaginario medioevale di Alessandro Michele possiede assonanze con la predilezione che John Ruskin aveva per l’arte gotica e con la corrente artistica dei preraffaelliti, un gruppo di artisti dalla vita sentimentale ed erotica travagliata, annebbiati da dosi da cavallo di addictum varie, ma che nelle loro opere grazie al disprezzo di tutto ciò che l’arte aveva prodotto dopo Raffaello e Michelangelo, proclamandosi puri e spirituali come l’artista-artigiano medioevale, ambivano a raffigurare un sogno d’eternità. Cosa voglio dire? Le suggestioni culturali che lo stilista utilizza per la trasduzione degli oggetti che crea sono certo ammantate di arbitrarietà, ma spesso risultano profondamente innervate in tematiche culturali di robusta consistenza. Grazie a questi studiati “anacronismi” il design degli oggetti acquisisce una energia simbolica a dir poco travolgente.
Il ragionamento che vi ho presentato immagino possa suscitare al lettore una domanda del tipo: quanto valgono le narrazioni nel contesto della modazione (del gioiello)?
Evidentemente, in prima battuta, conviene distinguere la valorizzazione pratica dell’oggetto dai supplementi semantici prodotti dalle narrazioni.
A tal riguardo, relativamente al primo punto, l’Alta Gioielleria Gucci si adegua perfettamente agli standard del lusso assoluto attuale. Senza dubbio il valore delle pietre incapsulate nel testo decorativo progettato da Alessandro Michele, l’alto artigianato degli orafi coinvolti, puntano a trasmettere una forte impressione di rarità, di unicità dei gioielli senza il bisogno di nessuna narrazione particolare.
Ma per la classe di clienti privilegiati che per status o semplicemente come investimento in beni preziosi, la cui durata contraddice il timing della modazione contemporanea (sempre più frenetica), evidentemente i valori pratici e/o materiali legati alla preziosità delle pietre, non sono sufficienti.
Perché? Diciamo che Alessandro Michele sembra aver riflettuto sullo statuto ambiguo del gioiello assoluto nella società contemporanea. Per dirla con Roland Barthes, proprio per la sua origine minerale collocata nella profondità della terra, il gioiello nell’immaginario occidentale era, tra le altre cose, un “oggetto infernale”, proveniente da percorsi costosi e spesso insanguinati. Per secoli questo statuto ambiguo del gioiello ha seguito come un’ombra la sua messa in valore come bene tra i più preziosi.
La bellezza delle sue forme unitamente al sentimento di stupore e meraviglia per l’abilità e la fantasia dell’artigiano, ha funzionato come barriera etica per un lusso altrimenti assorbito da una fastidiosa negatività.
Nel nostro tempo la bellezza ha perso in parte questa valenza etica. Nei suoi vuoti si sono calate ciò che noi oggi chiamiamo narrazioni.
Ecco allora che, ritornando alla prima domanda, vi sarebbero casi in cui la narrazione aggregata all’oggetto lussuoso, potrebbe essere spiegata con un concetto che traggo dalla Teoria della percezione, ovvero “l’effetto mascheramento”. In altre parole, si sfrutta l’effetto di una forte impressione come impedimento per la percezione di soglie inferiori. Quindi, così come a livello visivo, in pittura, una luce brillante sulla tela maschera le modulazioni più smorzate nelle vicinanze, una narrazione composta da forme simboliche decorative provviste di una alta densità culturale, nasconderebbe le ambivalenti questioni etiche che il gioiello da sempre si trascina dietro.
In breve, una narrazione indovinata insieme alla bella forma del gioiello velerebbero il sentimento di piacere irresponsabile che il lusso estremo nel nostro tempo non può evitare di affrontare.
Vale la pena di aggiungere che Alessandro Michele, da quando Gucci lo ha reso famoso e influente, ci ha fatto capire quanto fossero temerarie le parole di Adolf Loos, profferite all’alba del funzionalismo, sulla progressiva scomparsa dell’ornamento e di ogni eccesso decorativo nello sviluppo della vita civile.
L’architetto viennese, in “Ornamento e delitto” (1908) rinnovava a suo modo, un adagio da sempre presente nella cultura classica, sintetizzabile in questi termini: la mancanza di ornamenti appariscenti conferisce a persone, forme e oggetti una sorta di superiorità estetica (e morale).
Per Adolf Loos la funzione di un oggetto o forma andava depurata da tutto ciò che era ornamento e decorazione. Insomma, secondo l’autore, l’evoluzione della società avrebbe imposto la semplicità come qualità necessaria alla bellezza. La profusione di ornamenti, accettabile per forme di vita primitive o del passato, nel contesto della nostra attuale civiltà, andava per contro condannata come una regressione morale. In alcuni passaggi del suo veemente scritto, Aldolf Loos sembrava far ricadere sulla carica erotica che l’ornamento si trascina dietro fin dalle origini, l’emersione del suo carattere inattuale e degenerativo che soffocava la funzione etica dell’oggetto d’uso moderno.
Se facciamo un salto che copre più di un secolo di civilizzazione e arriviamo al nostro tempo, possiamo facilmente sorridere riguardo le profezie di Adolf Loos. Il successo dei colpi creativi di Alessandro Michele, suonano come una sonora smentita del preannunciato affrancamento dall’ornamento. Per restare ai suoi gioielli, è scontato registrare che sono più voluminosi, più colorati, più espressivi…in definitiva, più erotici. La novità portata della sua prima collezione di Alta Gioielleria è di aver associato alla pulsione erotizzante un sogno di spiritualità. Un tentativo forse di agganciare il brand al sentimento del sacro? Ipotesi affascinante ma improbabile. Preferisco congetturare che lo stilista abbia cercato di suscitare una effervescenza emotiva che potremmo vagamente tradurre con l’espressione lineare “piacere eterno”. Il viaggio estetico che il creativo propone attraverso la sua collezione, aggiungerebbe alla nota formula baudleriana “Luxe, calme et voluptè” (Le fleur du mal), il sentimento di eternità ovvero ciò che risulta più impossibile nell’amore di oggi. Ma forse è proprio questo impossibile ad aprire il sentiero verso la mitizzazione del gioiello amoroso, con gli effetti che tutti conosciamo.
Hortus Deliciarium – Gucci Sito
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Io credo che i gioielli valgano per la loro bellezza e preziosità. Aggiungersi anche il momento o L’occasione. A quanto ho letto i gioielli di Gucci corrispondono all’Eccellenza di questi segni universali di distinzione. Le storie che ci racconta la pubblicità per me valgono fino a un certo punto. Il gioiello che non si dimentica deve essere bello e raro.
