Atlantide, il piccolo capolavoro di Yuri Ancarani

Atlantide, il piccolo capolavoro di Yuri Ancarani

MONDO – Proiettato in sala come evento speciale il 22, 23 e 24 Novembre, Atlantide del regista Yuri Ancarani si rivela essere un film importante, complesso, che trova naturale posizionamento tra i lustrini e i riti ampollosi e formalizzati dei Festival europei, non facendo però di questo il proprio loculo esistenziale.

Presentato nella sezione Orizzonti della Settantottesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, quello del quarantanovenne regista ravennate è un film anarcoide, iconoclasta, una sette veli policromatica e multisensoriale che rende Atlantide, l’opera di Ancarani prossima e non distante dalla comprensione del pubblico.

Atlantide, che rifugge qualsiasi schematismo e incasellamento classico di “genere”, è un film che solca e percorre i mari tortuosi della sperimentazione avanguardista, di un cinema psichedelico, di frattura e di rottura, che tralascia qualsivoglia morale rassicurazionista ed embrionale a favore di un approccio estremo e radicale, andando a mostrare il polimorfismo del linguaggio cinematografico e a sovvertire i classicizzati codici di lettura.

LA STRUTTURA NARRATIVA

La dimensione strettamente narrativa è quasi del tutto assente in Atlantide. Di “fatti”, azioni, avvenimenti, peripezie, stravolgimenti questo film è volutamente scarno e spoglio e il regista, nell’impantanato quotidiano lagunare dei protagonisti del racconto, si concentra ad osservare e perlustrare, come fosse uno speleologo, la normalità di una Venezia sott’acqua, marginale e periferica, quasi scapigliata, torbida come la laguna, sideralmente distante dalle luci della ribalta di Piazza San Marco.

Una Venezia che fuoriesce dalla fissità emotiva delle cartoline, che si spoglia della sua immagine pubblica e che disvela la sua faccia più segreta e recondita. Questa immagine di Venezia, però, è potuta emergere anche grazie all’assenza di sceneggiatura che compone il film a favore di un approccio antropologico e documentaristico, che nell’osservazione diretta durata ben quattro anni ha trovato compiuta realizzazione.

La narrazione, se così la possiamo impropriamente definire, è incentrata sulla vita di un giovane, Daniele, che vive sull’Isola di Sant’Erasmo nella laguna di Venezia e che porta avanti la sua quotidianità nell’incertezza di piccoli espedienti.

Daniele è un ragazzo taciturno, riservato, silenzioso e criptico come la Venezia che Ancarani racconta, che conduce una vita dietro le quinte rispetto ai suoi amici condividendo con loro, però, l’amore e la passione per i barchini: dei piccoli motoscafi truccati che sfrecciano intrepidi sulle acque della laguna.

Una vera religione, questa, una devozione laica, un vero e proprio rito iniziatico che nella manomissione dei motori per renderli più potenti e veloci trova il pertugio per l’età adulta. E’ un passaggio obbligato, una tappa imprescindibile che consente di scavallare la fanciullezza e abbracciare la virilità del maschio adulto, il dominio sulla propria comunità, il prestigio che diventa ragione sociale e riconoscimento identitario, l’affermazione del proprio Io nel mondo.

Lo sarà anche per Daniele, per il quale possedere un barchino supersonico, che sfugge quasi alle leggi della fisica per far colpo sulle ragazze, è un pensiero martellante, un’ossessione morbosa che diventa principio e fine.

ATLANTIDE: LO SPECCHIO DI UNA GENERAZIONE

Atlentide, Yuri Ancarani. Foto da: Quinland, rivista di critica cinematografica

Il film riflette sullo smarrimento di un’intera generazione, il suo disagio profondo, la difficoltà di instaurare relazioni portate all’estremo, la noia di sartriana memoria che viene spezzata solo dall’ebbrezza dell’alcool e il frastuono della musica trap, il sesso ostentato e dislocato sul perimetro dei barchini quasi a voler spostare sempre di più la soglia del limite, alla ricerca di un oltre ipotetico vitale per fronteggiare la miseria della vita quotidiana.

Lo sprofondo di un’intera generazione viene rappresentato senza, però, alcun intento moralistico o giudicante, senza l’atteggiamento del vecchio saggio che posa la mano sulla spalla del giovane irresponsabile, senza paternalismi o sermoni presbiteriali.

In Atlantide rappresenta ciò che è, si inscena ciò che si vede. Ciò è favorito e amplificato anche dalla scelta geografica dell’autore: Venezia. Il paesaggio lagunare, la sua aura di mistero, di indistinto, di grigio come linea di congiunzione tra acqua e cielo dilata il tempo, “moviolizza” le sensazioni e gonfia i turbamenti.

L’estetica delle immagini, con i barchini che sfrecciano caoticamente sulle acque della Serenissima alzando schizzi e schiuma come fosse polvere di uno sterrato, diventa sublimazione di un moto animale, un’anima di una generazione inquieta, prigioniera di un male di vivere a cui non è in grado di dare volto e nome.

I ragazzi di Ancarani sono di pochissime parole, toccano la vita solo con i gesti, come segugi ricercano emozioni portate all’estremo perché abitano una quotidianità che non basta mai. Ancarani riesce nel meraviglioso intento di rendere la laguna un imbuto che inghiotte le speranze dei ragazzi, traccia i contorni di un’epopea acquatica fatta di prepotenze maschili e immagini distopiche in un viaggio psichedelico che inverte, e sovverte, i tradizionali codici interpretativi.

Atlantide di Yuri Ancarani è un vero piccolo capolavoro, che tra finzione e documentario ferma e afferma una generazione perduta all’orizzonte.

Claudio Troilo

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