Devo dire che trovo i suoi gioielli troppo ingombranti. Preferisco forme che non gridano e con più innovazione vera. I gioielli dovrebbero rappresentare il nostro tempo e non fantasticare nel romanzesco passato.
L’articolo è davvero molto interessante soprattutto per la definizione di un climax di narrazione puntato su di un excursus creativo che tenta di rintracciare le basi della scelta stilistica di fondo di Alessandro Michele in un potente intreccio di stili, tempi e tematiche tra loro contrapposti. È proprio qui, in questa ambivalenza di combinazioni tenute insieme da questa “simmetria discordante”, come il sacro e il profano, il lusso dei piaceri terreni e la beatitudine dei valori spirituali, che creano il terreno fecondo in cui nasce il gioiello eterno e prezioso: una interessante condensazione di elementi tra loro opposti e sinergici che regalano un effetto magico e perturbante, di bellezza senza tempo.
Il gioiello è per eccellenza un oggetto di valore, viene regalato in occasioni speciali e si utilizza in altrettante per arricchire un look secondo il proprio gusto e piacere. La sua forma, da quella più minimale a quella più elaborata, e i materiali utilizzati, condizionano il suo valore commerciale, ma crea in ogni acquirente un valore emotivo diverso. I gioielli di Gucci sono sfarzosi e decisamente sono stati creati con grande cura e perfezione ma ciò non implica che siano ideali per ogni persona. La storia che c’è dietro, veritiera o meno, che si tratti di una lunga riflessione o semplicemente una strategia di marketing, alla fin fine, credo che alle persone interessi poco o niente poiché un gioiello veramente di spicco tra gli altri è quello che stupisce per innovazione e creatività.
Ottimo intervento. Tuttavia mi chiedo: se alle persone le narrazioni che accompagnano un atto creativo interessano poco o niente, come mai che tutti i brand in circolazione investono molte più risorse nelle “storie” piuttosto che in altri settori? O manager e creativi sono tutti dei pazzi sciagurati oppure dobbiamo pensare che la nostra percezione dell’oggetto possa essere in qualche modo connessa con l’esperienza simbolica che di solito, in suo nome, ci viene proposta. Dovresti inoltre riflettere su altre due questioni: l’innovazione non è così semplice da ripetere; forse potremmo considerala tutto sommato rara sé paragonata al bisogno di costante rinnovamento dei prodotti. E infine, la creatività non nasce dal nulla: un creativo parte sempre da un contesto dal quale sviluppa gli insight che poi, con tentativi ed errori, materializzerà in una specifica fisionomia dell’oggetto o forma. Quindi, a volte troviamo le narrazioni all’inizio del processo creativo e non solo alla fine.
Dietro ogni atto creativo c’è un motivazione, bisogna riconoscerlo, nulla nasce per pura casualità, ma credo ci sia modo e modo per spiegarlo. Un brand così famoso e importante come Gucci non ha bisogno di abbindolare i propri clienti, chi compra Gucci oggi, continuerà a comprarlo anche domani. I fattori emozionali che stanno dietro ad un’idea possono essere i più svariati e variare nel corso della progettazione se si riscontrano problemi o addirittura se si perde l’interesse nel portare avanti un determinato concetto, l’importante è arrivare a qualcosa di concreto che interessi il pubblico. Alessandro Michele è riuscito ad accontentare i suoi acquirenti pretenziosi rifacendosi al passato e non guardando al futuro cosa che invece sarebbe, a mio parere, più interessante.
Personalmente penso che il gioiello sia da sempre l’emblema della preziosità.
Esso, sin dall’antichità, è legato, in prevalenza, a valori simbolici, ma allo stesso tempo rappresenta in se ricchezza.
Forse, al giorno d’oggi, indossare gioielli significa perlopiù abbellire se stessi e impreziosire i propri look, e un esempio possono essere i gioielli realizzati da Alessandro Michele per Gucci, i quali, appunto, a parer mio, sono molto sfarzosi.
Inoltre, penso anche che il lavoro sulla narrazione sia interessante in quanto debba far aumentare, ancora di più, il desiderio di possedere tale gioiello.
Oltre a ciò, la narrazione diventa l’associazione del gioiello, e quindi permette al possibile acquirente, grazie alla memoria visiva, di avere impresso nella mente il gioiello e quindi di volerlo ancora di più.
I gioielli, come tutti gli accessori, hanno la funzione di comunicare parte della nostra identità, in altri casi quella di diminuire alcune nostre paure, infatti la loro preziosità, esprime un codice centrato sulle competenze sociali che rimanda al prestigio, al successo, all’affermazione, all’esibizione. I gioielli sono in questo caso usati come trofeo.
I gioielli esprimono la voglia di lusso e di narcisismo, permettendo di godere di se stessi e di quello che si possiede, sono etichettati come oggetti esclusivi grazie ai quali sentirsi eccezionali.
Sono il simbolo e il ricordo materiale delle nostre emozioni, quindi, raccontare di loro attraverso una storia penso sia fondamentale, il gioiello prende vita: non si parla più di un semplice oggetto e grazie a questo, sono emozioni che guardandoli possiamo rivivere.
Credo che il direttore creativo Alessandro Michele abbia fatto un ottimo lavoro, sia per la parte narrativa che per quella visiva, la collezione è dettagliata, le pietre preziose e uniche sono perfettamente in linea con l’immagine di lusso e esclusività del brand, rendendola per pochi.
Gli accessori, in particolare i gioielli, sono da sempre quel “particolare” con la potenzialità di cambiare completamente un look, e quindi il modo in cui una persona appare in quel determinato momento in cui li indossa. I gioielli sono, infatti, una forma estetica con cui poter esprimere la personalità di un individuo, il quale a sua volta può fare uso del gioiello per sentirsi una persona differente da quella che è realmente.
Ho sempre attribuito i gioielli alle donne, in quanto secondo me essi portano con sé un’idea di vanità, di ideale estetico: caratteristiche intrinseche al concetto di essere donna, forse per una serie di stereotipi.
Nella nuova collezione di Gucci disegnata da Alessandro Michele, coerente con il concept del brand, ho riscontrato quel desiderio di lusso che si ri fa al concetto di vanità e che rimanda quindi più al piacere terreno che ad una purezza spirituale.
Al di là di ciò ritengo che la forza di un brand, o più nello specifico di un prodotto, stia proprio nella narrazione. E’ quest’ultima che, secondo me, attira l’attenzione di un cliente, alterando anche la sua percezione che cambia dal negativo al positivo, o viceversa. La narrazione che vi è dietro ogni prodotto, seppure possa essere fasulla, è ciò che lo rende unico e speciale, e che crea un forte legame tra quel prodotto ed il cliente. Ritornando al discorso di apertura, è nella narrazione che il cliente si identifica per esprimere “chi vuole essere”.
Sono d’accordo. Ma le narrazioni cambiano ogni stagione. Il brand al netto di restyling in teoria no. Forse potremmo concepire la forza del brand in relazione alla percezione significante che attiva. Qui con percezione mi riferisco all’immediatezza del valore che evoca. La percezione significante non è una narrazione bensì l’ossatura di sintesi che integra qualcosa che appartiene alla struttura dell’oggetto con le serie di storie che si susseguono nel corso della modazione. Potrebbe essere forse una sorta di Gestalt che i teorici della forma definivano “qualità terziarie”.
Prof definisci qualità terziarie!!!!
Immagina di stare frequentando un happy Hours. Ti viene presentato un tipo che improvvisamente manifesta un comportamento irritante. Sei incazzato ma lo dissimuli. Cavoli! Sono una persona civile, pensi, e quindi: non gli metterò due dita negli occhi; non gli infilerò la sigaretta che sto fumando nel nasello; non gli ustionerò le onecchie con l’accendino…Anche se ti frullano per la mente fantasie sadomaso da infliggere alle sue parti intime, del tuo tumulto interiore apparirà solo una increspatura espressiva sul volto. I due Negroni successivi e la musica ti aiuteranno a superare il disagio di essere civili con chi non lo è (per inciso, il Negroni è un cocktail un po’ démodé…Con il politicamente corretto che circola è meglio evitare fraintendimenti). Bene, dopo un paio di giorni ripensi all’incontro con il tipo ma scopri di non poterne ricavarne la descrizione ovvero non puoi rispondere alle domande: di che colore aveva gli occhi lo stronzo? Quanto era grosso il naso? Aveva le orecchie a sventola?
Passano alcune settimane e in circostanza diverse ti viene presentato lo stesso tipo. Senza che lo stronzo dica una parola percepisci l’irritazione che ti risuona simile a quella che hai esperito in precedenza.
Ebbene, secondo la Psicologia della Gestalt ti trovi nel bel mezzo degli effetti espressivi delle qualità terziarie.
Vi sono impressioni come l’irritazione verso qualcuno, puoi chiamarla inimicizia percettiva, che vengono ricordate meglio rispetto altre percezioni (per esempio quanto erano grandi le orecchie del tipo, sempre che non le avesse gigantesche come Dumbo, l’elefantino volante creato da Walt Disney, perché in questo caso probabilmente cambierebbe tutto). Lo ripeto, l’aspetto di inimicizia secondo la teoria sarebbe una qualità terziaria.
Secondo i gestaltici l’esperienza fenomenica sarebbe pervasa da qualità che non possiamo scindere dal dato percettivo. Per dirla con R.Arnhein, uno dei teorici della gestalt duri e puri, struttura percettiva ed espressione sono biologicamente connesse dal momento che sono parti interdipendenti e isomorfe nella costruzione dell’oggetto. Tanto per intenderci meglio: le configurazioni emozionali, comportamentali, affettive, estetiche sarebbero intrinseche nell’oggetto percepito, come incapsulate nelle sue proprietà formali, cromatiche, cinetiche, prossemiche etc…
Quindi il povero tipo che ti ha fatto incazzare nella fiction proposta come esempio, dovrà sbattersi un po’ per rimediare all’effetto percettivo che evidentemente sta minando la relazione.
Scusami se non sono stato chiaro, ma in questo momento le riflessioni sulle qualità terziarie devono lasciare il posto al caffè che desidero andare a gustarmi.
Penso che alla base della creatività ci siano conoscenza ed osservazione. Il direttore creativo Alessandro Michele per questa collezione ha sicuramente unito entrambe le cose riuscendo a progettare gioielli che non passano inosservati.
Conoscenza ed osservazione però non sono sufficienti se non supportati dalla capacità di inserirli in un contesto attuale dove il concetto di bellezza non è più quello dei tempi passati.
Pur non mettendo in discussione manifattura e preziosità che i gioielli trasmettono, ritengo che il richiamo al passato sia preponderante ed eccessivo.
Credo che anche l’alta gioielleria, con una clientela di nicchia e particolarmente esigente, debba comunque rispecchiare l’attualità se non addirittura proiettarsi verso il futuro.
Penso che il lavoro realizzato da Alessandro Michele sia stato molto intelligente, creare un oggetto che possa dare a diverse persone la possibilità di vedere in esso tematiche differenti.
Il commento cita molti stili, tematiche, tempi… la bellezza di questi gioielli è proprio in tutto ciò, ma tale cosa non deve portare le persone fuori dalla tematica accuratamente scelta da Alessandro Michele.
Cito tale pensiero, per il fatto che tutti i gioielli hanno qualcosa dietro, qui parliamo di una persona che ha fatto il boom, molto riconosciuta e molto seguita grazie a Gucci, ma non dobbiamo scordarci che anche molti altri Designer utilizzano la stessa mentalità.
Sicuramente con altri approcci ed altre svariate produzioni ( ad oggi vi sono molti brand di gioielli che lavorano in uno specifico ambito ) che serve appositamente per abbellire il proprio look.
Ciò, vi è da tempi a dietro, e sicuramente Alessandro Michele ha avuto l’idea brillante di inserire tematiche molto particolari che portano a pensieri diversi e, perché no, poter dare la possibilità di ritornare indietro nel tempo, e poter dare al pubblico qualcosa di tangibile che riporti ad esso.
In oltre, penso che Alessandro Michele abbia avuto una mentalità da ” alto ceto “, che lo ha portato a realizzare gioielli con incastonate pietre preziose, un Design raffinato ed accurato per un target alto ( ma d’altronde da Gucci ci si può aspettare proprio questo ), ma proprio ciò, rende unico il gioiello anche se ad oggi, sono Design non del tutto uguali, ma in alcuni dettagli si.
Ma come si sa, bisogna essere acculturati e rubare un pò di idee di qua e di la, e poi, nel caso, rendere quel gioiello l’unica cosa preziosa che l’acquirente cerca di avere.
Il carattere polisemico del gioiello Gucci è una idea interessante. Non ci avevo pensato.
I gioielli son da sempre i migliori amici di una donna, capita raramente di uscire senza sfoggiare bel paio di orecchini o un anello.
Fatta questa premessa, trovo l’articolo estremamente interessante.
Alessandro Michele non solo ha realizzato gioielli eleganti, di lusso e belli, ma dei veri e propri pezzi unici nel loro genere, che dimostrano in tutto il loro splendore, l’alta qualità e la precisione della mano d’opera italiana.
Trovo intrigante il fatto che sia stata associata alla creazione di questi gioielli la narrazione di un racconto medievale, che li rende ancora più affascinanti e preziosi.
Secondo il mio parere, questi gioielli che ammiro per la loro realizzazione, li ritengo un pò retrò rispetto la contemporaneità, e li vedrei più appropriati a persone di determinate classi sociali.
Se penso al gioiello ritengo che la definizione più immediata sia “ornamento per il corpo”, un oggetto del quale inevitabilmente si celebra il valore materico. È difficile non prescindere dalla sua forte materialità, soprattutto se si parla di gioielli preziosi e ricchi di sfarzo come quelli progettati da Alessandro Michele per Gucci. L’estetica appariscente di questi gioielli non mi sorprende affatto, d’altronde si parla di un Brand di alta moda dall’identità che non passa di certo inosservata.
Il titolo di questa nuova linea, “Hortus Deliciarum”, allude fin da subito alla presenza di una narrazione che sta alla base della creazione dei gioielli. La domanda è: se è vero che la bellezza ha perso valenza etica, sta alle narrazioni riempire i vuoti? La risposta è pressoché scontata, sì. Dal momento in cui non per tutti è sufficiente il valore del gioiello, si ricerca un’emozionalità e interesse verso la narrazione. Penso che attribuire la narrazione al gioiello sia una scelta intelligente e a scopo strategico, che può funzionare o meno, anche se in questo specifico caso considero il riferimento medioevale forzato e decisamente ambiguo.
Ma si è certi che le narrazioni riescano sempre a mascherare i vuoti che bellezza e preziosità non colmano? In questo preciso caso ritengo che la narrazione non sia all’altezza del valore etico del gioiello, ma indirizzata ad un ambito ambiguo e soggetto a interpretazioni discordanti.
Intervento penetrante che condivido, anche se nel caso Gucci prevale l’ammirazione per il supplemento narrativo.
Dopo aver letto l’articolo con interesse, scelgo di soffermarmi sulla questione della contrapposizione di ricchezza e moralità.
La qualità dell’oggetto è inattaccabile.
I gioielli della collezione sono senza dubbio evocativi del massimo splendore di chi li indossa, come anche di cosa a questi viene accostato e del luogo che li accoglie. Dunque generano senza eccezione un’aura di eccellenza diffusa.
Per quanto riguarda invece il relativo significato, la denominazione del loro insieme “Hortus Deliciarum” è indicativa dell’elevazione ad un livello di perfezione in connessione con la regressione morale di chi ricerca tale bellezza a scapito dell’etica.
Tale opera di alta gioielleria ha, com’è ovvio che sia, finalità di vendita, e non necessariamente scopi di stimolo alla riflessione e di educazione morale, ma comunque, che sia stato voluto o meno, l’espressione che la intitola rimanda al concetto pungente di cui sopra.
In altre parole, credo che i 200 gioielli “impeccabili” presentati, nella loro esclusività come pezzi unici o per la scelta di pietre rare incastonate in essi, paradossalmente abbiano un ruolo dissacrante nei confronti dell’acquirente desideroso del piacere che inevitabilmente suscitano. Un piacere ricercato nel peccato, irrinunciabile per la pulsione del possedere e dell’apparire, ad elevarsi ad una bellezza esclusiva subordinata a quella umile dell’essere, probabilmente la vera grande bellezza e soprattutto la vera rarità distintiva del mondo odierno, cieco di fronte ai valori umani essenzialmente importanti e, nel caso della gioielleria, ai luoghi infernali da cui ne proviene la materia prima.
Queste mie verità derivano però da uno stile di vita personale. Non facendo parte dell’élite a cui la collezione si rivolge, non godo della luce accecante che fa cedere alla tentazione che alimenta il lusso, invece ho la possibilità di vedere “ad occhi aperti” ciò che sta sotto.
Tuttavia, riconosco che a mio modo ho ceduto anch’io ad un altro genere di vanità, nel giudicare dall’alto, elevandomi ad una certa superiorità morale, spesso tipica di chi giudica acerba l’uva a cui non può arrivare.
La conclusione è che errare è destino dell’uomo, in un modo o nell’altro.
Probabilmente renderebbe tutto più facile la condivisione, nella più totale collettività, di uno stile di vita moderato, all’insegna del controllo pulsionale in genere.
Il gioiello è un elemento che va a sottolineare e definire il look di una persona, in cui l’accessorio se molto appariscente può diventare il punto focale dell’insieme.
Nella collezione Hortus Deliciarum i singoli elementi sono sfarzosi, riccamente decorati e dettagliati, rimandando a un’idea di lusso che si ricollega a un brand come Gucci. Però gioielli così elaborati, si allontanandosi a mio parere da uno stile moderno caratterizzato da linee semplici, eccedendo nella decorazione, ricordando uno stile rinascimentale. Però bisogna considerare che la linea è pensata per una ristretta cerchia di acquirenti, che partecipa ad occasioni importanti dove sfoggiare pezzi unici e particolari, che nel complesso non si adattano per essere portati nella vita di tutti i giorni.
A impreziosire la linea Hortus Deliciarum è la scelta di inserire una storia dietro al gioiello, che va ad aggiunge un valore sentimentale.
L’intervento di Federica mi ha fatto riflettere. Mi piacerebbe chiederle: se tu dovessi disegnare gioielli a dove partiresti? Cosa vorresti far percepire? Che storia vorresti evocare?
Condivido il pensiero di Adolf Loose: ” la funzione di un oggetto o forma andava depurata da tutto ciò che era ornamento e decorazione.”
Una semplice linea o curva è più che sufficiente per trasmettere il carattere, l’eleganza di una struttura o di un oggetto; eliminare il superfluo.
Tutta via un gioiello, una collana, un anello nascono con la funzione di “decorare”.
I gioielli hanno come principale obbiettivo di catturare attenzione, colpire, attirare gli sguardi degli osservatori, per questo motivo ridurre al minimo un gioiello privarlo della sua parte decorativa lo priviamo della sua anima del suo carattere che trasmette a chi lo indossa.
Credo che le narrazioni non hanno influenza o valore su quello che può rappresentare il valore di un gioiello o di qualsiasi altro oggetto, rimaniamo colpiti in primis dal taglio di un diamante, dal colore o dalla forma, se poi fa parte della collezione di diamanti della corona britannica ben venga.
Il gioiello è visto e sarà sempre visto come elemento che caratterizza la persona che lo indossa, ne possiamo avere testimonianza a livello storico. Un esempio è “la ragazza con turbante” anche conosciuta come Ragazza con l’orecchino di perla (“Meisje met de parel”) è un dipinto a olio su tela di Jan Vermeer, databile al 1665 all’incirca oppure La collana Schlumberger che l’attrice Audrey Hepburn indossa nel film “Colazione da Tiffany” (1961), ma ne possiamo ritrovare molti altri nella storia. Ora qui sorge il dilemma, quando un oggetto come quello rende il messaggio, il disegnatore o la persona che lo indossa icona o simbolo di una generazione?. Non possiamo dare una affermazione precisa di questo, poiché l’uomo semplice per NATURA si limita. a fare una associazione a prima vista, “io prima vedo poi giudico”. Per tanto sicuramente Alessandro Michele con l’idea di inserire tematiche peculiari porta il risultato della differenza di pensiero sui differenti significati; l’elemento che ha dell’incredibile è che una persona viene colpita da una bellezza. Una bellezza che si è soggettiva, ma non può essere negata e in me in quanto fruitore (persona X) non fa altro che riflettere. per citare una persona “La vita ci è stata data per una creatività. Il tempo è come il tessuto su cui occorre disegnare una creazione..”. Il lavoro eseguito da Gucci non è commentare non per una sorta di mancanza di rispetto o per una concezione negativa del lavoro, ma già appurato che tecnica, splendore, l’alta qualità e mano d’opera sono di ottima fattura. Il resto si gioca nelle mani di chi prende la matita in mano e inizia a “disegnare” o progettare (dir si voglia) i suddetti gioielli. Il lavoro di Alessandro Michele è stato quello non tanto di creare, ma i inspirare gli altri ad avere sempre un senso più alto nel proprio lavoro partendo semplicemente dal suo lavoro; senza declamare vere o false ideologie, pensieri politici e concezioni religiose.
Il gioiello è da sempre elemento catalizzatore che arricchisce e completa un look. Gioielli come quelli della collezione Hortus Deliciarum di certo ne diventano l’elemento dominante.
Io non credo tanto nell’importanza assoluta della narrazione, però può essere sicuramente un elemento che indirizza o favorisce la scelta finale del consumatore. In un caso come questo penso che entrino in gioco altri due fattori di magior peso.
Come prima cosa, l’importanza del brand che racchiude in sè stesso suggestioni che rimandano ad uno status symbol che non risente del passare del tempo.
Secondo, la genialità e il talento creativo di Alessandro Michele che ha saputo creare gioielli nei quali la preziosità dei pezzi è data dall’abbondanza dei volumi, dei colori e delle lavorazioni che hanno fatto della colezione un mix vincente di sensualità, preziosità ed erotismo.
A mio avviso la trasposizione del tema Hortus Deliciarum nei gioielli della collezione è sicuramente centrata, l’ispirazione che ne ha tratto Alessandro Michele ha originato pezzi di rara bellezza il cui impatto visivo è talmente forte da far passare in secondo piano la fascinazione della narrazione sul cliente.
A parer mio un gioiello, come molti altri oggetti di design, ha la possibilità di avere più significati. Può avere un significato se conosci la narrazione e quindi il pensiero a cui si è ispirato il designer e gli artigiani nella progettazione e nella realizzazione del pezzo. Oppure ha il significato che ti crei nella tua mente quando lo osservi, nella vestrina sotto a luci che lo rendono ancora più splendente. Infine, esiste un significato che si crea quando lo vedi indossato e questo pensiero cambia in base alla bravura del direttore creativo, che decide a quale modella e a quali abiti abbinarlo.
La collezione creata per Gucci è estremamente ricca di dettagli, decorazioni e pietre preziose non può, quindi, essere considerato un oggetto per un utente medio ma ciò è in linea con l’immagine del brand e quindi penso che il lavoro di Alessandro Michele sia stupefacente sia nella forma che nella narrazione.
Il gioiello prezioso quando viene regalato, essendo qualcosa che dura per sempre, va oltre l’essere oggetto materiale ma assume un elevato valore affettivo, perché ci ricorderà sempre da chi lo abbiamo ricevuto o ereditato.
Nell’articolo trovo molto interessante la fusione su periodi storici e correnti di pensiero differenti posti in contrapposizione tra loro; i vari pensieri riguardanti i gioielli, come la maggior parte degli oggetti, hanno piacere e gusto personale perciò non possono essere né giusti né sbagliati.
Penso che il direttore creativo Alessandro Michele abbia fatto un grande lavoro di ricerca e studio raggiungendo una enorme comunicazione visiva.
Il nome “Hortus Deliciarum”, credo sia azzeccatissimo, nella mia immaginazione rispecchia un giardino delle delizie dove si trovano “gemme uniche”. Ammirando la collezione, noto grande coerenza con lo stile iconografico di Gucci, nessun dettaglio è stato trascurato, anzi sempre più impreziosito.
In seguito alla lettura dell’articolo mi son ritrovata a rivolgermi delle domande, alle quali ho trovato risposta per alcune mentre altre sono ancora in sospeso. Credo sì che il gioiello nella storia sia diventato un oggetto che abbia assunto un valore “assoluto” . Valore che aumenta esponenzialmente se dietro ad esso vi sono associate profezie o leggende. E’ il racconto stesso, così impalpabile ma ricco di significato che ci sta dietro che fa di quel gioiello il manufatto più ambito, portandoci a desiderarlo. Ma allora, per essere considerato “oggetto di desiderio”, deve per forza essere sostenuto da una storia altrettanto intrigante?.
Soffermandomi sulla bellezza della prima foto che riporta l’immagine di un collier, mi è tornato alla mente un ricordo d’infanzia. Un ricordo felice. Ho subito attribuito quel collier, bensì totalmente differente da quelli progettati da Alessandro Michele per Gucci, ad una collezione che mia nonna teneva conservata in un portagioie di velluto, sul comò della camera da letto. Ne andava orgogliosa di quella parure e non passava giorno in cui non mi ricordasse di quanto si sentisse bella e sicura di sé poterla sfoggiare durante le occasioni speciali. Ma allora un gioiello può fare tutto questo?. E’ dotato di poteri così ultraterreni da riflettere l’immagine migliore di noi stessi solamente portandolo a spasso?. Di questa storia ricordo che io restavo ad ascoltarla mentre con le dita accarezzavo gli intarsi dorati e delle sue parole cercavo di coglierne la sublime vanità. Vanità da intendere come valore aggiunto, valori che ad oggi guardando un gioiello forse sono andati persi.
Quello che io personalmente ritrovo riflesso nei sontuosi accessori realizzati dal direttore creativo, è proprio questa vanità ostentata e forse “nociva” che sprigionano gli elementi regali che avvolgono il corpo femminile. La necessità di elargire a tali oggetti tanta “abbondanza” è forse il modo migliore per confermare, alla cerchia di persone che possono permetterseli, il loro status symbol. Ma chi in fin dei conti può ottenere una tale collezione, guarda a ciò che vuole semplicemente comunicare di sé o gli interessa il significato che ci sta dietro?. La narrazione attribuita ad ogni pezzo o al tema, credo sia da considerarsi una grande incognita e/o strategia. Citandomi all’inizio di questo commento, le leggende, le profezie e le storie mistiche, da secoli sono inscindibili da questi oggetti e forse rifarsi a tali racconti è proprio il modo migliore per far scattare nell’acquirente un motivo in più per desiderare quell’oggetto.
Sono fermamente convinta del fatto che i Brand, ormai diventati uno “Status Symbol”, debbano avere un racconto, una storia che detta le regole a quello che poi diventa il prodotto finale. Se così non fosse, sarebbero come uno dei tantissimi brand che ha come sola finalità, quella di vendere in grandissimi numeri. Tuttavia, non posso di certo dire che tutti le narrazioni o i significati siano validi. Da questo articolo non ho potuto fare a meno che notare il racconto di quello che è forse una ricerca forzata per dare un valore a quel singolo gioiello (come detto anche nell’articolo ” Un più di senso”); se così non è, allora, posso comunque affermare che probabilmente la qualsiasi ricerca non ha ricevuto esiti positivi. Sicuramente si tratta di un racconto che affascina, ma la finalità di questo racconto e di questo prodotto, è quella di fare un passo in dietro, oppure in avanti?
Si parla sempre di innovazione, o comunque di “diversità”, ma se si tratta di quello che è un valore antichissimo e studiato per essere riadattato, allora, non ne vedo la riuscita.
Un’altra cosa che ho notato è stata la sensazione visiva che quell’oggetto mi ha trasmetto. Personalmente, credo che questi oggetti siano pensati già per essere solo fini a sé stessi. Sono gioielli che “rubano la scena”. Mente credo che il suo compito debba essere quello di completare, non oscurare. Probabilmente, questa collezione, ha ammaliato tantissime persone di un certo tipo di target, ma che, appunto, grazie alla sola narrazione sia stata invogliata al comprarlo.
Trovo l’articolo interessante per riflettere sulle azioni del brand di alta moda. Condivido l’idea riguardo la teoria di Adolf Loos, perché ritengo che ripulire un oggetto o un ambiente da ogni tipo di decorazione sia un grande limite, anche se nel campo dell’architettura preferisco stili più razionali e sobri. In ogni caso, il gioiello è un oggetto di design che ha la funzione di valorizzare e rappresentare chi lo indossa, quindi l’aggiunta di dettagli e decorazioni possono renderlo notevolmente più espressivo. Credo che Hortus Deliciarum sia rilevante nel campo della moda non solo per l’importanza del brand, ma anche perché trovo nella collezione un particolare senso di stile esaltato e rafforzato dal potere narrativo che Alessandro Michele ha utilizzato. Concordo con l’articolo riguardo alla narrazione del prodotto, perché i clienti privilegiati al quale si rivolge, cercano oltre al valore materiale una storia ed un significato da associare. Penso quindi che la narrazione, oltre ad essere un efficace strumento di marketing sia anche, per chi progetta, un ulteriore esercizio di stile per rafforzare il tema e l’enfasi del progetto. Hortus Deliciarum è considerata una metafora di paradiso, di purezza verso la Chiesa, quindi di sacralità, ed è interessante, soprattutto provocante che Alessandro Michele l’abbia associata al lusso ed in un certo senso alla pulsione erotica, lanciando quindi un messaggio di piacere eterno.
Al giorno d’oggi il gioiello non è più soltanto un accessorio che arricchisce e completa il look di una persona ma diventa in molti casi, l’elemento dominante a tutti gli effetti. Alessandro Michele ha sicuramente realizzato 200 pezzi unici, ricchi di dettagli e pietre preziose ma credo fortemente nell’importanza del brand. La maggior parte dei consumatori acquistano un pezzo della collezione di Alessandro Michele perché è stato realizzato per Gucci. Il valore del singolo oggetto e la narrazione che vi è dietro sono sicuramente dei valori aggiunti che portano il consumatore ad avere un motivo in più per acquistare quel determinato gioiello.
Il gioiello ha da sempre avuto una valenza prettamente estetica.
Quando lo si indossa ci si sente diversi,migliori. Ma per quale motivo ?
Diversifica il nostro aspetto quotidiano.
Non a caso ai giorni nostri un corpo “acqua e sapone” è più raro e apprezzato di un corpo “decorato” proprio perchè il mondo d’oggi vive di pregiudizi e di superficialità che sono facili da ingannare con semplici gesti.
Alessandro Michele, designer di Gucci, ha usato queste abili pratiche per “abbindolare” l’acquirente.
Intelligenza? Furbizia ? No, marketing.
Questa collezione di gioielli, “ Hortus deliciarum”, incarna una storia passata, risalente al periodo medievale.
Scelta ottima per fare impersonificare il cliente e caricare emotivamente il prodotto, tuttavia è molto distante dalla novita rivoluzionaria, in quanto molti altri creativi sfruttano questa pratica.
Possiamo quindi affermare che il target svolge un compito fondamentale per la vendita. Certo, nel periodo medievale chi poteva permettersi un gioiello del genere era la classe d’élite, ricca per ereditá, e tutto il resto della popolazione, sognava.
Ai giorni nostri la situazione si è ribaltata: se prima si vendeva per bellezza, si acquistava un sogno; ora i grandi marchi vendono per furbizia.
Nelle grandi aziende si ha come unico obiettivo la risoluzione di queste domande :Come faccio a vendere di più? Come posso differenziarmi dagli altri brand?
Oramai tutto funziona in base a ciò che è più appariscente, a ciò che è il “top di gamma”.
ma allora chi detta veramente la moda? Gucci o i compratori di Gucci ?
Una domanda a parer mio molto chiara.
Alessandro Michele è stato discreto, ma ciò che esalta la nostra autostima, il nostro ego e la nostra vanità, non è sicuramente una narrazione, ma un “Gucci” in bella mostra.
Il gioiello ha da sempre avuto una valenza prettamente estetica.
Quando lo si indossa ci si sente diversi,migliori. Ma per quale motivo ?
Diversifica il nostro aspetto quotidiano.
Non a caso ai giorni nostri un corpo “acqua e sapone” è più raro e apprezzato di un corpo “decorato” proprio perchè il mondo d’oggi vive di pregiudizi e di superficialità che sono facili da ingannare con semplici gesti.
Alessandro Michele, designer di Gucci, ha usato queste abili pratiche per “abbindolare” l’acquirente.
Intelligenza? Furbizia ? No, marketing.
Questa collezione di gioielli, “ Hortus deliciarum”, incarna una storia passata, risalente al periodo medievale.
Scelta ottima per fare impersonificare il cliente e caricare emotivamente il prodotto, tuttavia è molto distante dalla novita rivoluzionaria, in quanto molti altri creativi sfruttano questa pratica.
Possiamo quindi affermare che il target svolge un compito fondamentale per la vendita. Certo, nel periodo medievale chi poteva permettersi un gioiello del genere era la classe d’élite, ricca per ereditá, e tutto il resto della popolazione, sognava.
Ai giorni nostri la situazione si è ribaltata: se prima si vendeva per bellezza, si acquistava un sogno; ora i grandi marchi vendono per furbizia.
Nelle grandi aziende si ha come unico obiettivo la risoluzione di queste domande :Come faccio a vendere di più? Come posso differenziarmi dagli altri brand?
Oramai tutto funziona in base a ciò che è più appariscente, a ciò che è il “top di gamma”.
ma allora chi detta veramente la moda? Gucci o i compratori di Gucci ?
Una domanda a parer mio molto chiara.
Alessandro Michele è stato discreto, ma ciò che esalta la nostra autostima, il nostro ego e la nostra vanità, non è sicuramente una narrazione, ma un “Gucci” in bella mostra.
Io di corpi acqua e sapone ne vedo pochi in circolazione, tutte ci trucchiamo e il gioiello è una maschera,la vanità esiste ma indossare un gioiello non mi trasforma automaticamente in una vanitosa, dipende come lo indossi. Che male c’è ad essere furbi? Io preferisco apparire furba piuttosto che il contrario.
Vanità per definizione, è un compiacimento di se stessi e delle proprie qualità personali.
Noi associamo l’essere vanitosi con una connotazione negativa ma ciò è sbagliato.
Siamo umani, ogni individuo è vanitoso e ognuno di noi deve piacersi a proprio modo, con o senza gioielli, anche per una questione di autostima.
Ma ciò che intendevo commentare con il mio scritto, è che la vanità umana nasce da una causa storica, sociale e politica.
Oramai il mondo è indirizzato sull’apparire e sul “non essere”e questo, è molto utilizzato dai brand per vendere maggiormente.
Il tema della furbizia era rivolta alla strategia di marketing e da ciò ti pongo una domanda: sei tu furba o sono le grandi aziende che con la furbizia ti “ingannano” e ti fanno credere furba?
Il “Grande Fratello” di Orwell insegna.
Cara Maite ti confesso che io ho la presunzione di essere ragionevolmente libera e di vivere in un mondo dove posso esercitare le mie preferenze in ogni direzione. E’ chiaro che le aziende fanno il loro mestiere. Su questo hai perfettamente ragione. Ma a me pare che le aziende che ingannano abbiano la vita breve. Ho un’altra confessione da farti per onorare i tuoi bei interventi: personalmente le problematiche Essere o non Essere le lascio volentieri agli Amleto i quali notoriamente sono dei nevrotici incapaci di decidere alcunché. E poi non sono mica sicura che l’essere separato dall’apparire esista!
Cara Anna, condivido con lei che ogni singolo individuo è libero di fare delle scelte e vivere nel modo in cui vuole, ma di certo non si può dire lo stesso a livello di massa.
La popolazione italiana, per esempio, si basa su una costituzione, che non sono altro che norme alle quali noi cittadini dobbiamo sottostare e rispettare.
La legge è un “vincolo” sulla nostra libertà ma al contempo è essenziale per la convivenza.
Oltretutto anche le aziende hanno gli stessi vincoli, ma si differenziano per bravura e prestigio nel settore della vendita ( indirizzata alla massa ) e come fare per avere più ricavato senza essere dei fuori legge ?
Utilizzano la psicologia per indurre l’acquirente a comprare.
Forse il termine “ ingannare “ era troppo aggressivo ma il concetto è lo stesso, l’azienda ti induce a comprare un prodotto secondo la psicologia inversa.
Il tema dell’essere o del non essere è un personale punto di vista, nato da vari scritti, tra i quali uno di questi è tra i più famosi della letteratura italiana “uno,nessuno, centomila”.
Le ricordo inoltre, che gli amleto che lei tanto accusa definendoli “ nevrotici incapaci di decidere alcunché ” indagandosi sul proprio io e sull’universo che ci circonda, ci hanno permesso di avere più consapevolezza di noi, come persone e ottimi risultati pratici che hanno portato ad in evoluzione della specie.
Degli esempi? Pitagora con il suo teorema, Socrate e la sua arte della dialettica, Karl Marx, Einstein, Freud, Umberto eco e tantissimi altri.
“chi vuol esser lieto sia, di doman non v’è certezza”.
Mi arrendo, mi arrendo… con la smitragliata di nomi che hai fatto mi arrendo. Però vorrei ricordarti che se pur gli Amleto ci hanno permesso di avere più consapevolezza su fenomeni inconsci che interferiscono con la coscienza, questo è avvenuto grazie al fatto che ad ascoltarli c’è stato un Freud il quale dobbiamo presuppore non fosse vittima del nodo nevrotico essere/non essere. Amleto è finito in tragedia, Freud ci ha aiutato a capire una patologia. Tra i due tu a chi vorresti assomigliare?
Ehi! sapientona Anna e sapientona Maite, non sono sicuro di capire tutto ma mi state divertendo. Non so se c’entra qualcosa ma vorrei chiedervi se Alessandro Michele è Amleto o Freud?
Felice di averti divertito. Per rispondere alla tua pazza domanda: Amleto sono le clienti Gucci e il gioiello di Alessandro Michele è il farmaco.
Partendo dal fatto che Amleto è un personaggio immaginario nato dalla tragedia Shakespeariana del 500, che per l’appunto si conclude con l’obiettivo di essere una tragedia; a mio parere non si possono minimamente comparare i due soggetti.
Freud, al contrario, è stata una persona reale che ha studiato filosofia, medicina e psicologia toccando tutti i grandi “ nevrotici “.
Da lì si è interrogato sull’uomo, sull’essere e il non essere, e ha formulato tutte le sue teorie sul IO sul SUPER IO e sull’ES, ovvero l’inconscio umano, non che principale soggetto di studio della psicoanalisi di cui lui è fondatore.
Non mi capacito del fatto che lei non comprenda che Freud è stata una conseguenza di tutti i grandi pensatori e che alla fine, lui stesso lo è diventato mettendo in pratica il suo pensiero ed il pensiero dei suoi antenati.
Inoltre, bisogna anche tener conto che Freud ha vissuto gli anni dell inizio 900 in cui la medicina stava facendo enormi passi avanti.
Rispondendo alla domanda: io non vorrei essere nessuno di questi due personaggi.
Sono un artista, una studentessa, un appassionata, di sicuro non sto con le mani in mano.
Le cito una frase che mi ha fatto molto riflettere e che secondo me fanno tutti i più grandi “nevrotici”.
“I bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano”. Pablo Picasso.
Da un certo punto di vista penso che il gioiello abbia avuto un sorta di evoluzione simbolica; se da un certo punto di vista, nell’antichità, risultasse semplicemente un esercizio di stile dato dalla sfarzosità identificativa e un mero metro sociale, attualmente acquisisce un identità propria data principalmente dalla storia meramente concettuale che c’è dietro. Si è passato dal desiderare un gioiello semplicemente per il valore materiale e simbolo sociale, a desiderare un oggetto avente invece un coadiuvante intreccio di simbolismo, status e storia. Con questo penso anche come Alessandro Micheli sappia utilizzare questo attuale approccio verso ciò che il gioiello acquisice. Coaudiova meramente questi principi, portandoli all’estremo e creando una mossa di martketing senza precedenti, portando il cliente al desiderio di possedere ardentamente il tutto con la loro unicità. Da tutto ciò il gioiello, porta all’appagamento del proprio ego, come qualsiasi altro oggetto prodotto nell’era del consumismo e individualismo sfrenato portandosi concettualmente a un interscambio sviluppato nell’ottica di una società liquida.
Non male come interpretazione, anche se in alcuni passaggi sembra scritto da un filosofo ispirato dopo abbondanti bevute. Una coinvolgente musica di enunciati con idee giuste.
Gioielli. Da sempre sono gli oggetti legati al lusso e alla lussuria. Da sempre sono un sinonimo di bellezza e ricchezza. E allora perché Alessandro Micheli ha dovuto creare questo alone di misticismo medioevale intorno a questa collezione? Perché ha dovuto avvicinare un gioiello all’ “Hortus Deliciarum”?
La scelta del nome della collezione di gioielli “Hortus Deliciarum” rimanda alla cultura medioevale, periodo in cui, i desideri terreni venivano condannati dalla chiesa e dalla società. “Hortus Deliciarum” come metafora dei piaceri terreni prende forma in una collezione di gioielli estremamente sfarzosi, nella scelta dei materiali e degli ornamenti.
Un lavoro di storytelling davvero interessante e funzionale. A. Micheli non ha voluto conferire valore alla collezione tramite la scelta di materiali preziosi e forme ricercate, bensì tramite le emozioni che una storia può suscitare in ogni persona.
“Hortus Deliciarum” non ci attrae per il suo valore intrinseco, ma per il suo alone mistico che lo rende un oggetto del desiderio.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: cosa ci spinge oggi all’acquisto? il valore e la funzionalità di un prodotto; o l’emozionalità che crea il prodotto stesso?
Partendo dal presupposto di non essere un’amante dei gioielli sfarzosi e ingombranti, perché preferisco le “cose semplici”, posso dire che Alessandro Michele con questo gioiello si è superato. E’ riuscito a mettere insieme creatività, innovazione, moda e lusso. Creando così un vero e proprio gioiello che non potrà passare inosservato. Altra cosa che mi ha incuriosita è che dietro ad ogni oggetto c’è sempre una storia. Penso che molte persone non comprino il gioiello solo per la sua bellezza estetica, ma anche per il racconto che può avere. E’ come se l’artista iniziasse una storia e poi sta a noi (compratori) portarla a termine. Così da avere finali tutti diversi.
Leggendo questo articolo l’ho trovato molto interessante.
Premetto che praticamente non indosso gioielli e i pochi di essi che metto sono molto minimali, essenziali, quasi impercettibili. Non amo lo sfarzo o i gioielli troppo voluminosi e appariscenti, ma, nonostante il mio gusto personale, sono stata colpita e affascinata da questa collezione.
La storia che c’è dietro alla creazione di queste opere d’arte, è suggestiva e ammaliante. Indossare uno di quei gioielli ti farebbe sentire unica nonché elegante. E alla fine non è il sogno di ogni donna sentirsi una principessa?!
Penso che la scelta estetica e la scelta commerciale dietro a questa collezione sia stata molto efficace da parte del brand. Penso che Alessandro Michele abbia realizzato quello che ogni donna vuole quando indossa un gioiello, capendo anche il fatto che ogni persona sia unica nel suo genere.
I gioielli sono parte della cultura e della società e non è facile creare una storia dietro a una cosa così materiale come ha fatto Alessandro Michele, o altri design di alta moda, perché finché si parla di un gioiello poco costoso, o almeno meno costoso del brand Gucci, di solito ci si basa subito sull’estetica. Questo invece è un mondo molto più raffinato e artistico che va interpretato come un quadro (esempio che fece lei anche nell’articolo), un cliente che va nella gioielleria Gucci sicuramente sceglierà un gioiello piuttosto che un’altro anche in base al perché della sua esistenza, al perché è più raro o unico rispetto ad altri, e preferirà sempre l’esclusiva.
Per questo penso che Alessandro Michele sia un grande designer a un grande artista, ammiro come riesca con vari insieme di elementi e concetti lontani dalla perfezione ad arrivare invece alla perfezione stessa.
I gioielli attirano da sempre e sicuramente attirerebbero anche se non ci fosse una narrazione dietro, anche se questa fa sì che siano più desiderabili. Penso che la scelta di Alessandro Michele sia coerente con tutto il suo lavoro, se ha esagerato (poi dipende dai punti di vista) con i suoi vestiti, lo ha fatto di conseguenza anche con i gioielli, sono grandi, con pietre preziose, sfarzosi, pieni di ornamenti e il fatto che siano pezzi unici aumenta il desiderio dell’acquisto; sono ovviamente indirizzati ad un altro tipo di target, a chi può investire una certa cifra di soldi per un gioiello, ma ciò non accadrebbe se lo si banalizzasse ad un semplice accessorio fatto di materiali pregiati, narrando una storia intorno il gioiello in sé acquista un valore diverso, direi quasi inestimabile. Credo che Gucci sia arrivata ad un livello che le consente un po’ di fare come vuole, anche se alcune cose ci sembrano strambe sicuramente ci sarà qualcuno disposto ad acquistarle, forse perché vede un vero investimento oppure perché si è fatto comprare dalla storia che gli è stata narrata, o infine semplicemente perché gli piace.